La Mediazione PedagogicaLiber Liber

La filosofia dell'educazione di John Dewey dalle lezioni del 1899 a Democrazia e Educazione
di  Maria Francesca Picella

3. Filosofia dell'educazione: differenze tra 1899 e 1916

3.3 La critica a Herbart

La dottrina pedagogica di Herbart[1] ha avuto una grande importanza storica. L’herbartismo, infatti, ponendo al centro del problema educativo il ruolo dell’insegnante, finì per diffondersi soprattutto in Germania, Italia e Stati Uniti.

In Germania si crearono dapprima le due scuole herbartiane rispettivamente di Karl V. Stoy (1815-1885) a Jena e di Tuiskon Ziller (1817-1882) a Lipsia; in seguito Otto Willmann (1839-1920) si occupò di teoria della didattica, proseguendo la tradizione herbartiana e neo-kantiana anche nel Novecento.

In Italia Antonio Labriola (1843-1904) e Luigi Credaro (1860-1939) rappresentano senz’altro le principali figure legate all’herbartismo pedagogico.

Negli Stati Uniti, infine, allievi di Jena e di Lipsia organizzarono un “Herbart club”, prima a New York e poi a Denver, e nel periodo dal 1892 al 1901 presero il via studi e traduzioni sull’opera di Herbart.

Nel 1899, dunque, quando Dewey sta svolgendo le sue lezioni universitarie di filosofia dell’educazione, il settore pedagogico è fortemente caratterizzato da una vera e propria egemonia del movimento ispirato alle idee di Herbart. Inevitabile allora l’influenza di queste ultime anche sulla concezione pedagogica del giovane Dewey, che, non a caso, proprio in questo periodo viene a porre la sua attenzione alle teorie del filosofo e pedagogista tedesco, criticandole.

Innanzitutto occorre ricordare che la pedagogia di Herbart si fonda sostanzialmente sulla multilateralità degli interessi, che vanno equilibrati e armonizzati. In un simile contesto, fondamentale è il ruolo che viene a giocare la psicologia, intesa come scienza che offre i mezzi all’educazione per raggiungere i propri fini, che a loro volta le derivano dall’etica.

Nelle lezioni, infatti, come vedremo, è soprattutto alla psicologia herbartiana che Dewey fa riferimento.

Per Herbart poi il punto di partenza di ogni analisi filosofica e di ogni elaborazione di concetti è l’esperienza, che, però, ci fornisce i tre concetti contraddittori di cosa, di cangiamento e di io. Il concetto di cosa implica, infatti, contemporaneamente l’unità e la molteplicità: l’unità è la cosa cui si fa riferimento; la molteplicità le qualità che le si attribuiscono. Quello di cangiamento comporta il succedersi di diversi stadi o proprietà di uno stesso oggetto come nel caso del seme che si trasforma in albero, fiore, frutto. L’io, infine, è essenzialmente autocoscienza, cioè principio che conosce sé stesso, il che comporta che essendo il sé stesso oggetto dell’autocoscienza, l’io è nello stesso tempo soggetto e oggetto dell’autocoscienza stessa.

Più che risolvere, queste contraddizioni si possono spiegare.

Ciascuna cosa ha qualità sue proprie; considerata in sé stessa essa è immutabile, sempre identica a sé. Le sue variazioni qualitative dipendono dalle relazioni accidentali che essa ha con le altre cose.

Queste cose sono per Herbart i reali, che entrano in contatto tra loro in maniera fortuita. In questo scontro casuale, ci spiega Dewey nelle sue lezioni, ciascun reale subisce un perturbamento al quale risponde con un atto di autoaffermazione per conservare inalterate le proprie caratteristiche. Ogni reale, infatti, ha una tendenza ben precisa all’autoconservazione.

Dalla spiegazione che Dewey ci offre, emerge poi che anche l’anima, centro della psicologia herbartiana, è un reale semplice e immutabile. Nel momento in cui essa subisce l’urto di un altro reale, reagisce con un atto di autoconservazione, che Herbart definisce come rappresentazione. Se l’anima non cambia sono invece mutevoli gli stati psichici che variano in rapporto alla molteplicità delle rappresentazioni da cui scaturiscono i sentimenti e la volontà.

Alla luce di quanto detto finora, quali sono, dunque, i contenuti della psicologia di Herbart?

L’anima ha una vita che si articola attraverso rigide leggi meccaniche. Herbart elabora pertanto un tipo di psicologia che ha i caratteri della scienza: rappresentazioni simili si associano tra loro e restano nella coscienza; si elidono depositandosi nel subcosciente se sono dissimili, mantenendo, però, intatta la tendenza a tornare coscienti quando si siano rapportate nel contatto con altre rappresentazioni simili.

Le rappresentazioni consolidate nella coscienza sono dette da Herbart appercepienti nel senso che possono cogliere nuove rappresentazioni, dette perciò appercepite.

L’io diviene, così, il centro o il punto di contatto tra appercepiente e appercepito. Per questo motivo, esso non è fisso, ma fluttuante; il che gli consente di arricchirsi di continuo di nuove rappresentazioni.

Il complesso delle rappresentazioni già consolidate, cioè le più forti, prendono il sopravvento su quelle non ancora consolidate, cioè le più deboli. Ciò determina sentimenti particolari e particolari volizioni.

Ricordato tutto ciò, soprattutto in riferimento alla lezione XXIII, in cui Dewey si concentra più nello specifico sulla teoria psicologica di Herbart (e più in particolare, come abbiamo avuto modo di notare, sui concetti di associazione delle idee, di appercezione e di correlazione), passiamo ora a considerare quelle parti in cui, invece, emerge con forza la sua personale critica alla teoria stessa.

Innanzitutto, Dewey sottolinea l’aspetto peculiare della psicologia di Herbart, che, come ricordavo più sopra, viene essenzialmente ad assumere i caratteri della scienza. Essa rappresenta, infatti, afferma Dewey:

“una forma alquanto estrema della dottrina dell’atomismo e dell’associazione in psicologia”[2],sostenendo che ogni idea è una entità mentale, nata dalla reazione dell’anima agli stimoli. La psicologia herbartiana, in definitiva, finisce col ridurre ogni cosa a queste idee e alle loro varie azioni e reazioni sulle altre cose.

Certo è che per il filosofo americano, l’aver introdotto la necessità di correlazione tra le varie idee, che di per sé sono entità del tutto autonome, rappresenta un grande merito della psicologia herbartiana.

Agli herbartiani va anche riconosciuto il merito di aver formulato le varie fasi di preparazione, presentazione oggettiva, confronto, generalizzazione, percezione ed applicazione[3],concentrando così l’attenzione degli insegnanti sulla necessità di seguire un progetto regolato, metodico e disciplinato in ambito educativo.

Tuttavia, sottolinea Dewey, ci sono anche:

“due punti dai quali la moderna psicologia si discosta ampiamente da quella herbartiana (….)”[4]:

(a) il fatto che quest’ultima dia eccessivo rilievo all’aspetto intellettuale più che a quello istintivo;

(b) e che la correlazione tra le varie idee non sia stata considerata da essa come un qualcosa di naturale, una forza intrinseca, ma sia stata posta su basi del tutto artificiali.

Per quanto riguarda il primo punto, Dewey afferma, infatti, che:

“la psicologia herbartiana mette veramente troppo in evidenza l’aspetto intellettuale e sottovaluta quello istintivo (….)”[5].

Quanto questo aspetto della critica sia importante per Dewey, si capisce d’altra parte anche dalla frequenza con la quale egli vi torna su.

Perfino nella sua penultima lezione, non mancherà di ricordarci, sempre a proposito della teoria herbartiana dell’appercezione, che:

“la teoria sottovaluta l’importanza dell’abitudine e sopravvaluta l’importanza di un’idea conscia”[6].

Conclude, infine, Dewey, generalizzando questa critica con le seguenti parole:

“in generale il punto debole (della teoria herbartiana) sembra essere la poca insistenza su l’elemento inconscio, gli istinti e le abitudini, e l’eccessiva insistenza su l’aspetto intellettuale delle idee consce”[7].

Per quanto riguarda, invece, il secondo punto, esso rappresenta evidentemente una diretta conseguenza del primo. Gli herbartiani, infatti, trascurando completamente:

“questo naturale legame di unione, questa forza intrinseca di correlazione, hanno dovuto occupare il suo posto in gran misura su una base artificiale”[8].

Una grossa difficoltà, inoltre, all’interno della teoria herbartiana dei reali, è rappresentata dal fatto che il filosofo-pedagogista tedesco finisce col considerare i reali stessi come inconoscibili, riprendendo così la concezione kantiana del noumeno, la cosa in sé, che la sensazione non può rivelarci.

D’altra parte, la conoscenza fenomenica che non ci consente di pervenire all’essenza delle cose, ma di coglierne solo l’apparenza, attraverso i perturbamenti e il principio di autoconservazione, fa presupporre l’esistenza dei reali.

E’ come dire che noi non possiamo conoscerli direttamente, ma presumiamo che esistano sulla base di come essi si manifestano. Essi, infatti:

“si mostrano normalmente solo nei loro effetti” e “noi siamo generalmente consapevoli di (questi) effetti”[9].

Un altro elemento della teoria herbartiana dal quale Dewey si discosta notevolmente riguarda poi il tema delle emozioni.

Herbart, infatti, volle considerare il solo aspetto introspettivo della vita emotiva, definendo l’emozione come la “coscienza della situazione emozionante”, per cui la gioia ad esempio doveva corrispondere alla mera rappresentazione di idee in conflitto.

Un carattere praticamente opposto assume, invece, la teoria (accolta pienamente da Dewey) enunciata nello stesso periodo da James e Lange.

Essi, infatti, probabilmente indipendentemente l’uno dall’altro, presero in considerazione gli aspetti comportamentali ed organici correlati agli eventi emotivi, finendo con l’affermare che l’emozione nascerebbe dall’auto-percezione delle modificazioni corporee (ad esempio il dolore consisterebbe nell’auto-percezione dell’attività delle ghiandole lacrimali impegnate nel pianto; la paura dipenderebbe dall’auto-percezione del proprio tremore e delle proprie azioni di fuga, etc.).

Queste, dunque, le critiche principali che Dewey muove nelle sue lezioni alla teoria psicologica herbartiana.

In realtà la critica si estende all’intera teoria dell’educazione di Herbart. Per il filosofo americano, anzi, è la sua stessa definizione di educazione che non regge.

Herbart, infatti, prima afferma che:

“l’istruzione dovrebbe essere sicuramente educativa”[10], per poi aggiungere che:

“non c’è educazione se non per il tramite dell’istruzione”[11].

Innanzitutto, il discorso, sottolinea Dewey, è evidentemente tautologico; inoltre, definendo così l’educazione, riducendola cioè alla pura istruzione, Herbart trascura del tutto il suo aspetto informale.

Dewey, invece, da parte sua, rivendica l’esistenza di quel processo di learning by experience, “che costituisce l’essenza dell’educazione prescolastica, e che viene conservata attraverso la vita indipendentemente dall’educazione scolastica, “learning by experience” è il termine generale che includerebbe i vari processi di diretta stimolazione, suggestione (….)”[12].

Per Dewey, però, ciò non deve suggerire l’idea di una netta distinzione tra educazione formale ed informale, come se nel momento in cui iniziasse la prima, la seconda finisse. Un posto per quest’ultima dovrebbe essere sempre mantenuto. Anche all’interno della vita scolastica, il bambino dovrebbe continuare ad imparare innanzitutto attraverso i modi diretti di esperienza.

In quest’ottica deweyana, dunque, il processo d’istruzione viene visto semplicemente come “una sistemazione graduale di questi modi più diretti di esperienza”[13].

Il filosofo americano non dimentica, infine, di ricordarci il pericolo che si possa verificare un isolamento del processo di istruzione, come se esso fosse un qualcosa di altro dalla nostra vita. L’esempio che Dewey ci porta nelle lezioni del bambino che non sapeva che il fiume Mississippi che stava studiando a scuola fosse lo stesso fiume che vedeva ogni giorno della sua vita, “illustra l’idea della separazione del processo di istruzione dalle cose di ordinaria esperienza”[14].

Per tutta questa critica non c’è, invece, quasi più posto in Democrazia e educazione, opera che nasce proprio in un periodo di profonda crisi del movimento herbartiano.

In quest’opera, Dewey sottolinea come le prime esperienze di ogni individuo (preso, dunque, all’inizio della propria vita, quando egli è sostanzialmente ancora un essere immaturo) non vengano offerte dall’esterno. Esse derivano piuttosto da un rapporto d’interazione fra le attività innate dell’individuo stesso e l’ambiente circostante; interazione dalla quale, come abbiamo avuto già modo di notare, entrambi escono modificati (per questo motivo si era detto che la vita stessa già di per sé educa, perché produce cambiamento e, quindi, sviluppo e crescita).

Per il filosofo americano, la teoria herbartiana della formazione per mezzo della rappresentazione fa principalmente l’errore di dare poca importanza a questo rapporto d’interazione costante tra il singolo individuo e l’ambiente.

La spiegazione di ciò si trova nel significato che viene ad assumere la parola “formazione” nella pedagogia di Herbart. Ci spiega, infatti, Dewey che essa acquista con Herbart:

“un senso tecnico, connettendosi all’idea di qualcosa che agisce dall’esterno”[15].

Herbart, infatti, prosegue Dewey, nega completamente l’esistenza di facoltà innate (come abbiamo avuto già modo di notare dalle lezioni deweyane). Per lui, la mente ha la facoltà di produrre qualità solo dopo aver reagito alle realtà esterne che su di essa agiscono. Si formano così delle rappresentazioni in modo tale che, in definitiva, il carattere peculiare della mente viene ad essere rappresentato dai “vari adattamenti formati dalle varie rappresentazioni nelle loro diverse qualità”[16].

Certo è che per Dewey, che in questo periodo si mostra molto più docile e pacato nei suoi giudizi sulla teoria herbartiana dell’educazione, Herbart ha reso da parte sua “un gran servizio” in quanto ha avuto il merito di “sottrarre l’azione educativa alla routine e al caso”, trasferendola “nella sfera del metodo cosciente con uno scopo e un procedimento determinati invece di essere un miscuglio di ispirazione casuale e di assoggettamento alla tradizione”[17].

Sempre secondo Dewey, Herbart ha anche “esercitato indubbiamente maggior influenza di qualsiasi altro pedagogista”[18], per aver sottolineato l’importanza di problematiche concernenti il materiale di studio.

In cosa consiste allora ciò che Dewey definisce, invece, come il “difetto teorico fondamentale”[19] del filosofo-pedagogista tedesco?

Precisamente nell’aver evidenziato con tanta forza l’importanza dell’influenza dell’ambiente esterno sulla mente, e, al contempo, nell’aver ignorato del tutto l’esistenza nel singolo individuo di facoltà innate, trascurando così un dato fondamentale:

“il fatto che l’ambiente implica una partecipazione personale alle esperienze comuni”[20].

Dewey denuncia poi un altro errore da parte dei seguaci di Herbart.

Questi ultimi, sulla base dell’idea che l’ontogenesi ripete sempre la filogenesi, sostengono un tipo di educazione che sia essenzialmente retrospettiva, che si rivolga cioè principalmente al passato.

Questo discorso viene da loro applicato soprattutto alla produzione letteraria del passato. Essi affermano, infatti, che poiché il bambino, da un punto di vista mentale, è come un uomo allo stato selvaggio, in preda ai suoi istinti, il materiale che più gli si addice è lo stesso prodotto dall’umanità al medesimo stadio di sviluppo, quello infantile, primordiale (dove l’infanzia di ogni singolo individuo corrisponde all’infanzia dell’umanità): il materiale letterario dei miti, delle leggende popolari e delle canzoni.

Ma per Dewey le cose non vanno esattamente così.

Innanzitutto perché se il corso degli eventi si limitasse semplicemente a ripetersi immutato negli anni, non si avrebbe alcun progresso, ma solo una sterile ripetizione.

“Se vi fosse una rigida legge della ripetizione, lo sviluppo evolutivo evidentemente non avrebbe luogo”[21].

In secondo luogo, Dewey ci ricorda che la letteratura del passato fa parte indubbiamente del nostro patrimonio culturale tanto che noi ancora oggi ce ne serviamo; ma dobbiamo fare molta attenzione a non confondere ciò che è realmente presente, con ciò che è un passato che può fungere da modello ancora nel presente.

“La letteratura prodotta nel passato fa parte, in quanto gli uomini ne sono ora in possesso e l’adoperano, dell’ambiente presente dell’individuo; ma vi è un’enorme differenza fra l’adoperarle come risorse presenti e il prenderle come norme e modelli nel loro carattere retrospettivo”[22].

Per questo motivo, il passato rappresenta senz’altro una grande risorsa per la vita presente; perché non è un qualcosa di altro dal presente, ma è sempre il passato del presente; anche se, dunque, il passato, in quanto tale, “non include ciò che è caratteristico del presente” esso è pur sempre “incluso nel presente in movimento”[23].

Sarebbe, però, un grande sbaglio, avverte Dewey, considerare i documenti del passato il materiale principale dell’educazione perché, così facendo, si tenderebbe “a fare del passato un rivale del presente, e del presente un’imitazione più o meno futile del passato”[24].

Anche quest’ultimo aspetto era stato già affrontato da Dewey nelle lezioni, in maniera, però, più ampia. Qui, infatti, egli ci ricorda che la posizione della teoria sviluppata dalla scuola herbartiana in Germania è che:

“il bambino riproduce nel suo processo di crescita gli stadi capitali che sono stati compiuti attraverso l’evoluzione della razza umana”[25].

La questione è sempre, dunque, quella del parallelismo tra sviluppo individuale e sviluppo storico dell’umanità tutta.

In breve, ci spiega Dewey, per gli herbartiani:

“dovremmo innanzitutto studiare il bambino per trovare in quale fase di sviluppo si trovi; secondariamente, dovremmo studiare l’evoluzione storica dell’umanità per vedere qual è la corrispondente epoca dello sviluppo del mondo; e in terzo luogo, dopo aver deciso questi due punti, dovremmo trovare le grandi creazioni fatte in quel periodo dello sviluppo del mondo; e poi, introdurle al centro dell’educazione del bambino (….)”[26].

Si tratta, in particolare, della linea della ricapitolazione:

“lo sviluppo ontogenetico ricapitola quello filogenetico”[27].

Per Dewey, comunque, noi non dovremmo prendere questa teoria troppo alla lettera per varie ragioni: innanzitutto, infatti, collocheremmo il singolo individuo su un piano in cui non debba compiere alcuno sforzo se non quello di accogliere i benefici dei precedenti sforzi già compiuti dall’umanità; inoltre, non possiamo prescindere dal fatto che viviamo in un periodo che non viene semplicemente dopo altri periodi, ma che li ha anche profondamente modificati, per cui noi oggi diamo a certi eventi un significato ben diverso da quello che potevano dar loro i nostri avi; infine, non possiamo nemmeno basare completamente l’educazione attuale sulle storie del passato perché il bambino impara molto di più dall’esperienza.

Per quanto riguarda quest’ultimo punto, in particolare, secondo Dewey, gli herbartiani non hanno fatto altro che subordinare l’intero mondo naturale ai materiali derivanti da storie e poemi, la scienza alla letteratura, come se la natura non avesse già di per sé un significato poetico e questo le dovesse pervenire dalle emozioni e dai sentimenti umani. Conclude, invece, Dewey, che:

“la natura ha essa stessa i suoi aspetti estetici, le sue bellezze della forma e del colore. Non esiste idea più poetica (….) che l’idea di crescita, di vita, del mistero del cambiamento e dell’incessante sviluppo”[28].

Tornando, infine, all’opera del 1916, Dewey conclude ponendo ancora l’accento sul fatto che gli herbartiani, insistendo così fortemente sul passato, finiscono col trascurare ciò che si presenta come “schiettamente nuovo”, “imprevedibile”[29].

Da qui l’esigenza, secondo il filosofo americano, di fare sempre nuove esperienze per aggiungere, dunque, nuovi elementi alle conoscenze già raggiunte dall’umanità attraverso i secoli e non limitando queste ultime ad una semplice ricapitolazione del passato.

Solo nel primo caso si otterrà, infatti, reale crescita e sviluppo:

“l’ideale della crescita si mostra meglio inquadrato nel concetto che l’educazione è la continua riorganizzazione o ricostruzione dell’esperienza”[30].

Così Dewey perviene ad una definizione tecnica dell’educazione come “ricostruzione o riorganizzazione dell’esperienza, tale da accrescere il significato dell’esperienza stessa e da aumentare la capacità a dirigere il corso dell’esperienza seguente”[31].

Arrivati al termine di questo confronto tra le lezioni del 1899 e l’opera del 1916, a chi scrive sembra che la critica deweyana alla pedagogia di Herbart si sia negli anni notevolmente ridotta, non solo per i fatti contingenti già ricordati (egemonia e poi declino delle idee di Herbart), ma anche perché è proprio la sua funzione a risultare ormai modificata.

Sembra quasi che, mentre nelle lezioni ci troviamo di fronte ad una reale critica ad Herbart e ai suoi seguaci, in Democrazia e educazione la critica stessa sia semplicemente il pretesto da cui Dewey parte per offrirci la sua personale definizione di educazione.

Nelle lezioni, la critica è, dunque, il fine; nel 1916 essa diventa il semplice mezzo per raggiungere un altro scopo: la definizione di educazione, per l’appunto, non più come semplice ricapitolazione e retrospezione, ma come vera e propria ricostruzione.


[1]J. F. Herbart, nato ad Oldenburg nel 1776 e morto a Gottinga nel 1841. Scolaro , a Jena, di Fichte, grazie al quale si accostò alla filosofia, e di Schiller, dal quale gli derivò l’ideale, allo stesso tempo di natura etica ed estetica, di una piena ed armonica formazione umana. Le sue opere più importanti sono: Pedagogia generale (1806), Introduzione alla filosofia (1813), La psicologia come scienza (1824-25), Metafisica generale (1828-29), Lezioni di pedagogia (1835).

[2] J. Dewey, Lectures in the philosophy of education, 1899, cit., p. 226: “a somewhat extreme form of the doctrine of atomism and of association in psychology”.

[3] Secondo lo schema che Dewey ci propone al termine della lezione XXX, p. 302.

[4] J. Dewey, Lectures in the philosophy of education, 1899, cit., p. 228: “There are two points in which modern psychology tends to differ very widely from the herbartian (….)”.

[5] J. Dewey, Lectures in the philosophy of education, 1899, cit., p. 228: “the Herbartian psychology overemphasized the intellectual aspect very much, and under-estimated the instinctive (….)”.

[6] J. Dewey, Lectures in the philosophy of education, 1899, cit., p. 318: “the theory underestimates the importance of habit and overestimates the importance of a conscious idea”.

[7] J. Dewey, Lectures in the philosophy of education, 1899, cit., p. 318: “the weak point in general seems to be the under-insistence on the unconscious element, of the instincts and habits, and the over-insistence on the intellectual side of conscious ideas”.

[8] J. Dewey, Lectures in the philosophy of education, 1899, cit., p. 229: “this natural bond of union, this intrinsic correlating force, they have had to supply the place of it largely on an artificial basis”.

[9] J. Dewey, Lectures in the philosophy of education, 1899, cit., p. 228: “show themselves normally only in their results (….). We are generally conscious of the results (….)”.

[10] J. Dewey, Lectures in the philosophy of education, 1899, cit., p. 76: “instruction certainly ought to be educative”.

[11] J. Dewey, Lectures in the philosophy of education, 1899, cit., p. 76: “there is no education excepting through the medium of instruction”.

[12] J. Dewey, Lectures in the philosophy of education, 1899, cit., p. 77: “there is a process of learning by experience which constitutes the essence of the prescholastic education, and which is maintained through life indipendently of the scholastic education, “learning by experience” being the general term which would include the various processes of direct stimulation, suggestion (….)”.

[13] J. Dewey, Lectures in the philosophy of education, 1899, cit., p. 77: “a gradual systematization of these more direct modes of experience”.

[14] J.Dewey, Lectures in the philosophy of education, 1899, cit., p. 82: “illustrates the idea of the separation of the process of instruction from the things of ordinary experience”.

[15]J. Dewey, Democrazia e educazione, cit., p. 88.

[16] J. Dewey, Democrazia e educazione, cit., p. 89.

[17]J. Dewey, Democrazia e educazione, cit., p. 90.

[18]J. Dewey, Democrazia e educazione, cit., p. 90.

[19] J. Dewey, Democrazia e educazione, cit., p. 91.

[20]J. Dewey, Democrazia e educazione, cit., p. 91.

[21]J. Dewey, Democrazia e educazione, cit., p. 93.

[22] J. Dewey, Democrazia e educazione, cit., p.95.

[23] J. Dewey, Democrazia e educazione, cit., p. 96.

[24] J. Dewey, Democrazia e educazione, cit., p. 96.

[25] J. Dewey, Lectures in the philosophy of education, 1899, cit., p. 200: “the child reproduces in his own development the main stages which have been passed through in the development of the race”.

[26] J. Dewey, Lectures in the philosophy of education, 1899, cit., p. 201: “first say that we should the child to find in what phase of development he is; secondly we should study the historical evolution of humanity to see what the corresponding epoch of the world’s development is; and thirdly, having decided these two points, we should find the great classic creations in that period of world development; and then fourthly, present themas the center for the education of the child”.

[27] J. Dewey, Lectures in the philosophy of education, 1899, cit., p. 201: “the ontogenetic development recapitulates the philogenetic”.

[28] J. Dewey, Lectures in the philosophy of education, 1899, p. 288: “nature has itself its aesthetic aspects, its beauties of form and color. There is no idea more poetic (….) the idea of growth, of life, the mystery of change and of continual development”.

[29] J.Dewey, Democrazia e educazione, cit., p. 91.

[30] J. Dewey, Democrazia e educazione, cit., p. 97.

[31] J. Dewey, Democrazia e educazione, cit., pp. 97-98.

 

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