KLEIN-EUROPA PICCOLA EUROPA
*numero zero* del 10 aprile 1997 (n. 0/1997)


     
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il CIRCOLO delle MUSE

RISCOPERTE/Ci fu chi, italiano, il Risorgimento lo visse
dall’altra parte. E non sempre da rinnegato. Come il magistrato che condannò allo Spielberg Pellico, padre a sua volta
di un "degenere sovversivo"

Salvotti,
perfido austriacante
o solo esecutore di leggi?


di MARIA CRISTINA TOSANA


   
Studiato e amato nelle scuole, nonché conosciuto in tutto il mondo come autore del famosissimo libro di memorie "Le mie prigioni", Silvio Pellico è una delle figure più interessanti del Risorgimento italiano. Piemontese d’origine, si stabilì giovanissimo a Milano, dove venne a contatto con letterati e scrittori di spiriti liberali e romantici, grazie ai quali entrò a far parte de Il Conciliatore, giornale inviso al regime austriaco e di cui divenne principale redattore. Dopo la soppressione del giornale ad opera della terribile censura imperiale, aderì nel 1820 alla Carboneria, ma nell’ottobre stesso anno venne arrestato, con l’accusa di cospirare contro l’Austria e imprigionato — prima a Milano, in seguito a Venezia — per poi essere processato e condannato a morte. Condanna che venne però commutata in quindici anni di carcere duro, da scontarsi nella tetra fortezza dello Spielberg, in Moravia (nell’attuale Cekia). Da qui uscì nel 1830, anno in cui fu graziato, provato da anni di sofferenze e privazioni, cui egli, diversamente da altri patrioti che denunciarono i tormenti dei lavori forzati, accenna con discrezione (lamentandosi della «noia del lavoro» e soprattutto dell’umiliante «far calzetta»).
Ma non è di Pellico che vogliamo parlare, bensì di un’altra figura che nella vicenda susseguente al suo arresto e dei moti patriottici appena abbozzati nel Lombardo-Veneto in quell’autunno del ’20 ebbe un ruolo da protagonista. Di un uomo dunque che vanta anch’egli un posto nel mosaico di personaggi ed avvenimenti del nostro Ottocento consacrato al raggiungimento dell’indipendenza, eppure quasi del tutto sconosciuto. Si tratta di Antonio Salvotti, il consigliere di Sua Maestà l’Imperatore d’Austria, che di quella condanna, così come di quelle a carico di Piero Maroncelli e Federico Confalonieri, fu il responsabile e che condusse l’istruttoria di tutti i processi del 1821 a carico dei cospiratori anti-austriaci. Sì, fu un italiano a perseguire quegli italiani e ad emettere quelle sentenze atroci a loro scapito. Dipinto come un implacabile inquisitore, quasi come un "mostro" dagli spiriti liberali italiani del suo tempo, Salvotti fu tormentato dall’odio di quanti vedevano in lui il "carnefice" di Pellico e degli altri; solo con la più recente critica storica la sua condotta come inquisitore è stata ridimensionata. In questa direzione, un contributo significativo viene dallo storico Alessandro Luzio, che nei suoi scritti Antonio Salvotti e i processi del 1821 (1901) e Il processo Pellico-Maroncelli (1903) tenta una difesa del magistrato, alla luce di una nuova analisi di quella «selva selvaggia» che furono appunto i processi del 1821.
Il magistrato Salvotti, rispettoso suddito di Francesco I (e poi di Ferdinando I e poi di Francesco Giuseppe) sintetizza esemplarmente quella compenetrazione italo-austriaca che marcò la formazione di buona parte dei ceti borghesi e nobili del Lombardo-Veneto educati nella prima metà del XIX sec. e li condusse ad assumere un dogmatico atteggiamento di fedeltà alla corona asburgica, la cui definizione di "austriacantismo" appare però non del tutto esauriente. Anche per questo, aldilà delle «superfetazioni fantastiche» — parole di Luzio — che intorno ad essa furono costruite, merita di essere riveduta.
Nato nell’anno della Rivoluzione Francese e appartenente ad un’agiata famiglia borghese del Trentino (il titolo di barone di Eichenkraft und Bindeburg lo ottenne per "meriti di servizio" in età matura), Antonio Salvotti aveva compiuto i suoi studi giuridici all’università di Landshut, e qui aveva conosciuto ed era stato apprezzato per la sua intelligenza da Karl Friedrich Savigny (1779-1861), ossia il fondatore della scuola storica del diritto. Dopo aver svolto una breve e brillante carriera di avvocato sia a Milano che a Trento, entrò nella magistratura imperiale. Promosso consigliere al Tribunale di Trento giovanissimo per quell’incarico (non aveva ancora trent’anni), gli fu subito affidata la prosecuzione dell’istruttoria, avviata dalla polizia di Venezia, sui carbonari del Polesine. Era il 1819. Fu quello il momento, per la scrupolosità con la quale seguì i fatti e per come ad essi applicò il codice asburgico, che ne sancì la sua affermazione come capace conduttore dei processi politici. Segue così il trasferimento a Milano, già accompagnato dalle voci che lo descrivono come il «geniale aguzzino» al soldo dell’Austria. Dal 1820 al 1823 porta avanti le inquisizioni sui carbonari che vedono, fra gli altri, coinvolti appunto Pellico, Confalonieri e Maroncelli. L’«incalzante dialettica», sorretta dalla «svariata cultura» e dalla profonda conoscenza degli atti, gli consentirono di istruire quei processi con disinvoltura, tanto da farli apparire modelli di finezza e di logica.
Nell’intento di conferire alle sue opere quel «grado di relativa certezza cui aspirano i lavori storici», Luzio — cui si devono anche interessanti studi e bozzetti di storia letteraria e politica del Risorgimento — "rilegge" quei processi, augurandosi che il suo «non parlare di Salvotti, come d’un mostro» voglia dire, agli occhi dei patrioti, glorificarlo.
L’«onesto esame de’ fatti» da lui delineato, porterebbe a vedere nel Salvotti un mero esecutore della legge. Se è vera la sua profonda riconoscenza al governo austriaco, il suo eccessivo rigore nell’applicazione della massima dura lex sed lex, è pur vero che arbitro unico della vita e della morte degli inquisiti era Francesco I, incarnazione dell’assolutismo, cui spettavano le sentenze finali. Non solo. Salvotti riconobbe la nobiltà e la forza d’animo dei «costituti», e molti di loro espressero ammirazione nei confronti del magistrato; lo stesso Maroncelli, di fronte al Salvotti, si diceva «rapito in felice estasi», fino a smarrire la «favella» e i «sensi».
Nell’ultima parte della requisitoria del processo Pellico-Maroncelli, Salvotti presentò delle attenuanti a favore dei due patrioti, aspettandosi da Vienna «maggior mitezza». Anche per chi si definiva «fiero esecutore della legge», l’applicazione rigida del codice austriaco doveva apparire un’aberrazione. E Luzio parla di «stupro violento» a proposito della condanna al Pellico e di come lo stesso Salvotti arrossisse dell’atto cui era stato costretto suo malgrado.
E certo non dovette risultare difficile al Salvotti, magistrato dalla non comune scaltrezza e intelligenza giuridica, far cadere in contraddizione gli imputati, che annaspavano nelle strette della sua logica. Ritenendo non sufficiente il poter contare sulla sua pur ferrea memoria, Salvotti copiava spesso di suo pugno i brani delle deposizioni, così da acquisire maggior padronanza dell’inquisizione.
Quei carbonari, di cui l’imperatore austriaco aveva terrore e che definiva «masnadieri», agli occhi del Salvotti apparivano «innocui». Nel corso del processo Pellico-Maroncelli, in cui meglio si espresse il suo acume giuridico, Salvotti fu aiutato anche dall’ingenuità dei due patrioti, che per non macchiarsi di delazione, spesso si contraddicevano su diversi punti essenziali della loro difesa, nuocendosi a vicenda. Nei primi interrogatori, infatti, il Pellico respinse le accuse, in opposizione talvolta con quanto l’amico aveva precedentemente deposto. E a nulla valse il tentativo del Maroncelli di informarlo in carcere, tramite un biglietto, sulle sue deposizioni. Pur di non sostenere il confronto con l’amico, il Pellico finì per riconoscere la verità delle accuse. A quei lunghi e interminabili interrogatori Pellico accenna con discrezione ne "Le mie prigioni", definendoli «esami tormentosi», da cui usciva «esacerbato e fremente».
Se benigni sono i giudizi, intorno all’operato del Salvotti degli storici del periodo risorgimentale, diversamente la pensavano gli italiani a lui contemporanei. Disprezzato e inviso, negli ultimi anni della sua vita il magistrato fu spinto dalla disperazione a scrivere delle "Memorie", rimaste incomplete. Scritto in forma di lettera aperta, questo libro doveva costituire una sorta di autoapologia, dove egli, la bête noire dei liberali, invitava a rivedere la storia dei processi del 1821 — di cui chiedeva inoltre la pubblicazione — con imparzialità di criteri, sollevandosi inoltre da qualsiasi responsabilità nei confronti delle barbarie dello Spielberg.
Ma quegli abbozzi di memorie erano anche il modo per esprimere il dispiacere dato dall’entrata del figlio Scipione nelle fila dei patrioti. Quel figlio che mai avrebbe potuto immaginare dal destino "degenere", Antonio Salvotti lo ebbe proprio nel 1830, l’anno in cui Silvio Pellico tornava libero. Frequentatore degli ortodossi ambienti in cui era introdotto il padre, Scipio non destava preoccupazioni per la sua intelligenza e per la sua dedizione allo studio. Convittore all’Accademia universitaria di Berlino, si era laureato precocissimo in medicina a Torino, mentre ancora non si erano spenti gli echi delle tante "rivoluzioni" che avevano costellato il 1848 in Europa. Ma la professione medica non lo attraeva; preferiva le lettere e fu questo campo, pure nel quale dimostrò il suo talento, che lo aprì alla conoscenza dei liberali italiani, delle cui idee di indipendenza dell’Italia dalla dominazione straniera era diventato profondo assertore. Anche a costo di ripudiare il padre, considerato comunemente da loro come un essere detestabile. D’altronde, neppure Antonio Salvotti era tenero con Scipio, ritratto da lui a quel tempo come una «vittima espiatoria dell’offeso sentimento nazionale», un «liberale esaltato». Eppure, talvolta l’affetto prevaleva sull’intransigenza dei comportamenti e lo dimostra una lettera di Salvotti padre al figlio del dicembre del 1848, nella quale, pur giudicandolo con asprezza, incapace di discernere «sulla scena del mondo» il vero dal falso, lo invita ancora una volta ad abbandonare la politica. Non lo fece. E così Scipio s’incamminò sul sentiero sempre più ripido della cospirazione che lo portò a varcare la soglia delle carceri imperiali di Theresienstadt poco più che ventenne, accusato di alto tradimento. La «nemesi del patriottismo» si era compiuta.
Il padre, che godeva della più completa fiducia da parte dell’autorità austriache, avrebbe potuto facilmente farlo scarcerare, ma Salvotti era troppo rispettoso del Diritto, la sua vera fonte di vita, per permettersi il compimento a suo beneficio di questo atto di potere. Ligio e fermo alle sue convinzioni, accettò in silenzio questo dolore procurato dalla sorte. Sì limitò a chiedere che fosse trattato con rispetto e che gli fossero concessi quei pochi privilegi che il denaro poteva offrire, così come aveva fatto per i suoi imputati importanti. Ma allo stesso tempo esortò il figlio alla prudenza, scrivendogli di non compromettersi ulteriormente con le autorità austriache.
Una dicotomia di atteggiamenti, tra quello distaccato dell’alto dignitario di corte e quello comunque confidente ed apprensivo del genitore, che appare non comprensibile essendo rivolti alla stessa persona, ma per i quali Luzio trova una spiegazione, essendo lui «una mente e un animo modellati in quello stampo», incapace di «disfarsi delle abitudini contratte e diventate seconda natura».
Intanto la Storia andava avanti. La tempesta familiare di Antonio Salvotti si scontrava con la bufera della guerra di Crimea. Venne quindi la dissoluzione dell’impero ottomano ed il conseguente inglobamento dei territori balcanici nella sfera asburgica. E il ’59: la dimostrazione sprezzante del dominio austriaco apparteneva al passato, i plebisciti indicavano la costruzione di un’Italia indipendente. Ma Antonio Salvotti, che ad una nazione unita non credeva neppure allora, chiese a suo figlio di non compromettersi nuovamente di fronte al governo asburgico. Stavolta Scipione obbedì e tornò col padre in Trentino, accudendo al patrimonio familiare. Antonio Salvotti morì a Trento nel 1866, mentre l’Italia era praticamente fatta. Gli inganni di una fede giuridica sempre perseguita lo avevano truffato. Ed il Destino non fu molto clemente poi con Scipio, morto nell’ultimo lembo di "Italia straniera" nel 1883, a 53 anni.


   
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