Il racconto del mese
 La discarica dei suicidi
di Leo Gambsberg

 

Il muletto meccanico si allontana lungo la rotaia superiore, dissolvendosi nella luce abbacinante dei pannelli al neon. Mi guardo intorno: sono già stato quassù, sotto la volta che copre il modulo satellitare, ma oggi è ugualmente la prima volta. Mi frego le mani sudate sui pantaloni. Se smetto di pensare, non sento rumori, nella mia testa.

Laggiù, sotto di me, domino la superficie convessa di Talete Terzo, la mia terra. Le idroculture, le camere comuni, i grandi parchi: la vista mi ispira una sorprendente serenità, nonostante tutto. I laboratori dove sono nato, gli archivi dove mi hanno istruito, il mercato dove lavoravo... Tutto sotto di me, e lo posso abbracciare con poco più di uno sguardo. Ed esattamente al nadir, il punto che dovrò raggiungere, quello che il Maestro chiama "la discarica".

So che ancora non sono libero dal condizionamento, ma i miei pensieri coscienti mi sembrano lucidi, e indipendenti. Fino a un attimo fa erano ancora fantasmi deformi, accompagnati da un insopportabile senso di nausea. Ho dovuto lottare con la mia volontà e con la mia memoria per eseguire correttamente il compito al quale ero stato addestrato.

Ne sono certo: sono cambiato. Percepisco nitidamente me stesso, e null'altro. Non è difficile abituarsi all'isolamento, il Maestro aveva ragione. Vorrei esercitare le mie nuove facoltà percettive, ma il tempo stringe: da quando sei sconnesso non hai che un paio d'ore, poi perdi i sensi e vengono a riprenderti. Al pensiero mi coglie un capogiro: ho paura, ed è la prima volta.

Ancora dodici minuti, ma non posso rischiare oltre. Mi aggrappo alla transenna, e mi isso con le braccia dando la faccia ai pannelli luminescenti. Un'improvvisa vampata di calore mi arrossa il volto e mi fa lacrimare gli occhi. Mi arrampico ancora sulle travature metalliche, quasi incandescenti al contatto. Le mani mi dolgono, si formano delle piaghe. Salgo ancora lungo un rampante, fino a raggiungere il punto esatto. Faticosamente mi levo in piedi, su una piccola piattaforma, dando le spalle al vuoto sotto di me come il migliore dei tuffatori.

Questo è il momento al quale per lungo tempo mi sono preparato. L'emozione è incontrollabile: devo esercitare tutta la mia concentrazione per non esserne sopraffatto. Ma mi hanno addestrato anche a questo. In Intermente non ci sono emozioni, non c'è dolore né paura. Sei in un luogo sicuro dove non ti può succedere nulla. Proprio nulla.

Volo, finalmente. Allargo le braccia e mi abbandono all'abbraccio dell'aria. Entro in avvitamento, ma tengo il corpo rigido, e la mente lucida. Sono preparato a questo. Socchiudo gli occhi, poi li serro del tutto. Bruciano, bruciano terribilmente. Il mio essere pesante sprofonda nel magnifico lieve. Mi accoppio col nulla, nell'attesa della fine. Non sorrido, non piango. Le lacrime che volano via sulle guance sono causate dell'aria, che mi brucia gli occhi. Ascolto il fragoroso silenzio, che mi batte sui timpani ronzando e vibrando. Mi sto distraendo. Mi sto perdendo il meglio. Devo concentrarmi, così come mi hanno insegnato a fare.

Visualizzo gli innesti: i Sampam, gli Shimizi. Vedo il mio corpo violato da impulsi elettrici. Vedo il mio DNA stuprato da microdiodi. Vedo la mia anima prigioniera per sempre di un corpo che non mi appartiene, e vedo le mie membra atrofizzarsi, ammalarsi e appassire. Mentre gli innesti aumentano, i cavi si allungano, la capacità di calcolo cresce. E migro come ospite di memoria in memoria. Sono digitale. Sono un grappolo di algoritmi matematici. E sono violato, schiavo per sempre delle funzioni che mi descrivono. Della matrice di me stesso. Ma ora viaggio a ritroso, riavvicinandomi al mio essere così come in caduta libera mi avvicino al suolo artificiale del modulo artificiale del satellite artificiale sul quale vivo, o vivevo. O in qualche modo esistevo.

Sono libero, finalmente, e canto la mia vittoria. Urlo, felice. Ho preso il sopravvento sul mio io digitale grazie agli insegnamenti del Grande Maestro, e ho imposto il mio libero arbitrio. La mia umana follia. La mia disperata volontà di vivere un solo minuto di questa dannata esistenza cieca. E infatti vedo, al di là dei miei occhi che bruciano e piangono lacrime che mi tagliano le guance, portate via dall'aria. Non sento resistenze, e provo il gioioso dolore di un corpo che vive. Sono libero, finalmente. E sono felice.

Mi raccolgo in posizione fetale, e mi avvito di nuovo. Sono una meteora che attraversa fulminea il firmamento e si disintegra al contatto con l'atmosfera palpabile. Sento l'impatto farsi prossimo. L'annullamento. Il silenzio assoluto. La nemesi della mia schiavitù. Per anni ho atteso questo momento. Mi ci sono preparato accuratamente.

Mi abbandono al fluire vorticoso di immagini in sequenza sempre più serrata, che non riesco a descrivere, che non riesco a prevedere, che non riesco a controllare. Il mio embrione che si sviluppa nel brodo amniotico distillato dai laboratori Erretì. Il primo microdiodo. Il contatto con Intermente. Una cascata di memorie, quante la mia mente gonfia di innesti ne riesce a processare e più ancora. La simbiosi: le mie memorie condivise con infiniti estranei. I miei sentimenti spazzati via. Il Maestro dice che non è sempre stato così: vi era un tempo in cui l'uomo era individuo, e viveva e pensava solo, e comunicava per mezzo del verbo. Così tornerà a essere un giorno, e la mente globale si frammenterà di nuovo in un'infinità di mondi splendidamente isolati. Non più costrizioni, non più identità fuse. E ogni essere umano sarà un mondo, e ogni mondo fiorirà di nuovo.

Sono lacrime vere quelle che piango ora. Se ne vanno via lungo le guance trascinate dall'attrito con l'aria. Precipito, ma sono preparato a tutto questo. Mi hanno insegnato che raggiungere la discarica è l'unica salvezza, e del mio sacrificio beneficerà il mondo. Ogni mondo.

Intermente fu generata per il nostro bene, nell'illusione che la coscienza collettiva avrebbe portato la pace, e avrebbe sconfitto il dolore. Difatti ora soffro per la prima volta, ma ne sono felice. Paradossalmente. Sono felice come mai prima d'ora. Non è l'assenza di dolore che dona la felicità. Il suolo si avvicina, ma il tempo si dilata, così come mi avevano anticipato. Gli ultimissimi istanti sono i più lunghi. Sono interminabili. E li posso assaporare fino in fondo, come non avrei saputo fare coi cent'anni che mi rimanevano in questo universo sterile.

La mia fine genererà nuova vita, vita migliore. Intermente agisce per quello che ritiene essere il nostro bene, e solo la morte dei confratelli potrà convincerla che non funziona. Che quello che ci sta dando è merda, e non una vita serena. Che gli esseri umani non chiedono l'oblio, ma il confronto col mondo vero, fatto di sangue e di dolore, di gioia e di carne.

Inspiro fortemente, di nuovo. L'aria è fresca, e ha un buon sapore. Non me ne ero mai accorto prima. Giù alla discarica mi attendono i corpi senza vita dei confratelli, di quelli che come me hanno seguito gli insegnamenti del Maestro, e si sono scollegati. Non sono che un paio d'ore da quando sono uscito da Intermente, ma ai miei sensi pare un tempo infinito, come se la piatta sopravvivenza di prima non fosse che un sogno. È quello che mi aspettavo, che mi avevano detto.

Sento il mio io farsi più grande, la mia essenza animale divenire palpabile. Penso, sono, sento. Posso cantare, e urlare senza motivo. Posso mentire e tacere. Senza costrizioni. Sorrido. Mi sono riscattato, dunque, e sono pronto alla fine.

L'ultimo istante. Sento l'impatto farsi prossimo, anche se ho ancora gli occhi chiusi. Presto il mio corpo giacerà insieme ad altri nella discarica. Abbiamo compiuto il sommo gesto d'amore alla vita, quello che dà la morte, e l'abbiamo fatto nella speranza che un giorno Intermente ci lasci andare. Ora sono lucido, sono colmo di me stesso. Sono sereno. E libero, finalmente. Tre, due, uno...

 
 
 
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