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Riteniamo interessante pubblicare anche lo stralcio
di una intervista a Don Giussani più recente (agosto 2002), nella
quale si fa riferimento a cristiani ed ebrei)
Per i cristiani è più certa
che mai
l'analogia fra la vicenda di Cristo e l'Olocausto
Pio XI, a chi gli chiese, mandatogli evidentemente da Mussolini, che
anche la Chiesa di Roma favorisse le leggi razziali di Hitler rispose: «Noi
siamo spiritualmente degli ebrei» (1938). Certo, occorre una lettura
culturalmente ben provveduta per dire così. Comunque, il rapporto tra il
popolo cristiano e la realtà ebraica, culturalmente o no, nell'oggi della
storia è perfettamente indicato nell'espressione usata da Pio XI.
Ciò che mi ha indotto a intervenire, è l'avere saputo da la
Repubblica del 21 dicembre l'orrendo fatto determinato in Germania da
un rigurgito d'affermazione nazista: l'esplosione di una bomba nel
cimitero ebraico di Berlino, che ha gravemente danneggiato la tomba di
Heinz Galinski, una delle figure più rappresentative dell'ebraismo
tedesco.
Questo episodio mi ha ricordato il momento in cui gli ebrei hanno levato
un grido, facendolo intendere a tutto il mondo, attraverso il martirio
dell'Olocausto, l'assurdo sacrificio sopportato per tutti. E per noi
adesso la storia ebraica fino a Gesù sostiene una concezione dell'uomo,
del suo destino, dei rapporti col mondo che il nostro popolo può sentire
profeticamente analogica alla sua stessa storia. L'Olocausto è diventato
una pedagogia per tutti i cristiani; come marchio doloroso e ingiusto la
Shoah è proposta dalla più fervida cultura ebraica come argomento
cardine anche per l'umanità, quale debba essere. Così per noi cristiani
oggi è più certa che mai l'analogia della vicenda di Cristo con il senso
dell'Olocausto.
Per noi la pedagogia divina attraverso il popolo ebraico tende a
insegnarci, come supremo fattore del benessere sociale, la concezione del
Dio unico biblico, creatore e Mistero, che nel tempo delinea un progetto
per cui tutto il mondo dispiega una dinamica da cui scaturisce la sua
ricerca di felicità e di compimento; Dio, l'unico, il totalmente Altro
che è pur senso del tempo e Signore della persona, impegnativo nel
giudicare i poteri e le vie dell'uomo; il Dio unico presente sulla terra
attraverso il "Tempio" («Verrò a voi nel tempio»), non solo
come simbolo del divino, ma come il luogo in cui Egli partecipa
all'esistenza concreta dell'uomo, creando il suo popolo. E così il Tempio
rimane il luogo supremo per tutti i tempi e gli spazi della storia umana.
Per affermare Dio e questo Tempio (tutti gli uomini debbono!) viene eletto
un popolo: quello che nasce da Abramo, per cui la persona viene creata per
la salvezza del mondo con un compito identificabile con quello del popolo
stesso.
Questo popolo a cui Dio dà corpo nella storia per dilatare la conoscenza
del proprio Mistero in tutto il mondo e in tutti i tempi, «in tutte le
nazioni», trova impegnata la parola sua nella visione del fine della
storia in cui il popolo stesso si troverà nel giorno di Dio, nel quale si
compiranno le promesse cui gli ebrei debbono corrispondere con la loro
fedeltà di attesa. E' l'attesa di qualcosa che salvi l'uomo e l'umanità,
cioè la liberi dal fatto significativamente primo della storia dell'uomo
che prevede, per il peccato originale, una fatica della libertà davanti a
Dio. E perciò dolore e "distruzione". Così la grandiosa
letteratura profetica segna l'acme e la profondità possibile della
coscienza dell'ebreo in cammino.
Il soggetto di quel "grande giorno" tanto atteso veniva
identificato nel termine "servo di " o "Messia".
La coscienza avveduta di un cristiano investita dalla tradizione non può
non identificare il proprio esistere in questa storia. Che cosa ci può
essere di diverso? Che per noi il Mistero è voluto intervenire nella
tragedia dell'uomo dentro il cosmo, divenendo uomo. Gesù di Nazareth per
noi è il compimento dell'attesa in cui tutto il popolo d'Israele è
vissuto, unico nella storia del mondo.
Ma la nostra non è
presunzione, bensì uno stupefatto paragone, per cui a noi poveri uomini
comuni il Mistero di quella persona si è comunicato, sì che guardando la
storia come ha raggiunto noi in paragone con la storia degli ebrei,
saremmo più felici di chiedere ai nostri fratelli ebrei di perdonarci la
nostra certezza, mentre ad essi è riservato ancora di portare pondus
diei et aestus (cioè tutto il peso della storia) nella vita. Ma la
fatica della fedeltà nell'attesa di Dio si realizza anche come croce
nella vita dei credenti.
Luigi Giussani (la
Repubblica, 2 gennaio 1999)
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