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IL RAPPORTO INDIVIDUO-AMBIENTE NELL'OPERA DI JOHN DEWEY
di  Giordana Szpunar

3 CAPITOLO III: IL RAPPORTO INDIVIDUO-AMBIENTE IN INTELLIGENZA CREATIVA

3.3 SUL CONCETTO DI CONOSCENZA

Il pensiero, la capacità di inferire che abbiamo appena descritto, «equivale precisamente all’impiego degli accadimenti naturali per la scoperta e la determinazione delle conseguenze – per la formazione di nuove connessioni dinamiche – che costituisce la conoscenza»[33]. Quindi conoscere può anche essere definito come «un modo dell’esperire»[34]. La capacità di inferire le cose assenti a partire dai dati presenti costituisce ciò che viene comunemente chiamato pensiero. Il pensiero, come si è già messo in rilievo nell’analisi condotta su Come pensiamo, è lo strumento di adattamento dell’uomo all’ambiente e di riadattamento dell’ambiente all’uomo.

La funzione della conoscenza, così, non è quella di copiare e registrare gli oggetti dell’ambiente, ma è quella di rendere possibile il proseguimento favorevole dell’azione, tenendo conto del modo in cui si possano continuare a stabilire rapporti sempre più proficui con gli oggetti stessi.

Ripercorriamo analiticamente le argomentazioni che Dewey utilizza per giungere ad una simile concezione della conoscenza.

La diffusione dell’idea della contrapposizione soggetto-oggetto e la conseguente assunzione che l’esperienza si raccoglie attorno a, o procede da, un soggetto opposto al corso dell’esistenza naturale, sarebbe dovuta, secondo Dewey, alle preoccupazioni religiose degli uomini. Queste sono state, per secoli, soprannaturali e oltremondane, ed hanno condotto la riflessione filosofica a considerare la conoscenza come prodotto di un potere extra-naturale e opposto al mondo che deve essere conosciuto.

Il problema teologico di conseguire la conoscenza di Dio come realtà ultima fu difatti trasformato nel problema filosofico circa la possibilità di conseguire la conoscenza della realtà[35].

Il problema della conoscenza diventa, nella riflessione epistemologica, il problema della conoscenza in generale (überhaupt), il problema della «possibilità, estensione e validità della conoscenza in generale»[36]. Secondo Dewey, invece, pur essendo possibile compiere affermazioni generali sul conoscere, il problema della conoscenza in generale non esiste, o meglio, esiste nella misura in cui viene considerato come valido il presupposto, di cui abbiamo parlato in precedenza, di un soggetto conoscente in generale esterno ed antitetico all’oggetto del conoscere.

Il problema della conoscenza überhaupt esiste perché si assume che vi sia un conoscente in generale, che è fuori del mondo che si vuol conoscere, e che è definito in termini antitetici ai caratteri del mondo[37].

Assumendo un presupposto del genere, continua Dewey, si potrebbe discutere anche del problema della digestione in generale; sarebbe sufficiente, a tal fine, considerare lo stomaco e il cibo che viene ingerito come esistenti in due mondi diversi e contrapposti. La discussione riguarderebbe così il problema della «possibilità, estensione e validità» della digestione in generale, cioè delle transazioni[38] fra il cibo e lo stomaco. Tuttavia, un problema della digestione in generale apparirebbe, ai nostri occhi, alquanto assurdo; questo perché siamo abituati a considerare lo stomaco e il cibo come elementi caratterizzati da una certa continuità e, quindi, esistenti nel medesimo mondo: il problema della digestione ci si presenta, così, in tutti i suoi aspetti particolari.

Con presupposti analoghi noi potremmo inventare e discutere un problema della digestione in generale. Occorrerebbe soltanto che si concepisse lo stomaco e il cibo come risiedenti in mondi diversi. Un’ipotesi simile ci porrebbe il problema della possibilità, estensione, natura e genuinità di ogni transazione fra lo stomaco e il cibo.

Ma poiché lo stomaco e il cibo hanno dimora in un ordine continuo di esistenza, poiché la digestione non è che una correlazione di atteggiamenti diversi di uno stesso mondo, i problemi della digestione sono specifici e molteplici: Quali sono le correlazioni particolari che lo costituiscono? Come esso procede in situazioni differenti? Che cosa è favorevole, e che cosa non lo è, al suo funzionamento migliore? E così via[39].

Se però, nel considerare il problema della conoscenza, venisse adottato, come nel caso dell’analisi del processo digestivo, il punto di vista biologico contemporaneo, che implica il concetto di evoluzione e di continuità biologica, i termini della questione cambierebbero. Il soggetto e l’oggetto non verrebbero più considerati come esistenti in due mondi diversi e separati, ma come entità facenti parte dello stesso mondo. La conoscenza, di conseguenza, potrebbe essere considerata come un modo di interazione tra le diverse energie naturali. Il problema della conoscenza si ridurrebbe, infine, alla ricerca delle condizioni specifiche nelle quali il processo della conoscenza avviene.

Si può negare che se noi prendessimo il nostro spunto dall’attuale situazione empirica, che include il concetto scientifico di evoluzione (continuità biologica) e le arti attuali di controllo sulla natura, il soggetto e l’oggetto verrebbero trattati come occupanti il medesimo mondo naturale nella stessa maniera scevra da esitazioni come quando supponiamo la connessione naturale tra un animale e il suo cibo? Non seguirebbe da ciò che la conoscenza è un modo di collaborazione tra le energie naturali? E qual problema vi sarebbe eccetto quello di scoprire la struttura particolare di questa collaborazione, le condizioni alle quali essa avviene col risultato migliore, e le conseguenze che derivano dal suo verificarsi[40].

Una delle argomentazioni più frequentemente utilizzata dai sostenitori di una simile posizione, per dimostrare la differenza fra un oggetto reale e l’apparenza, è il fenomeno della relatività della percezione. Coloro che sostengono una posizione simile a quella sopra delineata, che assumono, cioè, come dato di fatto la contrapposizione di soggetto ed oggetto, affermano che i sogni, le allucinazioni e gli errori non sono altro che il risultato della cambiamento che il soggetto apporta all’oggetto reale nell’atto del conoscere. Ciò dimostrerebbe che il soggetto conoscente è separato dall’oggetto che vuole conoscere e, perciò, ha la possibilità di modificarlo, di contagiarlo di soggettività.

Vi sono molti, per esempio, che ritengono che i sogni, le allucinazioni e gli errori non possano venire spiegati affatto se non sulla base della teoria che un io (o “coscienza”) eserciti un’influenza modificatrice sull’oggetto reale. Il presupposto logico è che la coscienza è al di fuori dell’oggetto reale, che è qualcosa di diverso, e che perciò ha il potere di trasformare “la realtà” in apparenza, di introdurre delle “relatività” nelle cose com’esse sono in se stesse, in breve di infettare di soggettività le cose reali[41].

L’esempio di relatività della percezione che Dewey riporta, per poi contestarne le conseguenze teoriche cui abbiamo appena accennato, è il caso di un oggetto sferico che a due osservatori appare rispettivamente come un cerchio e come una superficie ellittica. L’oggetto osservato è unico, mentre i soggetti sono due e l’osservazione ha come risultato due immagini diverse. Un caso simile sembrerebbe essere, allora, la dimostrazione del fatto che il soggetto che osserva compie, nel corso dell’osservazione, qualche genere di modifica sull’oggetto reale.

Questa situazione offre la prova empirica, così si argomenta, della differenza fra un oggetto reale e la pura apparenza: Poiché non c’è che un solo oggetto, l’esistenza di due soggetti è il solo fattore differenziatore. Perciò le due manifestazioni dell’unico oggetto reale sono prova dell’intervento di un’azione deformatrice da parte del soggetto[42].

Dewey critica in modo analitico questo punto di vista cercando di mantenersi «aderente ai fatti empirici». Noi esponiamo le sue obiezioni in modo schematico.

1. Il fatto che dall’osservazione dello stesso oggetto da parte di due soggetti distinti risultino due immagini diverse, è fisicamente necessario. Date le leggi della rifrazione della luce, infatti, uno stesso oggetto, osservato in condizioni differenti, deve fornire inevitabilmente risultati differenti fra loro. Se così non fosse ci sarebbe una «discrepanza irrimediabilmente inconciliabile nel comportamento dell’energia naturale»[43].

2. Questo fenomeno e il fatto che il suo risultato sia naturale, può essere dimostrato dall’uso della macchina fotografica, la quale va considerata come un’esistenza naturale tanto quanto la sfera in questione. Se l’oggetto viene fotografato dai due osservatori, ciò che ne risulta, e cioè le fotografie, mostrano le stesse immagini, diverse fra loro, che si ottengono per mezzo dell’osservazione diretta.

3. «L’epistemologo convinto», prosegue Dewey, non si lascia scalfire da questi fatti; la sua argomentazione è che se si considera l’organismo come la causa del fatto che la sfera osservata viene vista come circolare o come ellittica secondo la posizione assunta, la tesi secondo cui il soggetto modifica l’oggetto nell’osservarlo risulta valida. Egli, tuttavia, non spiega in nessun modo il motivo per cui tutto ciò non è applicabile alla macchina fotografica.

4. Una simile argomentazione parte da un presupposto che va esaminato e cioè che «le presunte modificazioni dell’oggetto reale sono casi di conoscenza e quindi attribuibili all’influenza di un conoscente»[44]. Questa assunzione si riferisce in genere all’organo percepente, all’occhio, ma, afferma Dewey, ciò è palesemente assurdo. E’ evidente a tutti che non vi è nulla di conoscitivo nei meccanismi dell’apparato ottico. Il processo della visione si costituisce attraverso l’interazione dinamica tra due elementi fisici, nel nostro caso tra l’occhio e la sfera, per produrre un terzo elemento, l’immagine.
Dovrebbe essere evidente che l’intervento dell’apparato ottico dell’occhio è cosa puramente non conoscitiva. La relazione in questione non è tra una sfera e un presunto suo conoscente, condannato sfortunatamente dalla natura dell’apparato conoscitivo ad alterare la cosa che vorrebbe conoscere; si tratta della dinamica interazione di due agenti fisici nel produrre una terza cosa, un effetto; operazione che è dello stesso preciso tipo di ogni congiunta azione fisica, come l’operazione dell’idrogeno e dell’ossigeno nella produzione dell’acqua[45].
L’occhio è da considerarsi un’esistenza fisica al pari della macchina fotografica, perciò attribuire una funzione conoscitiva all’apparato ottico è tanto assurdo quanto assegnarla ad un apparecchio fotografico. Il processo conoscitivo accade soltanto successivamente alla percezione delle immagini, e non entra in nessun modo nel meccanismo di produzione delle immagini stesse.
Considerare l’occhio come primariamente un conoscente, un osservatore di cose, è altrettanto grossolano come assegnare quella funzione alla macchina fotografica. Ma a meno che l’occhio (o l’apparato ottico, o il cervello, o l’organismo) venga considerato in questo modo, non c’è assolutamente nessun problema di osservazione o di conoscenza nel caso del verificarsi delle superfici ellittiche o circolari. La conoscenza non entra nella questione in alcun modo se non dopo che queste forme di luce rifratta sono state prodotte. Non c’è nulla di irreale. La luce è realmente, fisicamente, esistenzialmente rifratta in queste forme. [...] Perché parlare dell’oggetto reale in rapporto con un conoscente quando quello che è dato è una cosa reale in connessione dinamica con un’altra cosa reale?[46].

5. L’obiezione che in genere viene posta a questo tipo di discorso è che entrambe le posizioni, quella data sopra e quella del soggettivismo, giungono alle stesse conclusioni: l’organismo, o io, o soggetto, o come si voglia chiamare, compie, nell’osservare un oggetto, un’attività che modifica l’oggetto stesso. Che poi il cambiamento avvenga durante o dopo il processo conoscitivo, è un particolare di poca rilevanza. Ciò che è importante, invece, è che l’oggetto, nell’essere conosciuto, viene «soggettivizzato».

Secondo Dewey «ogni evento del mondo caratterizza una differenza effettuata ad una esistenza in congiunzione attiva con qualche altra esistenza»[47]. Il problema sta nel senso in cui si parla di soggetto e di oggetto. Se si parla di «un oggetto reale» e se è vero che nel corso dell’attività dell’occhio si presenta un cambiamento di un oggetto, è anche vero che un mutamento del genere può essere assimilato al tipo di cambiamento che si produce utilizzando uno strumento fisico come la macchina fotografica.

Inoltre, se il termine “soggettivo” viene utilizzato semplicemente per indicare «l’attività specifica di un’esistenza particolare, paragonabile, ad esempio, al termine ferino applicato a una tigre»[48], il suo uso diventa legittimo e corretto, ma anche tautologico e, quindi, di poca utilità. Tuttavia, l’uso che in genere se ne fa è del tutto diverso da questo: per “soggettivo” si intende spesso un qualcosa di estraneo e contrapposto a ciò che viene indicato con il termine “oggettivo”, presupponendo con ciò l’assenza di modificazioni sull’oggetto da parte del soggetto. In tal modo si riaffaccia la concezione che vede il soggetto come parte di un mondo che è totalmente estraneo al mondo in cui è situato l’oggetto e, quindi, al mondo nel quale sussistono tutte le altre esistenze naturali.

Il termine “soggettivo” è consacrato talmente ad altri usi, che di solito implicano un invidioso contrasto coll’oggettività (laddove soggettivo nel senso ora suggerito significa modo specifico di oggettività), che è difficile conservare questo senso innocente. Il suo uso in qualsiasi modo dispregiativo nella situazione che ci sta davanti - in qualsiasi senso che implica un contrasto con un oggetto reale - suppone che l’organismo non dovrebbe recare alcuna differenza quando opera in congiunzione con altre cose. Così arriviamo di nuovo all’assunto che il soggetto è eterogeneo da ogni altra esistenza naturale; e che deve essere l’unica cosa oziosa e inattiva in un mondo che si muove; il nostro vecchio presupposto dell’io come al di fuori delle cose[49].

Lo stesso discorso viene fatto in relazione ai sogni ed alle allucinazioni. Anche queste singolari manifestazioni vengono considerate come una prova evidente dell’azione modificatrice dell’oggetto reale da parte del soggetto. Il presupposto teorico di tale posizione consiste nell’assumere l’esistenza di un soggetto, di una coscienza esterna all’oggetto, e diversa da questo, che introduce la soggettività e la relatività nelle cose reali, trasformandole in apparenze. I sogni, gli errori, le allucinazioni, vengono allora considerati come fenomeni inerenti esclusivamente al soggetto, o comunque come eventi che sottintendono una trasformazione dell’oggetto reale.

Il modo epistemologico di concepire i sogni, gli errori, le “relatività”, ecc. dipende dall’isolamento della mente dall’intima partecipazione cogli altri cambiamenti nello stesso nesso continuo[50].

In realtà, afferma Dewey, non solo è sbagliata l’interpretazione che viene data di questi eventi, ma è errata soprattutto la concezione che la sorregge e la implica. Infatti, coloro che continuano a fare propria l’assunzione della contrapposizione tra soggetto e oggetto non tengono minimamente conto della «lezione dell’evoluzione nella sua applicazione agli avvenimenti che ci stanno davanti»[51].

La conoscenza, nel caso delle sfere, non consiste, come Dewey ha dimostrato, nella produzione di immagini diverse dello stesso oggetto. Le forme di luce che danno come risultato superfici ellittiche e circolari costituiscono, infatti, eventi naturali e possono o meno entrare nella conoscenza a seconda dei casi. Molti fenomeni di questo tipo accadono senza che noi ce ne accorgiamo e, in relazione alle necessità o agli interessi individuali e, quindi, a seconda del contesto specifico, essi determinano indagini diverse fra loro. C’è chi può essere interessato alle particolarità strutturali delle forme stesse; chi al meccanismo della loro produzione; chi agli aspetti geometrici; chi a quelli artistici.

Inoltre:

Le forme possono essere obiettivi di conoscenza – di esame riflessivo – oppure mezzi per conoscere qualcos’altro. Può accadere, come accade in alcune circostanze, che l’obiettivo dell’indagine sia la natura di una forma geometrica che, quando rifrange la luce, dà luogo a queste altre forme. In questo caso la sfera è la cosa conosciuta, le forme della luce sono i segni o la prova della conclusione che deve trarsi[52].

Questi fatti possono legittimamente apparire banali a qualsiasi lettore, ma sono anche fatti che, data l’esistenza del problema epistemologico e del relativo dibattito, è necessario esporre. Essi, in particolare, confermano due asserti che hanno una certa rilevanza per il nostro discorso:

Negativamente, una nozione presupposta e non empirica dell’io è la fonte della credenza dominante che l’esperienza come tale è primariamente conoscitiva, una questione di conoscenza; positivamente, la conoscenza è sempre questione dell’uso che si fa degli eventi naturali sperimentali, uso nel quale le cose date sono trattate come indici di ciò che verrà sperimentato in condizioni differenti[53].

A tal proposito Dewey riporta un ulteriore illuminante esempio, quello della conoscenza dell’acqua.

L’oggetto che deve essere conosciuto, nel nostro caso l’acqua, non si presenta inizialmente come una questione di conoscenza. Generalmente non ci si pone il problema di conoscere un oggetto prima di aver avuto con esso qualche tipo di contatto. I primi contatti significativi con un oggetto sorgono come stimoli all’azione, come fatti rispetto ai quali l’individuo si trova costretto a reagire. Non solo, ma l’oggetto è spesso qualcosa che reagisce, a sua volta, in modi inaspettati alle reazioni dell’individuo. Così l’acqua «è qualcosa a cui si deve reagire, col bere, col lavarsi, collo spegnere il fuoco», ed è, allo stesso tempo, qualcosa «che ci fa soffrire malattia, soffocamento, annegamento»[54].

In questi modi l’acqua entra a far parte dell’esperienza individuale. Tuttavia, è necessario precisare che la «presenza-nell’esperienza» non è affatto riducibile alla «presenza-nella-conoscenza». Questi due tipi di presenza sono radicalmente diversi fra loro e, proprio in questa disparità, nascono gli stimoli all’acquisto della conoscenza. L’errore di gran parte della filosofia fin dai tempi di Socrate è stato quello di lasciarsi condizionare fuori misura dal fatto che «il trasformare la presenza-nell’esperienza in presenza-in-una-esperienza-di-conoscenza è il solo modo che dà il dominio della natura»[55]. Questo l’ha condotta a considerare, erroneamente, l’esperienza come un modo di conoscere.

In questo doppio modo l’acqua, al pari di ogni altra cosa, entra nell’esperienza. Tale presenza nell’esperienza non ha di per sé nulla a che fare colla conoscenza o colla coscienza; niente, nel senso di dipendere da esse, benché abbia tutto a che fare colla conoscenza e colla coscienza nel senso che questa dipende da un’esperienza precedente di questa specie non conoscitiva. L’esperienza dell’uomo è quello che è, perché la sua risposta alle cose (anche una risposta riuscita) e le reazioni delle cose alla sua vita sono così radicalmente differenti dalla conoscenza[56].

Finché si perpetuano determinate condizioni, finché, in altre parole, l’oggetto continua ad operare semplicemente come stimolo ad una risposta, come stimolo diretto e sensoriale, esso non entra in nessun modo nella conoscenza. Il processo conoscitivo si attiva nel momento in cui la presenza della cosa comincia ad implicare un’anticipazione delle conseguenze che si manifesteranno quando si reagirà allo stimolo. Nella fase di sospensione della risposta lo stimolo diretto si trasforma in un segno di qualcos’altro e, quindi, in materia di conoscenza.

Quando l’acqua è uno stimolo adeguato all’azione o quando le sue reazioni ci opprimono e ci sopraffanno, essa resta al di fuori dell’ambito della conoscenza. Ma quando la pura presenza della cosa (ad esempio come stimolo ottico) cessa di operare direttamente come stimolo a una risposta e comincia a operare in connessione con una previsione delle conseguenze che produrrà quando ad esso si reagisca, essa comincia a acquistare significato, ad essere conosciuta, ad essere un oggetto. Essa è notata come qualcosa che è umida, fluida, che placa la sete, il malessere, ecc. […] Finché lo stimolo visivo opera come stimolo per proprio conto, non c’è affatto apprensione, o notazione, di colore o di luce. Alla maggior parte degli stimoli sensoriali noi reagiamo proprio in questo modo totalmente non conoscitivo. Nell’atteggiamento di risposta sospesa in cui vengono anticipate le conseguenze, lo stimolo diretto diventa un segno o indice di qualcos’altro e quindi materia di notazione, apprensione, conoscenza o come altrimenti si voglia chiamare. Questa differenza (insieme, naturalmente, alle conseguenze che l’accompagnano) è quella che l’evento naturale del conoscere introduce nell’evento naturale di diretta stimolazione organica[57].



[33] J. Dewey, Intelligenza creativa, cit., p. 56.

[34] Cfr. The postulate of immediate empiricism in The influence of Darwin on philosophy, cit., pp. 226-241. «Knowing is one mode of experiencing», p. 229.

[35] Ivi, p. 66.

[36] Ivi, p. 67.

[37] Ivi, p. 68.

[38] Forse l’uso del termine “transazione” non è casuale. Questo termine verrà da Dewey teoricamente giustificato e adottato in modo esplicito, solo nel 1949 all’interno del suo ultimo scritto di ampia portata Conoscenza e transazione.

Si può affermare, tuttavia, che il concetto di transazione, a partire dalla svolta teorica di cui si è già parlato, permea tutto il pensiero di Dewey, e viene adombrato, utilizzando il termine stesso, o ricorrendo ad altri termini (cfr. il concetto di “integrazione” in Logica, teoria dell’indagine), in tutte le sue opere precedenti al 1949. Lo stesso Visalberghi nella Prefazione alla Logica afferma: «La conoscenza perciò egli l’aveva sempre concepita come transazione. […] La distinzione fra interazione e transazione era dunque operante da tempo nel pensiero di Dewey» (in J. Dewey, Logica, teoria dell’indagine, cit., p. XII).

Del tema della transazione si parlerà in modo più diffuso nel capitolo V di questo lavoro, dedicato, appunto, all’analisi di questo concetto. Cfr. anche A. Visalberghi, Esperienza e valutazione, Torino, Taylor, 1958 e A. Visalberghi, Il concetto di “transazione”, in AA.VV., Il pensiero americano contemporaneo. Filosofia epistemologia logica, Milano, Edizioni di Comunità, 1958, pp. 271-313.

[39] J. Dewey, Intelligenza creativa, cit., p. 68.

[40] Ivi, pp. 68-69.

[41] Ivi, pp. 70-71.

[42] Ivi, pp. 78-79.

[43] Ivi, p. 79.

[44] Ibidem.

[45] Ivi, p. 80.

[46] Ibidem.

[47] Ivi, p. 81.

[48] Ibidem.

[49] Ibidem.

La riformulazione del concetto di soggetto, secondo cui l’individuo costituisce con il suo ambiente un sistema unico, ha un impatto diretto sulla teoria della biografia. La ricostruzione biografica, nel riferirsi alla singola storia di vita, deve tener conto dell’intero contesto in cui questa si è sviluppata, giacché è la relazione che il singolo intrattiene con il suo ambiente che costituisce la sua individualità.

Per una discussione del rapporto tra individuo e ambiente in relazione alla teoria della biografia si veda capitolo IV, nota n. 55.

[50] Ivi, p. 74.

[51] Ivi, p. 72.

[52] Ivi, pp. 82-83.

[53] Ivi, pp. 83-84.

[54] Ivi, p. 85.

[55] Ivi, p. 86.

[56] Ivi, p. 85.

[57] Ivi, pp. 86-87.

 

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