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SOMMARIO: a)
Abuso; b) Accessione; c) Alterazione della destinazione; e) Autorizzazione assembleare; f) Concessioni amministrative; g) Controversie; i) Forno: k) Limiti: l) Modificazioni: m) Ostacoli al diretto godimento; n) Pari uso; o) Piscina; q) Targhe e insegne (apposizione); r) Tende (installazione): s) Uso diverso; t) Uso esclusivo; u) Uso frazionato; v) Uso più intenso; w) Uso turnario; x) Uso vietato; y) Usucapione; z) Usufruttuario.
L'amministratore del condominio,
che è responsabile dei danni cagionati dalla sua negligenza. dal cattivo uso
dei poteri e in genere di qualsiasi inadempimento degli obblighi legali o
regolamentari. non può essere ritenuto responsabile, ancorché sia tenuto a
far osservare il regolamento condominiale, dei danni cagionati dall'abuso dei
condomini nell'uso della cosa comune, non essendo dotato di poteri coercitivi
e disciplinari nei confronti dei singoli condomini - salvo che il regolamento
di condominio, ai sensi dell'art. 70 att. c.c., preveda la possibilità di
applicazione di sanzioni nei confronti dei condomini che violano le norme da
esso stabilite sull'uso delle cose comuni - né obbligato a promuovere azione
giudiziaria contro i detti condomini in mancanza di una espressa disposizione
condominiale o di una delibera assembleare.
Ove una fattispecie trovi
specifica disciplina nell'art. 1102, che regola l'uso della cosa comune da
parte dei partecipanti alla comunione, è preclusa l' applicazione alla
stessa, in via analogica, dell'art. 936 c.c. in materia di accessione. non
essendo consentito il ricorso alle disposizioni che regolano casi simili o
materie analoghe (c.c. analogia legis) in assenza di una qualsivoglia lacuna
dell'ordinamento. La disciplina dell'accessione
contenuta nell'art. 934 c.c. si riferisce solo alle costruzioni (o
piantagioni) su terreno altrui e non anche alle costruzioni eseguite da uno dei
comproprietari sul terreno comune, per le quali debbono ritenersi, invece,
applicabili le norme sul condominio ed, in particolare, la disposizione
dell'art. 1120 c.c., che vieta, tra l'altro, le innovazioni che rendano
alcune parti comuni dell'edificio inservibili all'uso o al godimento di altri
condomini, a meno che non vi sia il consenso di questi, nella forma scritta
richiesta, a pena di nullità, per la costituzione di diritti reali su beni
immobili. La norma dell'art. 938 c.c., che
disciplina la cosiddetta accessione invertita, ha carattere eccezionale - in
quanto derogativa sia del principio dell'accessione ("quod inaedificatur
solo cedit"), sia di quello secondo cui il proprietario ha diritto di
disporre della propria cosa in maniera piena ed esclusiva - e come tale non
può trovare applicazione nell'ipotesi di costruzione eseguita in tutto o in
parte su un suolo di proprietà comune del costruttore e di terzi, nella quale
si applicano le norme sulla comunione, senza che sia eccepibile una disparità
di trattamento tra comunista e terzo, rientrando nella discrezionalità del
legislatore la delimitazione del campo di operatività dell'accessione
invertita. (Fattispecie relativa alla costruzione eseguita su un cortile
destinato all'uso comune degli edifici che lo circondano).
c) Alterazione della destinazione. L'art. 1102 cod. civ., nel
regolare i diritti dei partecipanti alla comunione, prescrive che in ogni
caso non può essere alterata la destinazione della cosa comune, sicché solo
le modificazioni di questa, in quanto consentano il pari uso secondo il
diritto di ciascuno, rientrano nella previsione legale, mentre è vietata ogni
diversa attività innovatrice. (Nella specie, alla stregua del principio
enunciato, è stata giudicata corretta la decisione che ha ritenuta vietata la
costruzione di un terrazzo pensile soprastante un cortile comune, con la
costruzione, inoltre di gradini e di un'aiuola sul cortile stesso). La destinazione della cosa comune
- che, a norma dell'ari. 1102 c.c., ciascun partecipante alla comunione non
può alterare - dev'essere determinata attraverso elementi economici, quali
gli interessi collettivi appagabili con l'uso della cosa, giuridici, quali le
norme tutelanti quegli interessi, e di fatto, quali le caratteristiche della
cosa; e dev'essere cassata con rinvio la sentenza del merito che esclude
essere stata alterata la destinazione di un pozzo comune dalla costruzione di
un impianto di adduzione dell'acqua ad una casa di proprietà singola, senza
accertare se ciò abbia implicato limitazioni allo sfruttamento da parte degli
altri partecipanti. La disciplina dei giochi dei
bambini nei viali del cortile-giardino condominiale non integra
un'occupazione degli stessi né un'alterazione della destinazione della cosa
comune, con impedimento del pari uso degli altri condomini, risolvendosi in
una forma di utilizzazione diversa da quella normale ma non illegittima,
essendo compatibile con la destinazione del bene. Essa può, di conseguenza,
essere disposta dall'assemblea con deliberazione adottata con la maggioranza
prevista dall'art. 1136 cod. civ., ancorché il regolamento di condominio di
natura contrattuale vieti l'occupazione delle parti comuni da parte dei
condomini. L'utilizzazione del cortile comune
come spazio destinato al gioco limitatamente ai soli bambini di età inferiore
ai dodici anni, integra un uso aggiuntivo della cosa comune la cui disciplina
è rimessa alla volontà dell'assemblea, la quale ben può deliberare sul punto
con la maggioranza di cui all'art. 1136. L'utilizzazione per il gioco dei
bambini di una parte assai limitata dell'area verde consortile non contrasta
con la destinazione a giardino prevista, per quella stessa area, dal
Regolamento consortile, ma ne costituisce unicamente un migliore e più
intenso godimento per soddisfare esigenze che pure appaiono insopprimibili e,
comunque, senz'altro meritevoli di tutela nella vita di un condominio. La norma di un regolamento
condominiale che disciplina il criterio di ripartizione delle spese di
manutenzione relative al campo da tennis condominiale non pregiudica il
godimento del campo anche a favore dei figli dei proprietari degli
appartamenti non residenti nel condominio, godimento configurabile quale uso
indiretto della cosa comune.
e) Autorizzazione assembleare. La deliberazione dell'assemblea
condominiale. con la quale venga autorizzato l'uso di un bene comune in modo
incompatibile con l'utilizzazione ed il godimento di parti dell'edificio di
proprietà di un singolo condomino, è illegittima indipendentemente dalla
circostanza che, per ragioni contingenti e transitorie, il bene di proprietà
individuale ed esclusiva non sia attualmente utilizzato secondo la sua
naturale destinazione (In base al suddetto principio la S.C. ha ritenuto
corretta la decisione del giudice di merito che aveva dichiarato la
illegittimità di una delibera con la quale era stata decisa l'utilizzazione
come parcheggio di un'area condominiale sotto il profilo che detto uso
avrebbe ostacolato l'accesso ad alcuni locali di proprietà individuale
destinati ad essere utilizzati come autorimesse, a nulla rilevando che detto
uso non fosse attuale per la necessità di realizzare alcuni lavori di
rifinitura e di adattamento dell'immobile). Nel condominio di edifici
allorquando una deliberazione dell'assemblea condominiale, la quale sancisce
un determinato uso della cosa comune, venga adottata con il voto unanime dei
partecipanti al condominio, l'atto conserva la sua validità anche se abbia,
in ipotesi, a limitare il godimento di alcuno dei condomini.
f) Concessioni amministrative. In tema di condominio negli
edifici, qualora uno dei condomini, senza violare i limiti di cui all'art.
1102 c.c., faccia uso della cosa comune (nella specie mediante la costruzione
di un comignolo sul tetto dell'edificio), la mera mancanza delle concessioni
o autorizzazioni amministrative non può essere invocata dal condominio quale
fonte di risarcimento del danno, riflettendosi esclusivamente nei rapporti
tra il privato e la pubblica amministrazione.
Quando tra alcuni comunisti
insorga controversia sulle modalità di uso della cosa comune, ancorché
riguardanti una modificazione che, non incidendo sull'estensione dei diritti
degli altri partecipanti (art. 1102, comma secondo, cod. civ.) né eccedendo
l'ordinaria amministrazione (ari. 1108 cod. civ.), tende al suo migliore
godimento, nel giudizio instaurato fra i comunisti in disaccordo, non v'è
litisconsorzio necessario di tutti gli altri partecipanti alla comunione. Il condomino, il quale denunci la
violazione dei limiti che debbono osservarsi dai singoli condomini nell'uso
della cosa comune, assumendo che taluno di quelli abbia destinato parte della
cosa stessa al servizio della sua proprietà esclusiva e, così, impedito
l'esercizio sulla medesima del concorrente diritto di tutti gli altri
condomini, propone un'azione reale che va ricondotta nel paradigma delle
azioni negatorie, il cui valore deve essere determinato a norma dell'art. 15
cod. proc. civ. e, in particolare, in base al criterio sussidiario previsto
dall'ultimo comma essendo venuto meno - a seguito della abolizione delle
imposte reali e la loro sostituzione con l'imposta sul reddito delle persone
fisiche (art. 82 del d.p.r. 29 settembre 1973 n. 597) - il criterio del
riferimento al tributo diretto verso lo Stato. Lo stabilire se un determinato uso
della cosa comune da parte del singolo condomino (nella specie: posa di
tubazioni) rientri o meno tra quelli consentiti è compito del giudice del
merito la cui valutazione è incensurabile in sede di legittimità, se
adeguatamente motivata. Nella controversia concernente
l'inosservanza delle norme condominiali riguardanti la condotta dei condomini
nell'uso o godimento delle cose comuni, sono legittimati passivi, in assenza
di dolo o colpa da parte dell'amministratore, solo coloro che in effetti
abbiano compiuto le trasgressioni e cioè i singoli condomini, tenuti ad
osservare le regole di condotta dettate dal regolamento. L'indagine sulla illiceità o meno
dell'uso della cosa comune, da parte del condomino di edificio, va condotta
alla stregua degli obiettivi criteri legali della sussistenza o meno di un
pregiudizio alla cosa medesima, ovvero di una lesione del diritto di
godimento spettante agli altri partecipanti, mentre rimane irrilevante, a tal
fine, ogni valutazione sulla concreta idoneità di quell'uso ad arrecare
utilità al suo autore, salva la configurabilità di atti d'emulazione, ai
sensi ed agli effetti di cui all'art. 833 c.c. Nel contrasto fra le parti, il
giudice è chiamato a dichiarare la volontà concreta della legge nel fatto
dedotto ed accertato, non anche ad indicare astrattamente quali fatti
sarebbero conformi o meno a diritto. Pertanto, nella controversia diretta a
stabilire la liceità od illiceità di una determinata opera, eseguita da un
condomino su parte comune di edificio (nella specie, vetrina apposta su muro
perimetrale), non può ritenersi consentito di richiedere al giudice di
indagare o pronunciarsi su quali eventuali modifiche di quell'opera
potrebbero assicurarne la liceità.
A norma dell'art. 1103 cod. civ.,
la vendita di quota di bene indiviso è ammissibile e valida, senza che gli
altri comproprietari abbiano diritto di opporsi, e, pertanto, se in un
contratto di vendita è indicato che il bene appartiene a più persone e solo
alcune di esse lo sottoscrivono, non può negarsi a priori la validità della
vendita delle singole quote, a meno che non ricorra l'inscindibilità della
prestazione, da dedursi e verificarsi nel giudizio di merito. Qualora il compartecipe alieni la
sua quota della proprietà indivisa, l'acquirente subentra nella comunione al
posto dell'alienante, ma se l'alienazione riguarda non la quota ma la parte
determinata corrispondente alla quota e vi sia l'assenso di tutti gli altri
compartecipi, si ha una vera e propria divisione o atto equiparato alla
divisione, perché si realizza il risultato tipico della divisione. Pertanto,
se chi chiede la divisione non contesta l'avvenuto scioglimento nei modi
predetti, l'oggetto della pretesa si riduce ad un mero accertamento, ma se lo
contesta e non risultano provati nelle forme idonee la divisione o i suoi
surrogati, va disposta la divisione, ma il fatto storico rimane, con la
conseguenza che ognuno deve imputare alla sua quota ciò che ha ricevuto, con
le rivalutazioni del caso e con le responsabilità conseguenti, giacché la
stima per la divisione è coeva alla sua attuazione. In tema di comunione, il diritto
di ciascun partecipante di cedere ad altri il godimento della cosa, nei
limiti della sua quota (art. 1103 cod. civ.), implica che al partecipante
medesimo deve riconoscersi anche la facoltà di costituire, sempre nei limiti
della sua quota. un diritto reale di uso a favore di un terzo. La rinunzia abdicativa del
partecipante ad una comunione, in quanto determina l'accrescimento della
quota rinunciata a favore degli altri partecipanti, ha una funzione
satisfattiva-liberatoria; ne consegue che il rinunziante, con la dismissione
del proprio diritto (reale) si libera delle obbligazioni (propter rem) a quel
diritto collegate, e queste vanno a carico dei rimanenti partecipanti. Il trasferimento della proprietà
esclusiva di una porzione di piano di un edificio in condominio comporta
altresì il trasferimento delle parti oggetto di proprietà comune, salvo che
il trasferimento di queste ultime non risulti espressamente escluso dal
titolo.
L'art. 1117 n. 3, c.c., elenca, in
via del tutto esemplificativa, le opere, le installazioni e i manufatti di
qualunque genere che servono all'uso comune e che il legislatore ha voluto
comuni ai proprietari dei diversi piani o porzioni di piano di un edificio,
facendo salva la diversa volontà di detti proprietari o del loro autore;
conseguentemente, un forno sistemato su un pianerottolo comune, in difetto di
un titolo che ne attribuisca la proprietà esclusiva ad uno dei proprietari,
ben può ritenersi destinato all'uso e al godimento comune, come accessorio di
parti od opere comuni, da presumersi del pari comune.
L'atto scritto, che è necessario
per lo scioglimento della comunione e la divisione della proprietà
immobiliare, ai sensi dell'art. 1350 n. 11 cod. civ., non occorre invece per la
semplice attribuzione, ferma rimanendo la comproprietà, fra gli aventi
diritto, di un godimento separato del bene comune che può essere validamente
attuata anche con convenzione verbale.
L'art. 1102, primo comma, cod.
civ. assoggetta l'uso della cosa comune da parte di ciascun condomino al
duplice limite di non alterarne la destinazione e di non impedire agli altri
partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto; e tale principio
vale, ovviamente, anche per le modificazioni che il condomino, ai sensi della
stessa norma, voglia apportare a proprie spese per il miglior godimento della
cosa comune. L'art. 1102 c.c. intende
assicurare al singolo partecipante, per quel che concerne l'esercizio del suo
diritto, la maggior possibilità di godimento della cosa comune, nel senso che,
purché non resti alterata la destinazione del bene comune e non venga
impedito agli altri partecipanti di fare parimenti uso della cosa, egli deve
ritenersi libero di servirsi della cosa stessa anche per fine esclusivamente
proprio, traendo ogni possibile utilità, senza che possano costituire vincolo
per lui forme più limitate di godimento attuate in passato dagli altri
partecipanti, e può scegliere, tra i vari possibili usi quello più confacente
ai suoi personali interessi. (Nella specie si è escluso che esorbiti dal
corretto uso della cosa comune la transennatura e l'occupazione periodica di
un portico con legna da parte di un condomino, in assenza di prova del
carattere stabile dell'occupazione e di un apprezzabile pregiudizio per gli
altri condomini). La norma dell'ari. 1102 c.c.,
concernente la facoltà del condomino di apportare modifiche a sue spese per
il migliore godimento della cosa comune, è derogabile per regolamento condominiale
avente efficacia contrattuale in quanto sottoscritto da tutti i condomini, ma
tale deroga deve risultare in modo espresso e non può ritenersi
implicitamente disposta per la previsione nel regolamento
dell'assoggettamento a delibera assembleare (a maggioranza qualificata) delle
modificazioni alle cose comuni finalizzate al miglior godimento delle cose
stesse, da parte della pluralità condominiale, dato che queste ultime
comportano non solo l'incidenza della spesa su tutti i condomini, ma altresì
la modifica in tutto o in parte nella materia o nella forma ovvero nella
destinazione di fatto o di dritto della cosa comune, a differenza delle
modificazioni apportabili dal singolo condomino, che non possono incidere che
sul pari uso (anche potenziale) degli altri condomini. L'uso della cosa comune da parte
di ciascun partecipante è sottoposto dall'art. 1102 c.c. a due limiti
fondamentali, consistenti nel divieto di alterare la destinazione della cosa
comune e nel divieto di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti
uso secondo il loro diritto. Pertanto, a rendere illecito l'uso basta il
mancato rispetto dell'una o dell'altra delle due condizioni, sicché anche
l'alterazione della destinazione della cosa comune determinato non soltanto
dal mutamento della funzione, ma anche dal suo scadimento in uno stato
deteriore, ricade sotto il divieto stabilito dall'art. 1102 c.c. Le due condizioni d'uso della cosa
comune, consistenti, a norma dell'art. 1102 c.c., nella non alterazione della
cosa stessa e nel non impedimento agli altri comproprietari di farne
parimenti uso secondo il loro diritto, debbono necessariamente coesistere,
onde a rendere illecito l'uso è sufficiente la sola alterazione della cosa,
determinata non solo dal mutamento della sua funzione ma anche dal suo
scadimento a deteriore condizione. L'uso da parte di ciascun
condomino - nonché del locatario che da quest'ultimo ha causa - della cosa
comune e delle parti comuni di una cosa è sottoposto, ai sensi dell'art. 1102
cod. civ., al divieto di alterare la destinazione della cosa comune, nonché a
quello di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il
loro diritto, con preminenza dell'osservanza del primo divieto potendosi
avere salvaguardia degli interessi dei condomini solo col rispetto della
destinazione attualmente impressa alla cosa comune. L'accertare se gli atti e
le opere dei singoli condomini, miranti ad una intensificazione del proprio
godimento della cosa comune, siano conformi o meno alla destinazione della
cosa comune, è compito del giudice del merito, incensurabile in sede di
legittimità se congruamente motivato. (In applicazione del principio di cui
alla massima, è stata ritenuta corretta la decisione del giudice del merito
che, sulla base di una norma del regolamento di condominio che prevedeva una
espressa autorizzazione condominiale, ha affermato che l'apposizione di
cartelloni pubblicitari sulla facciata non può essere considerata
esplicazione del normale uso di godimento della cosa). Il limite al diritto di godimento
spettante a ciascun condomino iure proprietatis sulle parti comuni - nella
specie divieto di sosta, anche per il carico e discarico di masserizie, in
tutti gli spazi comuni dell'edificio - disposto dal regolamento condominiale
nell'interesse comune e accettato nei singoli atti d'acquisto, ha natura
negoziale e perciò può essere modificato soltanto per iscritto e con il
consenso unanime dei condomini. Il condomino non ha il dovere di
limitare l'uso della cosa comune ai soli casi in cui il suo interesse non
possa essere altrimenti soddisfatto con il medesimo costo, perché il solo
limite che l'art. 1102 c.c. pone al potere di utilizzazione della cosa comune
da parte di ciascun condomino è quello del divieto di alterarne la
destinazione e di impedire che altri ne faccia parimenti uso secondo il suo
diritto. La coesistenza di una comunione
d'uso e di separate proprietà esclusive in relazione ad un determinato bene,
possibile quando proprietari di esso siano dei privati, in quanto è
compatibile con il godimento o uso comune del bene, la proprietà esclusiva di
sue parti separate, intesa come residua facoltà di disposizione di esse, va
esclusa quando invece i proprietari siano due enti pubblici territoriali ed
il bene sia un bene demaniale (nella specie, una strada), poiché la
demanialità esclude la facoltà di disposizione e l'unico modo di esercizio
della facoltà di godimento da parte dei suddetti enti pubblici, in relazione
alla natura del bene, è quello della destinazione al pubblico transito,
coincidente con la sua comunione d'uso. L'uso della cosa comune da parte
del condomino, oltre ad essere soggetta ai limiti interni posti dalla legge
nei rapporti tra condomini (art. 1102 cod. civ.), incontra anzitutto un
limite esterno, in relazione all'ambito stesso delle parti di proprietà
condominiale, al di fuori del quale non può parlarsi di uso o miglior uso
della cosa comune, poiché il rispetto della proprietà esclusiva dei singoli
condomini esige che gli altri non possano invaderne la sfera, né gravarla di
pesi o limitazioni, ove non abbiano al riguardo un particolare diritto.
(Nella specie, enunciando il surriportato principio, il S.C. ha confermato la
decisione del giudice del merito di condanna di un condomino alla rimozione di
tubazioni con cui aveva invaso una cantina di proprietà esclusiva di altro
condomino). Poiché l'art. 1102 cod. civ. vieta
le utilizzazioni della cosa comune che impediscono agli altri condomini di
continuare a farne uso in conformità alla sua destinazione, il condomino di
un edificio non può, eseguendo una costruzione in appoggio al muro
perimetrale comune (nella specie: tettoia), chiudere le aperture del medesimo
destinate a dare luce ad un vano di proprietà di altro condomino, sicché tale
opera che sia stata eseguita lecitamente al momento della sua realizzazione,
non può essere frustrata da una siffatta utilizzazione successiva della cosa
comune pretesa dall'altro condomino. Il divieto di modificare la cosa
comune, sottraendola alla possibilità di sfruttamento da parte di tutti i
partecipanti alla comunione secondo l'originaria funzione della cosa stessa,
opera anche in relazione alle porzioni del bene comune delle quali i
comproprietari si siano convenzionalmente attribuiti il godimento separato,
in quanto anche in tal caso, non venendo meno la contitolarità dell'intero
bene, la facoltà di utilizzazione della cosa attribuita a ciascuno dei
comproprietari trova limite nella concorrente ed analoga facoltà degli altri,
con la conseguenza che sono consentite solo le opere necessarie al miglior
godimento, dovendo per contro ravvisarsi una lesione del diritto di comproprietà
degli altri condomini quando la cosa comune sia stata alterata, in tutto od
in parte, e quindi concretamente sottratta alla possibilità dell'attuale
sfruttamento collettivo nei termini funzionali o originariamente praticati. Nel condominio di edificio, al
fine di determinare la portata del godimento spettante a ciascun partecipante
sui beni comuni, occorre fare riferimento al momento in cui l'unico dominio
esclusivo si fraziona in più proprietà individuali. Pertanto, tale godimento
non può estendersi a vantaggio di costruzioni realizzate da un condomino
nell'ambito della sua proprietà individuale successivamente alla costituzione
del condominio, in ampliamento oppure a completamento dell'edificio
condominiale, anche se in attuazione degli intendimenti dell'originario
costruttore ed unico proprietario. Il principio di cui all'art. 1102
cod. civ., sull'uso della cosa comune consentito al partecipante, non è
applicabile ai rapporti tra proprietà individuali (e loro accessori) e beni
condominiali finitimi, che sono disciplinati dalle norme attinenti alle
distanze legali ed alle servitù prediali, ossia da quelle che regolano i
rapporti tra proprietà contigue od asservite e che non contraddicono alla
particolare normativa della comunione. L'esercizio della facoltà di ogni
condomino di servirsi della cosa comune, nei limiti indicati dall'ari. 1102
c.c., deve esaurirsi nella sfera giuridica e patrimoniale del diritto di
comproprietà sulla cosa medesima e non può essere esteso, quindi, per il
vantaggio di altre e diverse proprietà del medesimo condomino perché in tal
caso si verrebbe ad imporre una servitù sulla cosa comune per la cui
costituzione è necessario il consenso di tutti i condomini. L'assemblea del condominio di un
edificio ha il potere di disciplinare, e, eventualmente, nel concorso di
giustificate ragioni ed interessi comuni, di ridurre l'uso della cosa comune
da parte dei singoli partecipanti, ma non anche quello di sopprimere totalmente
l'uso medesimo, ancorché limitatamente a determinati periodi di tempo. (Nella
specie, premesso il principio di cui sopra, la S.C. ha ritenuto correttamente
affermata dai giudici del merito la nullità, e, quindi, l'impugnabilità oltre
il termine stabilito dall' art. 1137 terzo comma c.c., della delibera con la
quale era stata decisa l'assoluta chiusura di un cancello di accesso al
cortile, in determinate ore del giorno). A norma dell' art. 1138 c.c., l'assemblea
dei condomini può, in sede di formazione o di modifica del regolamento
condominiale, regolare, a maggioranza, le modalità di godimento delle cose e
dei servizi comuni (istituendo, se del caso, l'uso turnario degli stessi), ma
non anche disciplinare la misura e l'intensità di esso quale risulta dal
titolo di acquisto o dalla legge ed, in particolare dall'art. 1102 c.c.,
limitando tale godimento ad una soltanto delle forme di uso di cui la cosa
comune sia suscettibile secondo la sua destinazione. Le norme del regolamento
condominiale che introducano tali limitazioni specialmente nel caso in cui
queste possono incidere sull'utilizzabilità e sulla destinazione delle parti
dell'edificio di proprietà esclusiva, hanno carattere convenzionale, nel
senso che, se predisposte dall'originario proprietario dello stabile, debbono
essere accettate dai condomini nei rispettivi atti di acquisto, ovvero con
atti separati e, se, invece, deliberate dall'assemblea condominiale, debbono
essere approvate all'unanimità. Inoltre, i vincoli da esse costituiti, avendo
natura di oneri reali, per poter essere opposti ai terzi acquirenti a titolo
particolare, debbono essere trascritti nei pubblici registri, ovvero
accettati nei singoli negozi di acquisto. L'art. 1102 c.c., non pone una
norma inderogabile i cui limiti non possano essere resi più severi da un
predisposto regolamento condominiale, successivamente recepito nel contratto
d'acquisto di beni compresi nel complesso condominiale. La sfera dei diritti dei singoli
condomini sulla cosa comune può essere suscettibile di restrizioni purché
abbiano natura contrattuale e siano trascritte per la loro ulteriore validità
anche nei confronti dei successivi acquirenti (la fattispecie esaminata
riguarda una veranda appoggiata ed ancorata al muro della facciata
dell'edificio). L'annessione effettuata da un
singolo condomino di una porzione della cosa comune a locale di sua proprietà
esclusiva e la correlativa sottrazione ditale porzione al pari diritto degli
altri condomini, configurano violazione del disposto dell'art. 1102 cod.
civ., il quale, nel permettere a ciascun condomino di servirsi della cosa
comune e di apportarvi le modifiche necessarie per il migliore godimento,
pone come condizione limitativa il divieto di alterare la destinazione e
quello di impedire agli altri partecipanti di fanne parimenti uso, secondo il
loro diritto. In un condominio composto da meno
di dieci condomini, sebbene non sussista l'obbligo giuridico di formare un
apposito regolamento che disciplini l'uso della cosa comune, tuttavia il
potere della maggioranza dei condomini di disporre o meno le modalità per il
migliori godimento della cosa comune trova il suo limite nel rispetto della
condizione che il diritto di comproprietà possa estrinsecarsi liberamente e,
in ogni caso, non può menomare le facoltà attribuite dalla legge
all'amministratore. L'assemblea condominiale può, in
sede di approvazione del regolamento, e con le maggioranze previste dall'art.
1136 cod. civ., imporre ai singoli condomini limitazioni all'uso e alla
destinazione dei loro appartamenti, quando tali destinazioni, per loro
natura, necessariamente implichino un uso eccessivo o sproporzionato delle
cose comuni ovvero ne alterino la destinazione. Di conseguenza, spetta al
condominio dissenziente provare l'esistenza di un regolamento contrattuale
che, accettato dai singoli compratori, abbia fissato una determinata
destinazione dell'edificio.
A differenza dalle innovazioni -
configurate dalle nuove opere, le quali immutano la sostanza o alterano la
destinazione delle parti comuni, in quanto rendono impossibile la
utilizzazione secondo la funzione originaria, e che debbono essere deliberate
dall'assemblea (art. 1120, comma 1, c.c.) nell'interesse di tutti i
partecipanti - le modifiche alle parti comuni dell'edificio. contemplate
dall'art. 1102 c.c., possono essere apportate dal singolo condomino, nel
proprio interesse ed a proprie spese, al fine di conseguire un uso più
intenso, sempre che non alterino la destinazione e non impediscano l'altrui
pari uso. Pertanto, è legittima l'apertura di vetrine da esposizione nel muro
perimetrale comune, che per sua ordinaria funzione è destinato all'apertura
di porte e di finestre, realizzata dal singolo condomino mediante la
demolizione della parte di muro corrispondente alla sua proprietà esclusiva.
Alla eventuale autorizzazione ad apportare tale modifica concessa
dall'assemblea può attribuirsi il valore di meno riconoscimento dell'inesistenza
di interesse e di concrete pretese degli altri condomini a questo tipo di
utilizzazione del muro comune. In caso di condominio negli
edifici, la modificazione di una parte comune e della sua destinazione, ad
opera di taluno dei condomini, sottraendo la cosa alla sua specifica funzione
e quindi al compossesso diluiti i condomini, legittima gli altri all'esperimento
dell'azione di reintegrazione con riduzione della cosa stessa al pristino
stato, tal che possa continuare a fornire quella utilitas alla quale era
asservita anteriormente alla contestata modificazione senza che sia
necessaria specifica prova del possesso di detta parte (che non abbia una sua
autonomia rispetto all'edificio), quando risulti quello di una o più delle
porzioni immobiliari in cui l'edificio stesso si articoli. Le modificazioni della cosa comune
o di sue parti (muri perimetrali, cortili ecc.), eseguite dal singolo
condomino ai fini di un suo uso particolare, diretto ad un migliore e più
intenso godimento della cosa medesima, costituiscono una consentita
esplicazione del diritto di comproprietà ex art. 1102 cod. civ., ove non
implicano alterazioni della consistenza e della destinazione del bene e non
pregiudichino i diritti di uso e di godimento degli altri condomini.
Diversamente, si risolvono in una innovazione vietata ai sensi dell'art. 1120
stesso codice, e nel caso di costruzione, nel cortile comune, di una
autoclave per il servizio di una singola unità abitativa - seppure consentita
con deliberazione della assemblea dei condomini a norma del quinto comma
dell'art. 1136 - comporta sottrazione di una parte del suolo comune alla sua
naturale destinazione ed all'uso e godimento degli altri condomini. Il divieto di modificare la cosa
comune, sottraendola alla possibilità di sfruttamento da parte di tutti i
partecipanti alla comunione secondo l'originaria funzione della cosa stessa,
opera anche in relazione alle porzioni del bene comune delle quali i
comproprietari si siano concordemente attribuito il godimento separato, in
quanto anche in tal caso, non venendo meno la contitolarità dell'intero bene,
la facoltà di utilizzazione della cosa attribuita a ciascuno dei
comproprietari trova limite nella concorrente ed analoga facoltà degli altri,
con la conseguenza che sono consentite solo le opere necessarie al miglior
godimento, e dovendo per contro ravvisarsi una lesione del diritto di
comproprietà degli altri condomini quando la cosa comune sia stata alterata,
in tutto od in parte, e quindi concretamente sottratta alla possibilità
dell'attuale sfruttamento collettivo nei termini funzionali o originariamente
praticati. Costituiscono esplicazione del
diritto di comproprietà ex art. 1102 cod. civ., e in quanto tali non
richiedono la preventiva autorizzazione dell'assemblea condominiale, le
modificazioni della cosa comune eseguite dal singolo condomino ai fini di un
suo uso particolare diretto al miglior godimento della medesima (e, quindi,
anche in assenza di una necessità in senso assoluto), che non implichino
alterazioni della consistenza e della destinazione della cosa stessa e non
pregiudichino i diritti di uso e di godimento degli altri condomini. Sono,
invece, innovazioni le modificazioni che importino alterazioni della
consistenza della cosa comune o ne mutino la destinazione e che, ai sensi
dell'art. 1120, primo comma, cod. civ., richiedono, perché possano essere
disposte, la maggioranza assembleare di cui al quinto comma del successivo
art. 1136. L'art. 1102 cod. civ., nel
regolare i diritti dei partecipanti alla comunione al fine di salvaguardare
l'interesse comune e quello dei singoli, consente solo di apportare
modificazioni alla cosa comune purché non ne sia alterata la destinazione e
non vengano pregiudicati i concorrenti diritti di uso degli altri
comproprietari, onde ogni attività costituente non modificazione, ma
innovazione (nella specie: costruzione eseguita su suolo comune), è vietata
dalla norma citata. -è validamente dato in forma
verbale, da un comproprietario all'altro, l'assenso per semplici
modificazioni della cosa comune nel quadro di un accordo sul contemperamento
concreto dei rispettivi singoli usi concorrenti della cosa stessa. A norma dell'art. 1102 c.c. ciascun
condomino può servirsi della cosa comune apportandovi le modificazioni che
egli ritenga utili per il miglior godimento di essa, fino a sostituirla con
altra che offra maggiore funzionalità. Tali facoltà, peraltro, sono legittime
solo se si esplicano nei limiti dettati dalla legge, e cioè con l'astensione
da ogni alterazione del bene comune e conservando la possibilità dell'uso di
esso da parte di ogni altro condomino nell'ambito del suo diritto. I limiti
ora indicati non vengono superati dal solo fatto dell'uso più intenso da
parte di uno o più condomini, purché attraverso lo stesso non si giunga al
turbamento dell'equilibrio con tutti i diritti di costoro o a un cambiamento
della destinazione del bene comune, non soltanto in vista dell'uso attuale, ma
anche di quello potenziale secondo la natura della cosa e il fine al quale
essa venne predisposta, sicché resta del tutto indifferente - salvo che in
relazione alla costituzione di diritti esclusivi a favore di alcuno dei
condomini o di terzi - che da tempo più o meno lungo uno o più degli
interessati non si siano serviti del bene in questione. In caso di condominio negli
edifici, la modificazione di una parte comune e della sua destinazione, ad
opera di taluno dei condomini, sottraendo la cosa alla sua specifica funzione
e quindi al compossesso di tutti i condomini, legittima gli altri
all'esperimento dell'azione di reintegrazione con riduzione della cosa stessa
al pristino stato, tal ché possa continuare a fornire quella utilitas alla
quale era asservita anteriormente alla contestata modificazione senza che sia
necessaria specifica prova del possesso di detta parte (che non abbia una sua
autonomia rispetto all'edificio), quando risulti quello di una o più delle
porzioni immobiliari in cui l'edificio stesso si articoli.
m) Ostacoli al diretto godimento L'ostacolo al diretto godimento
della cosa comune da parte di uno dei comproprietari frapposto dagli altri
non richiede di necessità un formale rifiuto in risposta ad una identica
richiesta bensì può risultare, oltre che da espresse manifestazioni di
volontà, anche da comportamenti al fine equivalenti da apprezzare in
relazione alle condizioni oggettive del bene comune ed ai rapporti personali
tra i diversi comproprietari. Tale ostacolo fa sorgere, a carico di chi lo
ponga in essere, l'obbligo di prestazione risarcitoria sostitutiva del
godimento non fruito. In applicazione dell'art. 1102
c.c., qualora il partecipante alla comunione, con l'esecuzione di nuove
opere, renda impossibile o menomi l'esercizio del diritto degli altri
partecipanti, frapponendovi un qualche ostacolo, che si traduca in un
pregiudizio giuridicamente rilevante ed apprezzabile, ciascuno degli altri
condomini può chiedere la rimozione dell'opera che altera e sconvolge il
rapporto di equilibrio della comunione.
La parità dell'uso assicurata
dall'art. 1102 c.c. ad ogni condomino, è intesa a consentire qualsiasi altro
miglior uso e non anche quel particolare, specifico ed identico uso
realizzato con la modificazione in atto. Il concorso di diritti al miglior
godimento della cosa comune si risolve non col criterio della priorità
(presupposizione), bensì con quello dell'equo contemperamento dei
contrapposti interessi. La nozione di pari uso della cosa
comune che ogni compartecipe, utilizzando la medesima, deve consentire agli
altri a norma dell'art. 1102 cod. civ., non è da intendere nel senso di uso
identico, giacché l'identità nello spazio, o addirittura nel tempo, potrebbe
importare il divieto per ogni condomino di fare della cosa comune un uso
particolare o addirittura un uso a proprio esclusivo vantaggio, soprattutto
nel caso di modificazioni apportate alla cosa. (Nella specie, in cui i
giudici del merito avevano ritenuto uso legittimo della cosa comune ai sensi
dell'art. 1102 cod. civ. l'appoggio, da parte di un condomino, di una trave
del solaio di separazione tra due piani alla "cassa" delle scale
comuni, il S.C. alla stregua del principio che precede, ha considerato
corretta la decisione). Per pari uso della cosa comune
deve intendersi non un uso identico nello spazio o addirittura nel tempo, a
quello attuato dal comproprietario-condomino modificatore, ma quel qualsiasi
altro miglior uso che gli altri condomini possano convenientemente fare in
altra parte della cosa comune. L'unità sistematica tra la disposizione
dell'art. 1118 comma 1 c.c., a norma del quale il diritto di ciascun
condomino sulle parti comuni dell'edificio è proporzionato al valore del
piano o porzione di piano che gli appartiene, e la disposizione del comma 1
dell'art. 1123 c.c., per il quale le spese necessarie per la conservazione ed
il godimento delle parti comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi
nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono
sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di
ciascuno, non impedisce, trattandosi di norme derogabili, che siano
convenzionalmente previste discipline diverse e differenziale tra loro dei
diritti di ciascun condomino sulle parti comuni (che possono essere
attribuiti in proporzione diversa - maggiore o minore - rispetto a quella
della sua quota individuale di piano o porzione di piano) e degli oneri di
gestione del condominio, che possono farsi gravare sui singoli condomini
indipendentemente dalla rispettiva quota di proprietà delle cose comuni o
dall'uso. (Nella specie, è stata riconosciuta la validità dell'accordo che
attribuiva ai condomini, proprietari di unità abitative di diverso valore, un
uguale diritto dominicale sulle parti comuni prevedendo la formazione di
tabelle millesimali solo ai fini della ripartizione delle spese di
manutenzione e pulizia delle stesse).
Il diritto di invitare ospiti
nella piscina condominiale costituisce un modo di fruizione del bene comune e
come tale ai sensi degli arti. 1118 e 1123 cod. civ. deve essere
proporzionato alla proprietà.
Il diritto del condomino di usare
le parti comuni dell'edificio, purché non ne alteri la destinazione e non
impedisca agli altri condomini di farne parimenti uso (arti. 1102 e 1139
c.c.), implica per questi ultimi l'obbligo di comportarsi in modo da non
rendere impossibile, e ingiustificatamente più gravoso, l'uso del singolo e
così il dovere di quell'attiva cooperazione necessaria per l'uso del
condomino. Pertanto, qualora un terzo estraneo alla comunione, ma di cui il
condomino debba necessariamente avvalersi per la sua posizione di monopolio o
supremazia, contesti il diritto del condomino di fare un certo uso legittimo
della cosa comune senza il preventivo nulla-osta degli altri condomini,
costoro non possono rifiutarne il rilascio, sempreché il rifiuto non risulti
in concreto giustificato da un ragionevole motivo. (Nella specie l'Acea e la
Soc. Romana Gas, richiesti da un condomino dell'installazione dei servizi di
acqua e gas, avevano preteso il preventivo nulla-osta del condominio).
q) Targhe e insegne (apposizione). Ciascuno dei condomini può
servirsi dei muri perimetrali dell'edificio condominiale per quelle utilità
accessorie che ineriscono al godimento della sua proprietà esclusiva, qual è
l'utilità del risalto pubblicitario dell'attività professionale o commerciale
svolta, che si realizza normalmente mediante l'apposizione di insegne,
targhe, cartelli e simili. Consegue che - poiché la utilizzazione del muro
perimetrale comune mediante tale apposizione non ne altera la naturale e
precipua destinazione di sostegno dell'edificio con-dominiale -
l'utilizzazione stessa, ove non impedisca l'esercizio concorrente del diritto
degli altri partecipanti di fare eguale uso del muro, costituisce normale
esercizio del diritto di usare la cosa comune. n tema di condominio di edifici, i
partecipanti con voto unanime possono sottoporre a limitazioni, nell'ambito
dell'autonomia negoziale, l'esercizio dei poteri e delle facoltà che
normalmente caratterizzano il contenuto del diritto di proprietà sulle cose
comuni, venendosi in materia disponibile, con la conseguenza che con
regolamento contrattuale possono vietare l'apposizione di insegne, targhe e
simili sui muri perimetrali comuni, ovvero subordinarla al consenso
dell'amministrazione. Il conduttore, cui è consentito
trarne dalla cosa locata tutte le utilità inerenti al suo normale godimento,
escluse solamente quelle espressamente vietate dal contratto o confliggenti
con il diritto del locatore o di terzi, può utilizzare le parti comuni
dell'edificio condominiale, ove è sito l'immobile locatogli, con eguale
contenuto ed eguali modalità del potere di utilizzazione spettante al
proprietario. Consegue che, ove non sia stato escluso dal contratto, il
conduttore può apporne sul muro perimetrale dell'edificio condominiale targhe
od insegne atte a pubblicitarie la sua attività commerciale svolta nel locale
locatogli. L'utilizzazione del muro perimetrale
comune da parte del singolo condomino mediante l'apposizione di insegne,
targhe, cartelli e simili non ne altera la naturale e precipua destinazione
di sostegno dell'edificio condominiale e, ove non impedisca l'esercizio
concorrente del diritto degli altri partecipanti di fare uguale uso del muro,
costituisce normale esercizio del diritto di usare la cosa comune. -è illegittima la collocazione, da
parte di un condomino, di insegne luminose, targhe e cartelli pubblicitari
sul portone di ingresso, sul muro e nel corridoio dell'atrio condominiale, in
quanto tale utilizzazione, non concessa dal condominio, è comunque in
contrasto con la funzione o la destinazione tipica ditali parti comuni. La norma di un regolamento
condominiale che vieti la collocazione di targhe, insegne o tende di qualsiasi
genere senza il permesso scritto dell'assemblea, non è applicabile nel caso
in cui un condominio collochi, sulla parte di pianerottolo strettamente al
servizio dell'ingresso al proprio alloggio, alcune piastrelle in ceramica di
notevole pregio artistico e non recanti alcuna scritta. La controversia relativa alla
rimozione di un'insegna apposta sulla facciata dell'edificio condominiale in
violazione del regolamento di condominio, deve essere compresa tra quelle
aventi ad oggetto le modalità e 1' uso dei servizi condominiali. ora di
competenza del giudice di pace. -è suscettibile di valutazione
economica l'azione, basata sul divieto contenuto nel regolamento di
condominio, diretta alla rimozione di un'insegna dalla facciata dell'edificio
condominiale. Siffatta azione va inquadrata negli obblighi di fare, che
trovano sistemazione nell'ambito dell'art. 14 c.p.e., secondo il quale. se la
somma non è stata indicata o il valore non dichiarato, la causa si presume di
competenza del giudice adito, senza possibilità di poterne contestare il
valore a mente del comma 2, atteso che la lite non concerne somme di denaro o
beni mobili. Nel caso di installazione di una
tenda e delle relative intelaiature metalliche su di uno spazio di proprietà
comune, da parte del condominio del piano terreno che lo abbia in uso
esclusivo e destinato a ristorante, per la sussistenza della violazione
dell'art. 1102 c.c., con riguardo al mutamento della struttura e della
funzione del detto bene comune ed in particolare al diritto di veduta in
"a piombo" dei condomini dei piani superiori, deve accertarsi sia
l'utilitas (specifica o socialmente rilevante) derivante da quel diritto che
in concreto la sua menomazione, tenendo conto in ispecie del distacco (in
altezza) della tenda dalle vedute dei piani superiori, delle caratteristiche
dei luoghi e dell'uso normale, nonché, in relazione alla specifica
destinazione dello spazio comune, delle consuetudini e del normale
comportamento degli esercenti di attività consimili.
L'utilizzazione della cosa comune
ad opera del condomino può avvenire tanto secondo la destinazione usuale
della cosa stessa, quanto in modo particolare e diverso da quello praticato
dagli altri partecipanti alla comunione, sempre però nell'ambito della
destinazione normale della cosa senza alterazione del rapporto di equilibrio
tra le utilizzazioni concorrenti attuali e anche potenziali diluiti i
comproprietari, ma non quando quel godimento peculiare e inconsueto del
singolo compartecipante determini pregiudizievoli invadenze nell'ambito dei
coesistenti diritti degli altri comproprietari. (Nella specie, si è ritenuto
che il comproprietario di una striscia di terreno non abbia il diritto di
occupare lo spazio aereo sovrastante la striscia stessa con una costruzione
sullo stesso aggettante, in quanto in tal caso la occupazione si risolve in
una utilizzazione particolare realizzata mediante la stabile incorporazione
al contiguo bene del singolo comproprietario di una porzione dello spazio
aereo sovrastante il bene comune). La cosa comune, ai sensi dell'art.
1102 c.c., può essere utilizzata dal condomino anche in modo particolare e
diverso dal suo normale uso se ciò non alteri l'equilibrio tra le concorrenti
utilizzazioni attuali o potenziali degli altri e non determini
pregiudizievoli invadenze dell'ambito dei coesistenti diritti degli altri
proprietari pertanto, è legittima la costruzione di sporti sul cortile,
(sulla strada o sul passaggio comune) se sia realizzata in modo da non
pregiudicane né la normale funzione del cortile, che è di regola, quella di
fornire aria e luce agli immobili circostanti (e, per la strada, quella di
permettere il transito dei condomini) né le possibilità di utilizzazione
particolare eventualmente prospettate dagli altri condomini. (Nella specie,
trattavasi del telaio e dei battenti degli infissi, in posizione di completa
apertura o di completa chiusura, realizzati, al pianterreno, nel muro
prospiciente il passaggio comune senza ridurne la larghezza utilizzabile,
dato che nel tratto precedente il passaggio era ristretto da un 'antica
sporgenza). L'utilizzazione della cosa comune
da parte del condominio può aver luogo anche in modo particolare e diverso da
quello praticato dagli altri compartecipanti, sempre che l'utilizzazione
particolare rientri tra le destinazioni normali della cosa e non alteri
l'utilizzazione praticata dagli altri, ossia il rapporto di equilibrio fra le
utilizzazioni concorrenti - attual-mente ed anche potenzialmente - di tutti i
comproprietari. Tale alterazione sussiste qualora il godimento particolare ed
inconsueto del singolo condomino determini pregiudizievoli invadenze
nell'ambito dei coesistenti diritti altrui, quali asservimenti, immissioni e
molestie. L'utilizzazione della cosa comune
ad opera del condomino può aver luogo non soltanto secondo la destinazione
usuale, ma anche in modo particolare e diverso da quello praticato dagli
altri partecipanti, sempre che l'utilizzazione particolare non impedisca
l'utilizzazione degli altri e non alteri il rapporto di equilibrio tra le
facoltà di utilizzazione, attualmente o potenzialmente concorrenti, dei
comproprietari. Una volta che sia stato convenuto
l'uso frazionato e precario di una cosa comune, l'utilizzazione della cosa
anche in modo particolare e diverso da quello praticato dagli altri
compartecipanti non viola la norma di cui all'art. 1102 cod. civ., sempre che
tale utilizzazione rientri fra le destinazioni normali della cosa comune e
non alteri o ostacoli l'utilizzazione praticata dagli altri condomini. Nel condominio di edificio, al
fine di determinare la portata e l'estensione del godimento spettante a
ciascun partecipante sui beni comuni, nonché di accertare l'eventuale
esistenza, in favore del singolo condomino, di particolari diritti di
utilizzazione, contrastanti con la destinazione normale dei beni medesimi,
occorre tener presente la situazione al momento della nascita del condominio,
in relazione alle disposizioni del suo atto costitutivo e del regolamento,
rimanendo irrilevante l'eventuale diversità della situazione medesima in
epoca anteriore.
Il regolamento condominiale
contrattuale - il quale viene ad esistenza nel momento in cui,
contestualmente al primo atto di vendita di una frazione esclusiva
dell'edificio. comportante la nascita del condominio, l'acquirente ne accetta
le varie clausole - può contenere, oltre all'indicazione delle parti
dell'edificio di proprietà comune ed alle norme relative all'amministrazione
e gestione delle cose comuni, la previsione dell'uso esclusivo di una parte
dell'edificio definita comune a favore di una frazione di proprietà
esclusiva. In tal caso il rapporto ha natura pertinenziale, essendo stato
posto in essere dall'originario unico proprietario dell'edificio, legittimato
all'instaurazione ed al successivo trasferimento del rapporto stesso ai sensi
degli arti. 817 e 818, secondo comma, c.c., con l'ulteriore conseguenza che,
attenendo siffatto rapporto alla consistenza della frazione di proprietà
esclusiva, il richiamo puro e semplice del regolamento condominiale in un
successivo atto di vendita (o promessa di vendita) da parte del titolare
della frazione di proprietà esclusiva, a cui favore sia previsto l'uso
esclusivo di quella parte comune, può essere considerato sufficiente ai fini
dell'indicazione della consistenza della frazione stessa venduta o promessa
in vendita. A norma dell' art. 1102 cod. civ.
l'utilizzazione della cosa comune da parte di uno dei partecipanti alla
comunione, anche se più intensa o diversa da quella degli altri, non vale di
per sé sola a mutare il titolo del possesso, e, quindi, ad attrarre la cosa
comune o parte di essa nella sfera della disponibilità esclusiva del singolo
comunista, il quale, ove intenda espandere il suo possesso in via esclusiva
sul bene, pur non dovendo necessariamente compiere gli atti di
"interversio possessionis", previsti dagli art. 1141 e 1164 cod.
civ., rispettivamente per il mutamento della detenzione in possesso, e del
possesso di un diritto reale su cosa altrui, in possesso corrispondente
all'esercizio della proprietà, deve tuttavia concretarsi in atti integranti
un comportamento durevole, tali da evidenziare un possesso esclusivo ed animo
domini sulla cosa, incompatibile con il permanere del compossesso altrui. Il condomino che, col consenso
degli altri comproprietari, usa in modo esclusivo una cosa comune, non
estende il suo dominio su di essa neppure sotto il profilo di maggiori
poteri, in quanto sarebbe all'uopo necessario il compimento ad opera del
medesimo, di atti idonei a mutare il titolo del possesso. L'originario proprietario diluito
l'edificio divenuto poi condominiale ovvero tutti i condomini possono
conferire ad un singolo condomino sulla cosa comune un particolare diritto,
il quale alteri la destinazione funzionale della cosa comune; e questo
particolare diritto secondo la volontà delle parti interessate può avere
contenuto meramente obbligatorio con effetti limitati alle parti contraenti,
ovvero il contenuto reale di una servitù. Il diritto di comproprietà dei
condomini sulle parti comuni di un edificio deve ritenersi leso ogni
qualvolta uno dei condomini abbia attratto la cosa comune in tutto od in
parte nella propria disponibilità esclusiva, sottraendola alla possibilità di
sfruttamento collettivo. (Nella specie, il proprietario di alcuni scantinati
confinanti con il terrapieno sottostante all'androne dell'edificio in
condominio, aveva messo in comunicazione detti scantinati aprendo i muri delimitanti
il terrapieno, procedendo allo sbancamento di questo e provvedendo alla
costruzione di una soletta in cemento armato di sostegno del soprastante
androne).
Allorquando sia possibile l'uso
frazionato della cosa comune in considerazione della sua natura e
destinazione, i partecipanti alla comunione (ovvero il giudice in caso di
controversia sulle modalità d'uso) possono accordarsi circa l'utilizzazione
di parte di questa da uno dei comproprietari purché. a norma dell'art. 1102
cod. civ., tale utilizzazione rientri tra quelle cui è destinata la cosa
comune e non alteri od ostacoli il godimento degli altri comproprietari.
Al singolo condomino è consentita
l'esecuzione di un'opera implicante un maggiore suo godimento della cosa
comune soltanto se la realizzazione di essa non impedisca agli altri
condomini il compimento di opere, già previste o ragionevolmente prevedibili
in base alla destinazione attuale della cosa comune ed alle prospettive
offerte dalla sua natura, le quali permettano ai medesimi lo stesso od altro
miglior uso di tale cosa, a vantaggio delle loro proprietà esclusive. (Nella
specie, il S.C., enunciando il surriportato principio, ha cassato la
decisione di merito che aveva riconosciuto legittima la costruzione, da parte
di un condomino, di un pensile sovrastante il cortile comune, senza accertare
se questo manufatto costituisse o non impedimento alla costruzione di
ulteriori pensili ed alla esecuzione di opere simili o anche diverse
[balconi, finestre, ecc.] che, secondo una ragionevole previsione, gli altri
condomini potessero realizzare in futuro al servizio delle unità immobiliari
di loro proprietà esclusiva). La nozione di pari uso della cosa
comune che ogni compartecipe nell'utilizzare la cosa medesima deve consentire
agli altri, a norma dell'art. 1102 c.c., non va intesa nel senso di uso
identico perché l'identità .nello spazio o addirittura nel tempo potrebbe
importare il divieto per ogni condomino di fare della cosa comune un uso
particolare o a proprio esclusivo vantaggio. Ne deriva che per stabilire se
l'uso più intenso da parte di un condomino venga ad alterare il rapporto di
equilibrio fra i partecipanti al condominio - e perciò da ritenersi non
consentito a norma dell'art. 1102 - non deve aversi riguardo all'uso fatto in
concreto di detta cosa da altri condomini in un determinato momento, ma di
quello potenziale in relazione ai diritti di ciascuno. Il giudice del merito, per
accertare se l'uso più intenso della cosa comune da parte di un condomino
venga ad alienare il rapporto di equilibrio tra i partecipanti al condominio
e debba perciò ritenersi non consentito ex art. 1102 c.c., non deve tener
presente l'uso fatto in concreto di detta cosa dagli altri condomini in un
determinato momento, ma quello potenziale in relazione ai diritti di
ciascuno. (Nella specie in base al principio surriportato, è stata ritenuta
corretta la decisione di merito, la quale aveva affermato che la collocazione
da parte di un condomino sul muro perimetrale comune di tre bacheche, fornite
di impianto di illuminazione, per l'esposizione di quadri in vendita, era
illegittima, perché tale da impedire agli altri condomini ogni eventuale uso
che in avvenire essi avrebbero voluto fare di detto muro, per collocarvi targhe
professionali o commerciali). L'esecuzione, da parte del
comproprietario, di una modificazione alla cosa comune, al fine di farne un
uso più intenso (nella specie, l'apertura di un nuovo accesso su cortile fra
fabbricati) non è illegittima per il solo fatto che determini un'alterazione
dell'equilibrio fino allora esistito fra gli usi esercitati dai comunisti;
tale illegittimità sussiste solo ove si accerti che l'incremento dell'uso del
singolo partecipante pregiudichi la possibilità degli altri di continuare
nell'esercizio del loro uso, e di ampliare eventualmente il medesimo in modo
e misura analoghe. L'art. 1102 c.c. consente al
condomino di usare della cosa comune per un suo fine particolare, ove egli,
in tal modo, ritragga dal bene una specifica utilità aggiuntiva, rispetto
alle utilità generali ridondanti a vantaggio dei condomini tutti, ma gli
vieta in modo assoluto di alterare la destinazione della cosa stessa,
snaturandola, impedendone o compromettendone la funzione che le è propria.
L'assemblea condominiale può
legittimamente regolamentare l'uso dei beni comuni limitando il godimento dei
condomini, nell'interesse comune, senza incorrere in causa di nullità
assoluta, salvo escludere il godimento diretto dei condomini o di alcuno di
essi; sicché, in caso d'incapienza dei beni, il godimento turnario offre
l'unico strumento idoneo a consentire il godimento diretto di tutti i
condomini, e nessuna norma inderogabile impone di ragguagliare la durata dei
periodi di godimento all'entità delle quote di comproprietà dei turnisti.
L'accordo di tutti i condomini
che, anche imponendo divieti (nella specie proibizione di occupare
temporaneamente le parti comuni dell'edificio), tenda ad assicurare ai
condomini stessi un migliore e più funzionale godimento delle cose e dei
servizi comuni attenendo alla disciplina delle modalità di uso di questi, è
sempre modificabile con una deliberazione assembleare, senza necessità di un
successivo consenso diluiti i condomini che l'hanno in precedenza stipulata. La deliberazione con la quale
l'assemblea di un condominio di edificio, alla stregua del regolamento
condominiale, accerti eccesso od abnormità nell'uso dei beni comuni da parte
di un singolo condomino (nella specie, per deposito di materiali nel cortile
e nell'androne), ed applichi, nei confronti di quest'ultimo, la sanzione
pecuniaria prevista, non comporta una lesione dei diritti del condomino
medesimo sulle cose e servizi comuni, ma attiene esclusivamente alla
disciplina dell'uso di quelle cose e servizi: detta delibera, pertanto, non è
affetta da nullità, deducibile in ogni momento con azione di accertamento, ma
è solo impugnabile ai sensi e nei termini perentori di cui all'art. 1137 c.c. Deve ritenersi vietata dall'art.
1102 cod. civ. la divisione orizzontale di un appartamento, che comporti la
totale utilizzazione del preesistente margine di sicurezza statica
dell'edificio condominiale pur non pregiudicando la funzione portante dei
muri comuni e così la stabilità dell'edificio, in quanto le opere eseguite
dal singolo condomino, finiscono col precludere sostanzialmente agli altri
condomini sia l'utilizzazione dei muri comuni secondo il loro diritto, che la
facoltà di sopraelevazione consentita dall'art. 1127 cod. civ. Il provvedimento del giudice che
interdisce l'uso non consentito della cosa comune, reso possibile dalle
modifiche avvenute nella proprietà esclusiva di uno dei comproprietari, non
può limitarsi a vietare l'uso non consentito, ma deve contenere disposizioni
che rendano materialmente impossibile il perpetuarsi dell'uso illegittimo. Rientra nei poteri dell'assemblea
del condominio regolare l'uso delle cose comuni, ma non escludere uno o più
condomini dall'uso delle cose comuni, se ad esso abbiano diritto in base al
titolo o alla legge (nella fattispecie l'assemblea, decidendo di escludere i
proprietari soltanto di boxes e non anche di appartamenti nel condominio,
dall'uso degli ascensori anche ai soli fini del raggiungimento dei boxes, aveva
deliberato in materia sicuramente esulante dal campo delle sue attribuzioni,
e, stando alla prospettazione aveva sacrificato il diritto degli stessi sulle
cose comuni). -è invalida la delibera assembleare
che faccia divieto di accedere alla terrazza comune - destinata
esclusivamente per copertura - per stendere i panni e battere i tappeti in
quanto tale diritto si fonda sul principio di cui all'art. 1102 c.c., in
virtù del quale ognuno può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la
destinazione.
Il partecipante alla comunione può
usucapire l'altrui quota indivisa del bene comune senza necessità di
interversio possessionis, ma attraverso l'estensione del possesso medesimo in
termini di esclusività. A tal fine si richiede, tuttavia, che tale mutamento
del titolo (art. 1102, secondo comma, c.c.) si concreti in atti integranti un
comportamento durevole, tali da evidenziare un possesso esclusivo ed animo
domini della cosa, incompatibili con il permanere del compossesso altrui
sulla stessa e non soltanto in atti di gestione della cosa comune consentiti
al singolo compartecipante o anche atti familiarmente tollerati dagli altri
(art. 1141 c.c.) o ancora atti che, comportando solo il soddisfacimento di
obblighi o erogazioni di spese per il miglior godimento della cosa comune,
non possono dar luogo a un'estensione del potere di fatto sulla cosa nella
sfera di altro compossessore. La disposizione dell'art. 1102,
comma 2 c.c., secondo la quale il partecipante alla comunione non può
estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri se non compie
atti idonei a mutare il titolo del suo possesso impedisce al compossessore
che abbia utilizzato la cosa comune oltre i limiti della propria quota non
solo l'usucapione ma anche la tutela possessorie del potere di fatto
esercitato fino a quando questo non si riveli incompatibile con l'altrui
possesso. Il condomino, per usucapire la
cosa di proprietà comune, non deve dimostrare l'interversione del possesso,
ma deve fornire la prova di avere sottratto la cosa all'uso comune per il
periodo utile all'usucapione e, cioè, di una condotta univocamente diretta a
rivelare che nel condominio si è verificato un mutamento di fatto nel titolo
del possesso, e non la prova del mero non uso della cosa da parte degli altri
condomini. Il godimento del bene comune può
essere invocato dal comproprietario al fine dell'usucapione della proprietà
dello stesso solo quando si traduca in un suo possesso di tipo esclusivo, con
riguardo sia al corpus sia all'animus, incompatibile con la possibilità degli
altri condomini di uso del bene medesimo. L'uso della cosa comune da parte
del singolo condomino non può estendersi alla occupazione permanente di una
parte del bene comune, tale che, nel concorso degli altri requisiti di legge,
possa portare alla usucapione della parte occupata. Il partecipante alla comunione di
un bene non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli
altri partecipanti se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo
possesso; ai fini dell'usucapione della cosa comune è sufficiente che il
condomino, per tutto il tempo necessario ad usucapire, possieda l'intera cosa
in modo esclusivo ed inconciliabile con il godimento comune della cosa
stessa. Il condomino può usucapire la cosa
di proprietà comune e senza necessità di una interversione del possesso ai
sensi dell'ari. 1164 c.c. soltanto attraverso una estensione del possesso
medesimo, in termini però di esclusività. A questo fine, tuttavia, non è
sufficiente che gli altri partecipanti si siano astenuti dall'uso della cosa,
ma occorre che quel condomino abbia goduto in modo oggettivamente
incompatibile con la possibilità di godimento altrui, che risulti in radice eliminata,
non bastando a surrogare siffatta connotazione di esclusività ed
incompatibilità (con il compossesso degli altri soggetti) la mera
utilizzazione del bene in maniera più intensa, ed ancor meno la sola prova
del mero non uso della cosa da parte degli altri condomini.
Poiché l' usufruttuario ha il
godimento dei beni e dei servizi condominiali, egli risponde di fronte al
condominio delle quote di manutenzione e gestione ordinaria. |