La Mediazione PedagogicaLiber Liber

IL RAPPORTO INDIVIDUO-AMBIENTE NELL'OPERA DI JOHN DEWEY
di  Giordana Szpunar

CAPITOLO I: IL DARWINISMO DI JOHN DEWEY

1.1 L’INFLUENZA DEL DARWINISMO SULLA FILOSOFIA

Nel 1910 Dewey pubblica, in un volume intitolato The Influence of Darwin on Philosophy, una serie di saggi fra cui The Influence of Darwinism on Philosophy, testo del suo intervento in una conferenza su Charles Darwin and his Influence on Science tenutasi presso la Columbia University nel 1909. Come recita il titolo, l’articolo illustra qual è stato l’impatto che il darwinismo e le sue implicazioni hanno avuto sulla filosofia e sulla teoria della conoscenza in particolare e, di qui, sulla morale, sulla politica e sulla religione. Ripercorriamo dunque ciò che Dewey afferma nell’articolo.

E’ noto a tutti che la pubblicazione de L’origine delle specie abbia apportato una vera e propria rivoluzione copernicana nel campo delle scienze naturali. Ma ciò che viene spesso trascurato è il fatto che, più in generale, «la combinazione delle parole origine e specie diede corpo ad una rivolta intellettuale e introdusse una nuova disposizione intellettuale»[1]. I concetti dominanti nella filosofia della natura e della conoscenza all’interno della tradizione filosofica occidentale, da Aristotele fino alla rivoluzione scientifica del XVII secolo e a Kant, si basavano infatti sul presupposto della superiorità del fisso e del finale, mentre il mutamento e l’origine erano sentiti come segni di difetto e di inferiorità.

Nell’impadronirsi dell’arca sacra dell’assoluta permanenza, nel trattare le forme che erano state considerate come modelli di fissità e perfezione come entità con un’origine e una dissoluzione, L’origine delle specie introdusse un modo di pensare che era infine destinato a trasformare la logica della conoscenza, e da qui il trattamento della morale, della politica e della religione[2].

Per dimostrare la portata della rivoluzione darwiniana e la sua influenza sulla filosofia Dewey, nel secondo paragrafo dell’articolo, ripercorre, a grandi linee, la storia della parola “specie”, termine in cui, a suo parere, è implicata tutta la storia del pensiero occidentale. Due attributi fondamentali, fissità e finalità, hanno accompagnato il concetto di specie per quasi duemila anni, e soltanto epocali rivoluzioni scientifiche, rappresentate da Copernico in campo fisico e da Darwin in campo biologico, sono riuscite a smontare l’apparato filosofico ed epistemologico che tali caratteristiche sorreggevano.

Specie è, a partire dalla filosofia antica, innanzi tutto fissità. Come afferma Visalberghi, specie è:

Aristotelicamente “forma”, è un tipo di fissità e di perfezione che, anche se non è al momento realizzata, “attira” il processo. Esiste in assoluto e per sempre, è qualche cosa di cui non è lecito che si possa parlare in termini di origine e sviluppo reale[3].

I Greci, per primi, prestarono attenzione a certe cose, «d’ora innanzi definite come semi, uova, o germi»[4], le quali, se inizialmente e apparentemente sembravano inerti e passive, in determinate condizioni mutavano velocemente in forma, dimensione e qualità. Tali cambiamenti negli organismi viventi venivano considerati come ordinati e cumulativi, tendenti costantemente in una direzione.

Secondo una simile visione il mutamento di ogni singolo essere vivente si componeva di una serie di stadi che si succedevano in ordine progressivo, in modo che ogni stadio, per quanto differente dal precedente, conservasse il suo effetto e, nello stesso tempo, preparasse la strada per l’attività del livello susseguente. L’organizzazione progressiva non si sarebbe esaurita finché non si fosse raggiunto «un vero termine finale, un telos, un fine perfetto e completo»[5] che, a sua volta, avrebbe svolto una serie di funzioni, la più importante delle quali sarebbe stata la produzione di altri germi «capaci dello stesso ciclo di attività autocompletante»[6].

Lo stesso meccanismo si ripresentava in tutti gli organismi che popolavano la Terra, cosicché individui estremamente distanti tra loro in termini di tempo e di spazio risultavano accomunati da questo principio che permeava la natura intera, e che «sembrava dare la capacità di comprendere a fondo la vera natura della realtà stessa. Ad esso Aristotele diede il nome eidos. Gli scolastici tradussero questo termine come specie»[7].

In tutta la tradizione occidentale, quindi, il concetto di specie è rimasto indissolubilmente legato all’idea di fissità; ma esso, come abbiamo visto, portava con sé anche l’idea di un fine: Aristotele elaborò il finalismo nella Fisica, e ne individuò la testimonianza decisiva nel fenomeno della permanenza delle specie viventi. Tutti gli organismi viventi erano controllati da un “principio regolatore” che ne dirigeva i mutamenti per condurli infine alla realizzazione della loro forma finale e perfetta. Il principio finalistico secondo Aristotele era applicabile tanto agli organismi viventi quanto ai corpi inorganici (vedi la dottrina dei “luoghi naturali”) e agli astri, il cui movimento sarebbe stato determinato da amore e desiderio della perfezione divina.

Il concetto di eidos venne applicato all’intero universo, ad ogni cosa in esso che conservasse ordine e costanza nei propri mutamenti. Come lo stesso Aristotele scriveva «l’assenza di casualità e l’immanente presenza di un fine saranno rintracciabili in tutte le opere della natura». In tal modo la concezione di specie come forma immutabile e causa finale, diventò il principio centrale della natura e della conoscenza e, quindi, il fondamento su cui posava la logica della scienza. Conoscere significava:

Afferrare un fine permanente che realizza se stesso attraverso dei cambiamenti, mantenendoli all’interno dei limiti e dei confini di una verità data, [...] porre in relazione al loro unico fine tutte le forme particolari: pura intelligenza contemplativa[8].

La natura è, quindi, una realtà in continua trasformazione, e la stessa esperienza umana rimane coinvolta nel flusso incessante dei mutamenti. Dunque, gli ordinari strumenti umani dell’osservazione, dell’esperienza diretta, della percezione sensoriale, risultano essere poco attendibili al fine di una conoscenza pura. Inoltre, anche se i cambiamenti attraverso cui viene raggiunta la forma perfetta sono mutamenti sensibili, il principio regolatore e finalizzatore di tutte le cose non è accessibile ai sensi. In tal modo si presentano due opportunità:

O possiamo trovare gli oggetti appropriati e gli organi della conoscenza nelle interazioni reciproche delle cose che cambiano; oppure, per evitare il contagio del mutamento, dobbiamo cercarli in qualche regione trascendente e celeste. La mente umana [...] esaurì la logica dell’inalterabile, del finale e del trascendente, prima di avventurarsi per le distese inesplorate della generazione e della trasformazione[9].

Darwin, con la sua teoria della selezione naturale, riuscì, abbattendone le fondamenta sul terreno delle scienze della vita, a far vacillare tutta la costruzione, ponendo salde basi per la formulazione di una nuova filosofia della natura e della conoscenza. Egli non fu, tuttavia, il primo a mettere in discussione la filosofia classica della conoscenza. I primi decisivi colpi mortali le furono infatti inferti dalla rivoluzione scientifica iniziata con Copernico e portata avanti da Galileo, Keplero e Newton nel corso dei secoli XVI e XVII. La rivoluzione, infatti, riguardò non solo la cosmologia e le scienze fisiche, ma tolse anche fondamento ad alcuni capisaldi della filosofia classica, ottenendo un duplice esito: oltre che compiere il primo grande passo verso una nuova scienza sperimentale, diede l’avvio ad una nuova filosofia della natura.

La rivoluzione astronomica portò dall’universo aristotelico-tolemaico, regno della fissità e dell’immutabilità (le stelle sono fisse, la terra è immobile, i corpi celesti sono incorruttibili, i pianeti si muovono di moto circolare eterno, l’universo è chiuso e finito) ad un universo aperto, corruttibile, privo di centro, in cui ogni corpo celeste si muove. In tal modo, conferendo al cosmo una nuova configurazione, la rivoluzione astronomica cominciò a scardinare la concezione fissista e finalistica, privandola di un fondamentale campo di applicazione.

E’ esemplare in questo senso il seguente passo su Galileo, in cui Dewey connette le conquiste scientifiche ad un nuovo atteggiamento filosofico di fondo.

Quando Galileo disse: “E’ mia opinione che la Terra è assai nobile e ammirevole a causa delle così tante e così differenti alterazioni e generazioni che incessantemente si verificano al suo interno”, egli espresse il nuovo umore che stava per imporsi nel mondo: lo spostamento dell’interesse dal permanente al mutevole[10].

E’ chiaro che, senza gli enormi progressi teorici e metodologici compiuti da Copernico, Keplero, Galileo e dai loro successori, Darwin non avrebbe avuto la possibilità di realizzare una corrispondente e speculare rivoluzione nel campo delle scienze della vita. La rivoluzione copernicana operata da Darwin è consistita infatti:

Nell’aver conquistato i fenomeni della vita al principio di transizione, e quindi nell’aver liberato la nuova logica per applicarla all’intelletto, alla morale, alla vita[11].

Prima di spiegare le conseguenze della rivoluzione darwiniana per la filosofia in generale e per il tema della nostra indagine in particolare, conviene ripercorrere brevissimamente alcuni passaggi della storia della biologia per meglio comprendere i contenuti della rivoluzione operata da Darwin.

In realtà le prime concezioni evoluzionistiche possono essere fatte rientrare all’interno del più vasto fenomeno definito “la scoperta del tempo”, che consistette nell’ingresso, nell’ampliamento e nel mutamento qualitativo della dimensione temporale nella considerazione della natura e dell’uomo.

Il fissismo in biologia e, più in particolare, l’idea della fissità delle specie cominciarono ad essere messi in discussione già dalla metà del 1700 circa dalla nuova scala temporale proposta da Georges-Louis Leclerc de Buffon: l’idea che le strutture dell’universo fossero eterne, venne lentamente soppiantata dall’idea che la tendenza al mutamento si nascondesse anche nelle cose apparentemente più stabili.

Solo con Lamarck, comunque, si ha la formulazione di una prima vera e propria teoria evoluzionista. Tuttavia, nonostante anticipasse i tempi, la teoria di Lamarck non ebbe molta fortuna e, anzi, le sue idee trasformistiche uscirono sconfitte dallo scontro con i sostenitori del fissismo. Inoltre, la concezione lamarckiana della variabilità degli organismi rimase «essenzialmente finalistica»[12].

Fu solo con Darwin, e con la formulazione della teoria della selezione naturale, che la dottrina finalistica venne definitivamente abbandonata dalle scienze della natura e, di conseguenza anche dalla filosofia. Infatti, pur se le scienze astronomiche, fisiche e chimiche, a seguito dei loro progressi, erano approdate all’esclusione delle cause prime immutabili e finali dai rispettivi campi, assestando così un duro colpo alla dottrina finalistica, gli sviluppi delle scienze della vita, al contrario, consolidarono inizialmente l’argomento finalistico.

Ogni scienza del mondo organico, dalla botanica alla zoologia all’embriologia, progredendo nella quantità e nella qualità delle osservazioni, poteva ammirare in misura sempre maggiore

I meravigliosi adattamenti degli organismi al loro ambiente, degli organi all’organismo, delle diverse parti di un organo complesso - come l’occhio - all’organo stesso; il far presagire nelle forme più basse quelle più alte; la preparazione nei primi stadi dello sviluppo di organi che solo più tardi avrebbero avuto una loro funzione[13].

Tutto ciò non faceva che dare prestigio e credibilità alla dottrina finalistica, tanto che alla fine del 1700 essa era «il punto centrale della filosofia teistica e idealistica»[14], proprio perché fortemente difesa dalle scienze della vita.

La teoria darwiniana dell’origine delle specie e della selezione naturale ebbe la funzione di sottrarre, completamente e definitivamente, qualsiasi fondamento a tale filosofia. Infatti, se si considerava l’ipotesi che tutti gli adattamenti degli organismi viventi fossero dovuti al costante mutamento e all’eliminazione delle variazioni che risultavano dannose per l’organismo stesso, non rimaneva posto per «un’intelligente e anteriore forza causale di progettare e preordinare tali adattamenti»[15].

Certo Darwin non credeva, e lo affermava esplicitamente, che l’universo fosse il risultato della casualità o della necessità. La sua teoria della selezione naturale, secondo cui negli organismi viventi si presentano variazioni tanto utili quanto inutili, scelte e selezionate dalla lotta per l’esistenza, non è riconducibile né alla prima né alla seconda categoria. Dunque, pur se i mutamenti che riguardano gli organismi non sono casuali, non si può affatto sostenere che rispondano ad una logica finalistica, essendo del tutto illegittima l’applicazione di un tale principio alla natura in generale.

L’opera di Darwin, quindi, rappresentò, in primo luogo, una svolta decisiva nel campo delle scienze della natura, abbattendo una volta per tutte l’edificio costruito sulla concezione fissista e finalistica degli organismi e della natura in generale. La sua importanza, però, risiede soprattutto nell’aver contribuito in modo decisivo ad una rivoluzione intellettuale di più ampia portata, consistente nell’introduzione della logica genetica e sperimentale nel metodo filosofico, a seguito di cui viene trasformata, non solo la filosofia della natura e della conoscenza, ma anche la morale, la politica, la religione.

Nel IV ed ultimo paragrafo del saggio, Dewey, pur avendo precedentemente ammesso di trovarsi nel «crepuscolo della transizione intellettuale», in cui le conseguenze dell’applicazione della nuova logica alla filosofia sono ancora agli inizi, e, quindi, in una situazione in cui è necessario «unire la temerarietà del profeta all’ostinazione del partigiano per azzardare un’esposizione sistematica dell’influenza del metodo darwiniano sulla filosofia»[16], tira le fila del suo discorso e ne espone brevemente le conclusioni.

Secondo Dewey, le conseguenze delle idee e del metodo darwiniano sulla filosofia si possono riassumere in tre punti.

In primo luogo, l’introduzione della nuova logica nella filosofia determina un passaggio significativo dall’interesse per le origini e le finalità assolute alla ricerca di valori e condizioni specifici e particolari. Secondo Darwin la disputa finalismo versus casualità non aveva soluzione.

L’impossibilità di assegnare il mondo nella sua interezza alla casualità e le sue parti al finalismo, indicava l’insolubilità della questione. [...] L’unico oggetto di conoscenza verificabile o fruibile è la particolare configurazione di cambiamenti che genera l’oggetto di studio insieme alle conseguenze che poi derivano da esso, e nessuna domanda intellegibile può essere sollevata in relazione a ciò che, per assunzione, ne resta al di fuori[17].

La vecchia logica imponeva alla filosofia l’indagine e il recupero delle essenze formali degli oggetti, delle loro origini assolute e delle loro cause finali; essa «spiegava lo spegnimento del fuoco da parte dell’acqua con l’essenza formale dell’acquosità e il dissetarsi con l’acqua con la causa finale dell’acquosità»[18] .

Con l’introduzione della logica darwiniana l’interesse della filosofia si posa sull’investigazione delle condizioni specifiche e particolari che generano i fenomeni. Come afferma Dewey, tale interesse:

Si sposta dall’essenza generale dietro a cambiamenti speciali alla questione di come cambiamenti speciali servano o facciano fallire scopi concreti; si sposta da un’intelligenza che dava forma alle cose una volta per tutte alle intelligenze particolari attraverso le quali le cose sono modellate ancora adesso; si sposta dal fine ultimo del bene all’incremento diretto della giustizia e della felicità che l’amministrazione intelligente delle condizioni esistenti può generare e che l’attuale negligenza o stupidità distruggerà o abbandonerà[19].

In secondo luogo, l’adozione della logica darwiniana contribuisce ad operare, all’interno della filosofia, uno spostamento di obiettivi. Infatti:

Il tipo classico di logica inevitabilmente indirizza la filosofia a provare che la vita deve avere certe qualità e certi valori - non importa come l’esperienza presenti la materia - in virtù di qualche remota causa e di qualche eventuale scopo. L’obbligo di una giustificazione universale inevitabilmente accompagna tutto il pensiero che fa dipendere il significato di occorrenze speciali da qualcosa che sta sempre e comunque dietro di esse[20].

Lo scopo della filosofia guidata dalla logica tradizionale è quello di fornire una giustificazione universale dei fenomeni attingendo all’universo del trascendente; la vita nel suo intero viene considerata come «regolata da un principio trascendente verso uno scopo finale e inclusivo»[21] .

Questo tipo di atteggiamento nei confronti della realtà pone un problema:

L’abitudine di derogare dai significati e dagli usi presenti ci impedisce un serio riconoscimento dei mali che essi presentano e impedisce un serio interesse al bene che promettono ma che ancora non realizzano. Questa abitudine fa rivolgere il pensiero all’occupazione di trovare un rimedio trascendente per alcuni e una garanzia universale per gli altri[22].

Assumendo il nuovo tipo di logica questo problema viene meno: la filosofia rinuncia alla ricerca di qualsiasi giustificazione universale, per dedicarsi all’indagine e all’analisi delle «specifiche condizioni della generazione»[23] e per sfruttare tali conoscenze particolari al fine di migliorare la cultura, l’educazione, la politica.

Infine, conducendo la filosofia ad occuparsi delle specifiche condizioni che generano i fenomeni, «la nuova logica introduce la responsabilità nella vita intellettuale»[24]. Ciò vuol dire che la logica darwiniana non solo modifica l’oggetto e il fine della filosofia, ma ne trasforma anche, e di conseguenza, la funzione. Infatti:

Idealizzare e razionalizzare l’universo in generale rappresenta dopo tutto una confessione dell’incapacità di gestire il corso delle cose che ci riguardano da vicino. Finché l’umanità è stata affetta da questa impotenza, ha spostato il peso di responsabilità che non poteva sopportare sulle più adeguate spalle della causa trascendente. Ma se è possibile comprendere a fondo le condizioni specifiche del valore, le conseguenze specifiche delle idee, la filosofia deve presto diventare un metodo per individuare e interpretare i conflitti più seri che capitano nella vita, e un metodo per progettare modi di occuparsi di essi: un metodo di diagnosi e prognosi morale e politica[25].

Questo è un processo ancora in corso, caratterizzato da notevoli sforzi di revisione delle concezioni filosofiche tradizionali, ma anche da una «recrudescenza di filosofie assolutistiche»[26]; soprattutto è un processo fortemente auspicato dallo stesso Dewey, il quale, come vedremo, considera la filosofia come nient’altro che uno strumento necessario al fine di conoscere e di comprendere la realtà in cui siamo immersi per modificarla a nostro vantaggio.

 

[1] J. Dewey, The Influence of Darwinism on Philosophy, in The Influence of Darwin on Philosophy, Indiana University Press, Bloomington, 1965, p. 1. La traduzione è di chi scrive.

[2] Ivi, pp. 1-2.

[3] Aldo Visalberghi, Pedagogia e scienze dell’educazione (1978), Milano, Mondadori, 1990, p. 90.

[4] J. Dewey, The Influence of Darwin on Philosophy, cit., p. 3.

[5] Ivi, p. 4.

[6] Ibidem.

[7] Ivi, p. 5.

[8] Ivi, p. 6.

[9] Ivi, pp. 6-7.

[10] Ivi, p. 8.

[11] Ivi, pp. 8-9.

[12] Cfr. Antonello La Vergata, L’evoluzione biologica: da Linneo a Darwin. 1735-1871, Torino, Loescher, 1979.

[13] J. Dewey, The Influence of Darwin on Philosophy, cit., p. 11.

[14] Ibidem.

[15] Ibidem.

[16] Ivi, p. 9.

[17] Ivi, pp. 13-14.

[18] Ivi, p. 14.

[19] Ivi, p. 15.

[20] Ibidem.

[21] Ivi, p. 17.

[22] Ivi, pp. 15-16.

[23] Ivi, p. 17.

[24] Ibidem.

[25] Ibidem.

E’ interessante mettere in luce che il concetto di responsabilità ha una valenza fortemente biografica. Tale atteggiamento di fondo nei confronti della vita, infatti, non è riferibile a qualcosa come la filosofia in generale, ma appartiene piuttosto al singolo, di cui, come tratto qualificante, ne definisce l’individualità.

In questo senso, affermando che la nuova logica introduce la responsabilità nella vita intellettuale, Dewey intende dire che è compito precipuo di ogni intellettuale assumere sulle sue spalle l’impegno a confrontarsi costantemente con la realtà, facendo della sua riflessione diagnosi e prognosi morale e politica.

D’altra parte Dewey testimoniò con la sua stessa esistenza questa concezione della filosofia, abbinando una riflessione di tal genere a continui interventi pratici, che vanno, per fare degli esempi, dall’istituzione della scuola di Chicago alla presa di posizione nei confronti di Trotsky.

«La figura di John Dewey […] corrisponde abbastanza male alla figura tradizionale del filosofo. Può rammentarci piuttosto quella del vecchio yankee, capitano di industria, inventore o statista, che rimane sino all’ultimo al suo posto di lavoro; tant’è vero che c’è chi ha ravvisato in Dewey il tipo dell’uomo di affari e di mondo, non certo nel senso banale ma in quello più pieno, di persona profondamente inserita nella vita concreta; e si è esaltato in lui l’uomo che è divenuto a public power, una pubblica potenza» (A. Visalberghi, John Dewey, Firenze, La Nuova Italia, 1976, p. 1).

«Né il Dewey si limitò alle enunciazioni teoriche, ma intervenne sempre dovunque gli parve che la sua autorità e il suo scoperto impegno potessero migliorare una situazione, intervenne sulle questioni razziali circa i negri e circa gli ebrei, su quelle coloniali, su quelle dell’estremo oriente, intervenne per il caso Sacco-Vanzetti, intervenne nel modo più impegnativo in difesa di Trotsky […], intervenne a favore di ogni iniziativa di pace, pur criticando apertamente qualunque illusione utopistica» (ivi, p. 8).

[26] J. Dewey, The Influence of Darwin on Philosophy, cit., p. 18.

 

 

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