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IL RAPPORTO INDIVIDUO-AMBIENTE NELL'OPERA DI JOHN DEWEY
di  Giordana Szpunar

3 CAPITOLO III: IL RAPPORTO INDIVIDUO-AMBIENTE IN INTELLIGENZA CREATIVA

3.2 SUL CONCETTO DI ESPERIENZA

Il concetto tradizionale di esperienza, fondato sulla contrapposizione tra soggetto e oggetto, comune agli empiristi e ai loro avversari, risulta, ormai, «del tutto insostenibile alla luce della scienza e della prassi sociale»[4]. Dewey rinviene cinque caratteristiche essenziali che definiscono tale concetto e, assumendo un punto di vista biologico, in particolare evoluzionista, mette in luce la fallacia di ciascuna di esse.

Esponiamo allora brevemente questi punti.

1. L’esperienza non va considerata come un fatto primariamente conoscitivo. Essa appare, piuttosto, come manifestazione di un’interazione dell’organismo con l’ambiente circostante ed è evidentemente «un fatto del rapporto tra un essere vivente e il suo ambiente naturale e sociale»[5] .

2. L’esperienza non è un evento esclusivamente psichico pervaso di soggettività. Si tratta, al contrario, di «un mondo genuinamente oggettivo che entra nelle azioni e nelle passioni degli uomini e che subisce modificazioni attraverso le loro risposte»[6].

3. L’esperienza non consiste in una mera registrazione di ciò che è avvenuto, degli eventi passati, non si riduce al riferimento a un precedente. Diversamente, «l’esperienza nella sua forma vitale è sperimentale, sforzo di cambiare il dato»[7], quindi essa è definita da una proiezione nel futuro.

4. L’empirismo è legato al «particolarismo» e considera l’esperienza come priva di continuità. Al contrario, rappresentando uno sforzo per dominare in nuove direzioni l’ambiente al quale è subordinata, l’esperienza è feconda di nessi e di continuità.

5. L’esperienza e il pensiero non sono termini antitetici; l’esperienza non è separata dal pensiero. Essa non solo è in modo evidente ricca di inferenze, ma si può affermare addirittura che «non esiste all’evidenza nessuna esperienza cosciente senza inferenza»[8].

Dewey critica, quindi, allo stesso modo l’empirismo, il razionalismo e il kantismo[9], dottrine che portano avanti definizioni di esperienza che sono ormai divenute improponibili e inaccettabili. Così, secondo l’autore, tutte le interpretazioni del concetto di esperienza successive a Kant «non sono state empiriche», ma sono state «deduzioni, da premesse innominate, di ciò che l’esperienza deve essere»[10], in cui non sono stati presi in considerazione gli importanti risultati raggiunti attraverso lo sviluppo delle scienze, in particolare di quelle biologiche.

Il soggetto conoscente, definito dalle diverse dottrine anima, io, mente, spirito, coscienza, non ha trovato un sostituto empirico finché i progressi in campo scientifico non hanno dimostrato che «i cambiamenti fisici sono correlazioni funzionali di energie e che l’uomo è continuo colle altre forme della vita»[11]. Ora, dunque, non è più possibile mantenere la figura del soggetto tradizionale e tralasciare la lezione biologica. Si rende necessario, piuttosto, assumere come punto di partenza le conquiste delle scienze della natura, per ottenere finalmente una definizione empirica, e quindi corretta e legittima, dell’esperienza.

Se si assume come valida la teoria dell’evoluzione organica, e quindi si ammette la dottrina della continuità biologica, l’uomo va considerato come un organismo «almeno continuo» con le altre forme di vita e con i processi chimici e fisici che caratterizzano le attività organiche.

Se si accetta lo sviluppo biologico, il soggetto dell’esperienza è almeno un animale continuo colle altre forme organiche in un processo di organizzazione più complessa. E a sua volta un animale è per lo meno continuo coi processi chimico-fisici che, nelle cose viventi, sono organizzati in modo da costituire realmente le attività della vita con tutti i caratteri che li definiscono[12].

Dati questi presupposti, è possibile fornire alcuni elementi alla nuova definizione di esperienza alla quale Dewey tenta di arrivare. L’esperienza si raccoglie sempre intorno ad un centro, ad un organismo vivente. Da un punto di vista biologico, l’esperienza può essere legittimamente ridotta alla vita: essa risulta essere l’insieme di tutti gli eventi che riguardano un organismo dalla nascita alla morte. La vita d’altra parte, e questo è evidente a tutti, non si svolge nel vuoto, ma necessita di un ambiente, di un «mezzo ambiente», caratterizzato da alcune condizioni che ne permettano lo sviluppo. E’ chiaro allora che il vivere, e quindi l’esperienza di ogni essere vivente, consiste in un legame ininterrotto tra l’organismo ed il proprio ambiente.

Ogni trattazione dell’esperienza deve oggi accordarsi colla considerazione che esperimentare significa vivere, e che il vivere procede dentro e a causa di un mezzo ambiente, e non nel vuoto. Dove c’è esperienza c’è un essere vivente. Dove c’è vita, c’è un doppio nesso mantenuto coll’ambiente[13].

Tuttavia, il nesso che lega l’organismo al proprio ambiente non funziona esclusivamente in termini positivi. E’ vero che la vita è resa possibile solo all’interno di un ambiente e grazie alla presenza di determinate energie ambientali che alimentano lo sviluppo di certe funzioni organiche; ma è anche vero che l’ambiente non fornisce solo elementi utili allo sviluppo delle funzioni vitali. Le energie ambientali, infatti, agiscono tanto a vantaggio quanto a svantaggio dell’organismo vivente.

In parte le energie ambientali costituiscono le funzioni organiche; vi penetrano. La vita non è possibile senza un tale appoggio diretto da parte dell’ambiente. Ma mentre tutti i cambiamenti organici dipendono dalle energie naturali dell’ambiente per la loro origine e produzione, le energie naturali talvolta portano avanti con successo le funzioni organiche e talvolta agiscono contro la loro continuazione. Crescenza e decadenza, sanità e malattia, sono ugualmente continue colle attività dell’ambiente naturale. La differenza sta nella portata di ciò che accade sulla futura attività vitale[14].

L’organismo, a sua volta, non subisce passivamente le influenze dell’ambiente e la sua vita non è una semplice emanazione di esso. L’essere vivente, infatti, ha il potere di agire sul proprio ambiente e di modificare la direzione degli eventi naturali. L’azione dell’organismo sull’ambiente viene intrapresa, da una parte, al fine di perpetuare le circostanze favorevoli e rendere maggiormente collaborative quelle neutre, dall’altra, per evitare l’influenza di quelle sfavorevoli. In altre parole, l’animale (inteso in senso biologico e quindi comprendente anche l’uomo) necessita delle risorse ambientali per la propria esistenza, ma esercita, allo stesso tempo, un’influenza su di esse per garantire il proseguimento della propria sopravvivenza.

Le riuscite attività dell’organismo, quelle entro le quali si incorpora l’assistenza dell’ambiente, reagiscono sull’ambiente per produrre delle modificazioni favorevoli al loro stesso avvenire. E’ in potere dell’uomo di rispondere a ciò che accade attorno a lui in modo che questi cambiamenti prendano una direzione piuttosto che un’altra, che prendano, cioè, quella che è richiesta dal suo funzionamento ulteriore. Ma mentre la vita dell’uomo è in parte sostenuta dall’ambiente, essa è tutt’altro una pacifica emanazione di questo. Essa è costretta a lottare, vale a dire a impiegare l’appoggio diretto dato dall’ambiente per effettuare indirettamente dei cambiamenti che altrimenti non accadrebbero. In questo senso la vita procede mediante il dominio dell’ambiente. Le sue attività devono modificare i cambiamenti che hanno luogo attorno ad essa; devono neutralizzare gli eventi ostili e devono trasformare quelli neutri in fattori cooperativi o in un’efflorescenza di nuovi tratti[15].

Questo è ciò che si definisce, generalmente, adattamento. Spesso l’adattamento viene considerato semplicemente come un processo messo in atto dall’organismo al fine di rendersi conforme al proprio ambiente. In realtà, come si è già visto, l’adattamento non è semplice accoglimento passivo da parte dell’individuo dell’ambiente in cui si trova immerso. L’essere vivente, infatti, oltre a subire i cambiamenti dell’ambiente, a sua volta agisce in modo che questi prendano certe direzioni piuttosto che altre, vale a dire, spinge i mutamenti ambientali in direzioni maggiormente favorevoli alla propria sopravvivenza.

Come la vita esige che l’ambiente sia adatto alle funzioni organiche, così l’adattamento all’ambiente significa non accettazione passiva di questo, ma un’attività tale per la quale i mutamenti ambientali prendano una certa direzione[16].

Inoltre, è necessario precisare che il tipo di adattamento dipende dalla complessità dell’essere vivente che si prende in considerazione. Più la forma di vita è complessa, e si arriva fino al punto più alto rappresentato dall’essere umano, più l’adattamento risulta essere un processo reciproco di adeguamento dell’organismo all’ambiente e dell’ambiente all’organismo. Man mano che si scende lungo la scala evolutiva l’adattamento assume sempre più la forma di un adeguamento ad un ambiente dato.

Quanto “più alto” è il tipo di vita, tanto più l’adattamento prende l’aspetto di un adeguamento reciproco dei fattori ambientali nell’interesse della vita; mentre quanto minore è l’importanza dell’essere vivente, tanto più l’adattamento si configura come adattamento a un ambiente dato, fino a che alla base della scala le differenze fra vivente e non vivente scompaiono[17].

Infine, spesso si pensa, erroneamente, che il processo di adattamento costituisca un’operazione compiuta una volta per tutte. Si crede, in altre parole, che l’organismo, messo nelle condizioni di vivere, cerchi di conformare le proprie funzioni alle caratteristiche dell’ambiente che lo circonda, bloccando il processo una volta raggiunto un adeguamento accettabile. Secondo una simile visione l’adattamento consisterebbe in un’evoluzione con un inizio ed una fine. Al contrario, l’adattamento è «un processo continuo», e ciò perché l’ambiente non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte. Piuttosto esso non smette di ricostituirsi, sia per motivi intrinseci, sia per l’azione stessa che l’organismo, nel suo processo adattivo, vi esercita.

L’adattamento non è uno stato senza tempo; è un processo continuo. […] L’adattamento dell’organismo all’ambiente prende del tempo nel senso pregnante che ogni passo nel processo è condizionato dal suo riferimento a ulteriori cambiamenti da esso prodotti. Ciò che si verifica nell’ambiente, e non ciò che è già “lì” in forma compiuta e finita, interessa l’organismo. Nella misura in cui il risultato di ciò che accade può essere influenzato dall’intervento dell’organismo, l’evento in moto è una sfida che spinge l’agente-paziente ad affrontare quel che sta venendo[18].

A questo punto, esposto ed assunto il punto di vista biologico evoluzionista, e le sue implicazioni riguardanti il rapporto organismo-ambiente, è possibile elaborare un nuovo concetto di esperienza e formulare una relativa definizione.

L’esperienza può essere considerata anzitutto «un processo di subire», nel corso del quale l’organismo sopporta tanto l’azione dell’ambiente quanto le conseguenze delle proprie azioni. Allora non è, come afferma gran parte della filosofia tradizionale, la coscienza personale che produce l’esperienza, ma, al contrario, è l’esperienza che determina, come uno dei suoi risultati occasionali, la coscienza individuale.

Essa [l’esperienza] è primariamente un processo di subire; un processo di sopportare qualcosa; di sofferenza e di passione, nel senso letterale di questi termini. L’organismo deve sopportare, subire le conseguenze delle sue azioni. L’esperienza non è uno scivolare lungo un sentiero fissato dalla coscienza interna. La coscienza individuale è il risultato accidentale di un’esperienza vitale ed oggettiva; non ne è la sorgente[19].

Tuttavia, prosegue Dewey, chi subisce, sopporta, patisce non è mai solo paziente, bensì è anche, e sempre, agente. Anche la decisione di non agire, che viene considerata generalmente come pura passività, è un fare qualcosa, è in qualche modo un essere attivi.

E tuttavia il subire non è mai mera passività. Il più paziente dei pazienti è qualcosa di più di un ricevente. Esso è uno che agisce e reagisce, che tenta esperimenti, che si preoccupa di subire in un modo che possa influenzare ciò che ancora deve accadere. E in fondo il puro durare, le evasioni diversive, sono dei modi di trattare l’ambiente avendo di mira ciò che un tale trattamento effettuerà. Anche se noi ci chiudiamo in noi stessi come ostriche, facciamo qualcosa. La nostra passività è un atteggiamento attivo, non il venir meno della risposta. Allo stesso modo che non esiste un’azione assertiva, un attacco aggressivo verso le cose che sia tutto azione, del pari non esiste un subire che per parte nostra non sia anche un procedere e un perseverare[20].

L’esperienza, quindi, può essere considerata come una serie di azioni e di passioni che si susseguono e si alternano continuamente per tutta la vita dell’individuo. Azioni intraprese dall’individuo nei confronti dell’ambiente; passioni subite dallo stesso individuo a causa dei mutamenti che avvengono all’interno dell’ambiente e a causa delle proprie azioni su tali mutamenti. Si tratta, in altri termini, di una profonda e continua interrelazione reciproca tra l’essere vivente ed il proprio ambiente naturale, sociale e culturale. La continuità del processo è garantita dal fatto che l’organismo non raggiunge mai un equilibrio con il proprio ambiente che sia perfetto e definitivo. Poiché, infatti, nelle condizioni ambientali si verificano dei cambiamenti continui, gli equilibri vanno incessantemente ripristinati. L’adattamento è, quindi, sempre precario e temporaneo.

L’esperienza è questione di simultanee azioni e passioni. Quelli che noi subiamo sono esperimenti nel cambiamento del corso degli eventi. I nostri tentativi attivi sono saggi e prove di noi stessi. Questa duplicità dell’esperienza si mostra nella nostra felicità e infelicità, nei nostri successi e nelle nostre sconfitte. I trionfi sono pericolosi quando si indugia su di essi e di essi si vive. I successi consumano se stessi. Ogni conseguito equilibrio di adattamento all’ambiente è precario perché noi non possiamo andare di pari passo coi cambiamenti dell’ambiente. Essi hanno direzioni così contrarie che noi dobbiamo scegliere. Dobbiamo assumerci il rischio di legare la nostra sorte con un movimento o coll’altro. Nulla può eliminare ogni rischio, ogni avventura; ciò solo che è votato all’insuccesso è il tentativo di tenersi alla pari con tutto l’ambiente insieme, vale a dire di conservare il momento felice quando tutto va a nostro favore[21].

D’altra parte, è necessario anche dire che i mutamenti che avvengono nell’ambiente possono avere una duplice natura e risultare, quindi, per la tranquillità dell’organismo, avversi o vantaggiosi. Non è detto, però, che ciò che risulta essere sfavorevole per la continuità dell’essere vivente abbia, alfine, una valenza del tutto negativa. Infatti, le influenze ostili stimolano l’individuo all’azione tanto quanto, se non in misura maggiore, quelle propizie. Entrambe spingono l’organismo al progresso e allo sviluppo delle proprie capacità e delle condizioni circostanti.

Gli ostacoli che ci vengono incontro sono stimoli alla variazione, a nuove risposte, e quindi occasioni di progresso. Se un favore fattoci dall’ambiente cela una minaccia, la sua avversità è un mezzo potenziale di modi finora non esperimentati di successo. Il trattare l’infelicità come tutt’altra cosa da questa, come, ad es., una felicità travestita o un fattore necessario di bene, è poco schietta apologetica. Ma l’affermare che il progresso umano è stato stimolato dai mali subiti e che gli uomini sono stati mossi da ciò che soffrono a ricercare nuove e migliori vie di azione, è parlare veracemente[22].

L’esperienza consiste in azioni e passioni ed è parte integrante del tentativo continuo dell’organismo di adattarsi al proprio ambiente. Le azioni dell’individuo, come i cambiamenti dell’ambiente, si svolgono nel presente, ma hanno fondamentalmente a che fare con quello che accadrà, con il futuro. Infatti, l’aspetto importante di ogni singola azione o di ogni singolo mutamento non è l’evento in sé, ma ciò che esso arriverà a produrre, le sue conseguenze future. Ammesso ciò, si può dire che l’esperienza ha a che fare, senza dubbio, con il presente e con il passato, ma, primariamente, con il futuro. Essa rappresenta la promessa di un nuovo ordine di cose.

Che l’esperienza sia impegnata con le cose che stanno venendo (che stanno ora venendo, non semplicemente con cose da venire) è ovvio a chiunque abbia un interesse empirico nell’esperienza. Poiché noi viviamo in avanti; poiché viviamo in un mondo dove hanno luogo cambiamenti il cui esito significa il nostro bene o il nostro male; poiché ogni nostro atto modifica questi cambiamenti ed è perciò carico di promesse o di energie ostili, che cos’altro sarebbe l’esperienza se non un futuro implicito in un presente?[23].

E ancora:

Perciò più primaria del ricordo è l’anticipazione; la proiezione piuttosto che l’adunamento del passato; la prospettiva piuttosto che la retrospettiva. Dato un mondo come quello nel quale noi viviamo, un mondo nel quale i cangiamenti ambientali sono in parte favorevoli e in parte crudamente indifferenti, l’esperienza non può mancare di avere una portata prospettica, poiché ogni dominio conseguibile da parte della creatura vivente dipende da quello che si fa per mutare lo stato delle cose. Il successo e la sconfitta sono le “categorie” primarie della vita; il cui supremo interesse consiste nel conseguire il bene e nell’allontanare il male. La speranza e l’ansietà (che sono non conclusi stati di sentimento, ma atteggiamenti attivi di accoglimento e di cautela) sono qualità dominanti dell’esperienza. La previsione immaginosa del futuro è tale qualità anticipatoria della condotta resa disponibile come guida nel presente[24].

Tuttavia, nonostante il futuro e la prospettiva assumano un ruolo significativo nel processo esperienziale, anche il passato conserva la propria importanza. Infatti, come abbiamo già visto nell’analisi di Come pensiamo, e come Dewey ripete in questa sede, il passato ha, all’interno dell’esperienza, una funzione strumentale. La presa di coscienza del passato è necessaria per riuscire a valutare tutti i fattori implicati nella situazione presente, e così intraprendere un’azione il più possibile efficace per arrivare allo scopo prefissato.

L’errore di molti sta nel considerare il passato come fine in sé e nel ridurre ad esso ciò che si definisce conoscenza. Secondo Dewey, infatti, la conoscenza non consiste in un accumulo di cose che fanno parte del passato, ma essa deriva direttamente dall’azione e nasce perché l’azione stessa abbia la possibilità di svilupparsi in modo positivo.

La riconquista immaginativa del passato è indispensabile per una riuscita invasione dell’avvenire, ma la sua condizione è quella di uno strumento. Ignorarne l’importanza è segno di un attore non disciplinato; ma isolare il passato, indugiarsi su di esso come fine in sé e dare a questo il nome eulogistico di conoscenza, significa sostituire il ricordo della vecchiaia all’intelligenza effettiva[25].

Considerando valide le caratteristiche proprie dell’esperienza ora elencate, si arriva ad un ulteriore interessante aspetto per la nostra indagine.

L’esperienza, come abbiamo avuto modo di vedere, si raccoglie attorno ad un centro organico. L’organismo, durante tutta la sua vita, si trova ad interagire in modo profondo e continuativo con il proprio ambiente per assicurarsi la sopravvivenza, la conservazione e un’esistenza il più vantaggiosa possibile. L’essere vivente è costretto a lottare incessantemente, da una parte per eliminare e neutralizzare le influenze ostili che l’ambiente propone, dall’altra per rendere maggiormente feconde quelle già di per sé favorevoli. Ciò vuol dire che l’esperienza non avviene nel vuoto, non è un processo astratto o interno all’organismo e isolato dal resto. L’individuo che esperisce è necessariamente connesso a tutte le cose che fanno parte del suo mondo. Le azioni che egli compie, gli eventi che egli subisce, lo costringono a rimanere indissolubilmente legato al proprio ambiente e a tutte le sue manifestazioni.

L’esperienza di un essere vivente, che lotta per conservarsi e per aprirsi la strada in un ambiente naturale e sociale che in parte seconda e in parte ostacola le sue azioni, è costituita per necessità di legami e connessioni, di influenze e impieghi. L’aspetto essenziale dell’esperienza, per dir così, è che essa non ha luogo nel vuoto; il suo agente-paziente invece di essere isolato e sconnesso è legato al movimento delle cose dai vincoli più intimi e penetranti. Soltanto perché l’organismo è nel mondo e del mondo e le sue attività sono correlate a quelle delle altre cose in maniere molteplici, esso è capace di subire delle cose e di cercar di ridurre gli oggetti a mezzi per assicurarsi il proprio successo[26].

I nessi che legano l’individuo al proprio ambiente possono essere diversi fra loro per natura e per intensità. Ciò si rende evidente anche solo osservando i risultati empirici delle azioni che l’individuo compie. La vita di ogni essere vivente, infatti, è caratterizzata dal continuo alternarsi di aiuti e disturbi, di successi e sconfitte, che dimostrano l’eterogeneità delle connessioni.

Che queste connessioni siano di diverso tipo è provato inconfutabilmente dalle fluttuazioni che hanno luogo nella sua carriera. Aiuto e ostacolo, stimolo e inibizione, successo e sconfitta stanno a indicare specificamente modi diversi di correlazione. Benché le azioni delle cose nel mondo abbiano luogo in un tratto continuo di esistenza, vi sono infinite forme di specifiche affinità e repulsioni e di relative indifferenze. […] L’esperienza mostra ogni specie di connessione, dalla più intima a una giustapposizione puramente esterna. Empiricamente quindi l’esistenza è caratterizzata da legami attivi o continuità di ogni specie e insieme da statiche discontinuità[27].

L’esperienza individuale, lo ripetiamo, consiste nell’incessante dialettica tra eventi che si subiscono e azioni che si intraprendono per ottenere determinate conseguenze. Il significato di tali eventi e di tali azioni va ricercato non nella loro forma finita, data, completata, ma va individuato nelle loro conseguenze oggettive e nella loro influenza sulle esperienze ulteriori.

L’individuo ha la possibilità di gestire il proprio futuro facendo in modo di eliminare le circostanze avverse e di favorire quelle ostili. Il suo successo o il suo fallimento dipendono dal modo in cui la sua reazione, e quindi le sue azioni, influiscono sui mutamenti che si realizzano all’interno dell’ambiente e, conseguentemente, dal modo in cui questi mutamenti, una volta modificati dall’azione dell’organismo, influiscono a loro volta sull’individuo.

In altre parole, l’ambiente produce dei mutamenti che vanno ad agire sull’organismo, lo modificano e lo spingono all’azione. L’individuo, per convogliare i cambiamenti in una direzione che proceda a suo favore, intraprende delle azioni che possono influenzare anche profondamente le condizioni ambientali e quindi, per conseguenza, la propria condotta.

Il solo potere che l’organismo possiede per controllare il proprio avvenire dipende dal modo con cui le risposte attuali modificano i cambiamenti che stanno avvenendo nel suo ambiente. Un essere vivente può essere relativamente impotente o libero. E’ tutta questione del modo in cui le sue reazioni attuali alle cose influiscono sulle future reazioni delle cose su di esso. Indipendentemente dal suo desiderio o dalla sua intenzione, ogni atto che esso compie apporta delle differenze nell’ambiente. Il cambiamento può essere di poco conto riguardo alla sua carriera e alla sua sorte. Ma può anche essere di importanza incalcolabile. Può significare danno, distruzione, o procurare benessere[28].

Il potere di controllare il proprio avvenire consiste quindi nella capacità di prevedere ciò che accadrà nell’ambiente e, di conseguenza, in se stessi mettendo in atto determinate azioni. In altre parole, si tratta di riuscire ad anticipare gli eventi futuri attraverso l’analisi dei fatti presenti; si tratta cioè di compiere delle inferenze[29].

L’estensione della capacità di inferenza posseduta da un agente, la sua capacità di impiegare un fatto presente come un segno di qualcosa che ancora non è dato, misura l’estensione della sua capacità di allargare sistematicamente il suo controllo sull’avvenire[30].

Questa capacità, è necessaria per la sopravvivenza dell’organismo. Infatti, le risposte organiche, consistendo nel tentativo di favorire i cambiamenti vantaggiosi, e di evitare le conseguenze di quelli ostili, procedono in modo cieco finché l’individuo non acquisti l’abilità di presentire le conseguenze dei fatti presenti. Il successo delle reazioni individuali è quindi subordinato alla capacità di produrre inferenze, di concepire idee. Questa capacità viene definita anche comunemente intelligenza.

Un essere capace di usare fatti e dati finiti come segni di cose avvenire, capace di assumere cose date come prove di cose assenti, è in grado, in quella misura, di predire l’avvenire; può formarsi delle aspettazioni ragionevoli. E’ capace di conseguire idee; è in possesso dell’intelligenza. Infatti, l’uso del dato o del finito per anticipare le conseguenze di processi in atto è precisamente ciò che si intende per “idee”, o per “intelligenza”[31].

E ancora:

Nella misura in cui è capace di leggere i risultati futuri negli accadimenti presenti, la sua scelta responsiva, la sua parzialità verso questa o quella condizione, divengono intelligenti, la sua prevenzione diviene ragionevole ed esso è in grado di partecipare deliberatamente e intenzionalmente alla direzione del corso delle cose. La sua previsione di diversi futuri che risultano secondo che questo o quel fattore presente predomina nel foggiare gli eventi, gli consente di prendere parte intelligentemente invece che ciecamente e fatalmente alle conseguenze alle quali danno origine le sue reazioni[32].

Arriviamo così, attraverso una definizione sempre più precisa dell’esperienza, anche alla concezione deweyana della conoscenza.



[4] J. Dewey, Intelligenza creativa, p. 35.

[5] Ibidem.

[6] Ivi, pp. 35-36.

[7] Ivi, p. 36.

[8] Ivi, p. 37.

[9] Per un’esposizione chiara e sistematica delle critiche mosse ad ogni singola posizione è possibile confrontare la nota di Lamberto Borghi alla pagina 50 del testo.

[10] Ivi, p. 46.

[11] Ivi, p. 66.

[12] Ivi, p. 72.

[13] Ivi, p. 37.

[14] Ibidem.

[15] Ivi, pp. 39-40.

[16] Ivi, p. 41.

[17] Ibidem.

[18] Ivi, p. 43.

[19] Ivi, p. 41.

[20] Ivi, pp. 41-42.

[21] Ivi, p. 42.

[22] Ibidem.

[23] Ivi, pp. 42-43.

[24] Ivi, p. 44.

[25] Ivi, pp. 44-45.

[26] Ivi, pp. 46-47.

[27] Ivi, p. 47.

[28] Ivi, pp. 53-54.

[29] Sul concetto di inferenza cfr. anche Come pensiamo.

[30] J. Dewey, Intelligenza creativa, cit., p. 54.

[31] Ibidem.

[32] Ivi, p. 55.

 

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