Edward John Smith, capitano, 62 anni.

"Quando mi chiedono come potrei descrivere la mia esperienza di quasi quarant’anni di mare, rispondo semplicemente: nulla da segnalare. Sì, ci sono state le tempeste e i marosi e la nebbia… Ma non ho mai visto un naufragio e non ho mai fatto naufragio". Il capitano Edward John Smith era un impiegato del mare: navigava come altri vanno in ufficio. E come molti impiegati, sognava la pensione: ci sarebbe andato non appena toccata terra, a New York. Proprio da New York era partito alla volta dell’Inghilterra per prendere il comando del Titanic. Ne era contento e orgoglioso. A cena con i signori Willie di Flushing, Long Island, la sera prima di imbarcarsi per l’Europa, il capitano aveva vantato le meraviglie del Titanic. Nessun danno allo scafo avrebbe potuto affondarlo. Aveva una bella barba bianca da lupo di mare, il capitano Smith, e una divisa bianca e lucida e un cappello bianco. L’ultima foto ce lo restituisce a braccia conserte, lo sguardo dritto davanti a sé, gli occhi socchiusi come a proteggersi da una luce troppo forte e un’espressione in volto che il tempo, ora, ci descrive malinconica. Si fidava della nave, e del mare, e del progresso che lo conduceva alla pensione sulla tolda del transatlantico più grande e più bello del mondo. Per questo non prestò troppa attenzione agli iceberg che gli venivano segnalati, né alla velocità che forse era troppa, e neppure al destino che non lo voleva tranquillamente in pensione a scrutare l’oceano fumando la pipa. "Siate inglesi", disse prima di affondare: e con lui affondò anche quel mondo che gli aveva regalato le sue ultime, orgogliose parole.

 

Colonnello Archibald Gracie IV, prima classe, 54 anni.

C’è sempre una missione da compiere, piccola o grande o minima, e la nostra vita spesso si consuma, assai più di quanto non sia o sembri ragionevole, proprio così: nel compimento della nostra personale missione. Archibald Gracie IV, nato a Mobile, Alabama, il 15 gennaio 1859, trovò presto la propria missione: tramandare ai posteri la vera storia della battaglia di Chickamauga. Il padre di Archibald Gracie IV, Archibald Gracie Jr., combatté a Chickamauga una fra le più sanguinose battaglie della guerra civile americana con il grado di generale di brigata. Archibald IV aveva allora tre anni, e ne aveva cinque quando il generale Gracie cadde durante l’assedio di Petersburg, Virginia. Francis O. Tickner gli dedicò un commosso poema significativamente intitolato Gracie, of Alabama. Per Archibald IV, però, il poema non era abbastanza. All’inizio del nostro secolo cominciò dunque a scrivere l’opera della sua vita. Per più di sette anni si dedicò anima e corpo alla propria missione. Finalmente, nel 1912, diede alle stampe La verità su Chickamauga. Archibald Gracie IV, che nel frattempo era diventato il colonnello Gracie, si imbarcò allora per l’Europa per un periodo di vacanza. Visitò la Gran Bretagna e la Francia, e a Cherbourg salì sul Titanic per far ritorno in patria. A bordo amava scambiare aneddoti sulla Guerra civile con Isidor Straus, cui prestò una copia della Verità su Chickamauga. Fu tra gli ultimi a salire su una scialuppa. In patria cominciò a scrivere la sua Verità sul Titanic, ma otto mesi dopo il naufragio morì di pleurite senza aver compiuto la seconda missione della sua vita.

 

Isidor Straus, prima classe, 67 anni.

"N. 96 – maschio – età stimata: 65 – incisivo d’oro (parte) – capelli grigi e baffi. Abbigliamento: cappotto bordato di pelliccia; pantaloni grigi, giacca e gilet; camicia a righe sottili; scarpe marroni; calzini di seta neri. Effetti personali: quaderno da tasca; orologio d’oro; catena di platino e perle; portapenne in oro; fiaschetta d’argento; ampolla d’argento per i sali; 40 sterline in banconote; 4 sterline, 2 scellini e 3 pence in monete". Di Isidor Straus non rimase altro, dopo il naufragio. Era nato in Baviera e la sua famiglia era emigrata negli Stati Uniti quando lui aveva nove anni. Lazarus Straus, il padre, aveva aperto una drogheria a Talbotton, Georgia. Isidor vi lavorava come commesso. Era il 1860. Trentasei anni dopo Isidor Straus acquistò i grandi magazzini Macy’s. Chiunque sia stato a New York li ha visitati con la curiosità e la meraviglia con cui si visita un grande museo, un museo davvero speciale: da Macy’s, infatti, in mostra ci siamo noi, c’è la nostra vita, ci sono le nostre cose e le cose che vorremmo avere e le cose che non compreremmo mai, mai per nessun motivo, e che però ci piace vedere e toccare e guardare per poi dire: "Ah, gli americani…". Macy’s è il museo della contemporaneità ed è il tempio della contemporaneità, dove le scolaresche curiosano fra gli scaffali senza fine e dove i fedeli celebrano ogni giorno il rito febbrile ed eccitante dello shopping. Jacqueline Kennedy Onassis faceva shopping da Macy’s, e con un’allegria molto simile alla sua ogni giorno qualche ragazzo portoricano ne varca le grandi porte a vetri. Non ci sono differenze apparenti, da Macy’s: e neanche sul Titanic.

 

Amy Elsie Stanley, terza classe, 24 anni.

Quando ci si salva da un naufragio, e si arriva a terra, e il mare è un ricordo lontano o un incubo che non se ne va, e ci si riscalda e ci si riprende e ci si sfama, viene il momento di scrivere a casa. Amy Elsie Stanley adesso è a New York, e la sua famiglia (il padre Thomas James, droghiere, la madre Eliza Agnes, casalinga, e i fratelli John, William, Alfred e Fredrick) è a Oxford, dall’altra parte dell’oceano. Amy prende la penna in mano e la prima frase che scrive è: "Non ho mai sofferto il mal di mare durante tutto il viaggio". Non sul Titanic, dunque, non sulla scialuppa gonfiabile "C" che le salvò la vita, e neppure sul Carpathia che portò i naufraghi spaventati in America. È questa la prima frase che Amy scrive ai suoi genitori: "Non ho mai sofferto il mal di mare". L’ultima – in mezzo c’è il racconto del naufragio e del salvataggio e del freddo e della paura –, l’ultima frase che Amy scrive ai suoi genitori è: "Non vi pare che sia stata davvero fortunata?". Poi salta una riga, e si firma "la vostra amata figlia". Qualche giorno dopo, ricevuti 200 dollari dalla Croce rossa, partirà per New Haven, Connecticut, dove una famiglia sta aspettando la nuova bambinaia venuta dall’Inghilterra. Ma la lettera non è finita. C’è un post scriptum. Nei post scriptum si annidano piccole verità finallora taciute, oppure brillano i dettagli davvero essenziali, o magari c’è una tenerezza, una breve confessione, un velo che si solleva e caccia via la timidezza e lascia che per un attimo s’affacci una gran verità. Nel suo post scriptum post naufragio Emy scrive: "Avevo quasi perso la nave a Southampton".

 

Edwina Celia Troutt, seconda classe, 27 anni.

Edwina Celia Troutt, maestra di scuola, Winnie per le amiche, non voleva saperne di lasciare la nave. Non aveva marito, e le sembrava sbagliato che le donne sole avessero diritto ad un posto sulle scialuppe. "Non è ragionevole – andava ripetendo – che io mi metta in salvo, con tutti questi uomini in giro separati dalle proprie mogli. Preferisco che ci sia una vedova in meno". Per Winnie, salvarsi significava salvare qualcuno o qualcosa: per esempio, la felicità di una famiglia. E lei non aveva nulla e nessuno da salvare. Winnie non amava stare con le mani in mano. Aiutò dunque Nora Keane, con cui divideva la cabina E-101, a vestirsi. E qui dovete immaginarvi la scena di una commedia brillante: Nora insiste per infilarsi il corsetto, ma il corsetto non ne vuol sapere. Niente da fare. Nora insiste ancora, ma Winnie, che è una donna pratica, le strappa il corsetto e lo butta fuori dalla cabina. Poi accompagna Nora sul ponte, alla scialuppa 10. E continua a darsi da fare. Il destino, però, ha in serbo una sorpresa: e la sorpresa ha il volto di un bambino di tre anni. Mentre Winnie aiuta le compagne di viaggio a prender posto sull’ultima scialuppa, la "D", un uomo le si avvicina con un bimbo in braccio. "Prendetelo voi, portatelo via di qui", dice l’uomo a Winnie. E la maestrina, convintasi che salvare un bimbo innocente fosse un motivo sufficiente per salvare se stessa, prende il bambino dalle braccia dello sconosciuto e sale sulla scialuppa "D". Edwina Celia Trout è morta a Hermosa Beach, California, cinque mesi dopo aver festeggiato il suo centesimo compleanno.

 

Reverendo Ernest Courtenay Carter, seconda classe, 54 anni.

Bisogna sapere bene che cosa si canta, quando si canta un inno religioso. Bisogna conoscere le parole e il loro significato. E bisogna anche sapere chi è l’autore dell’inno, quando l’ha composto, e che altro ha scritto. Soltanto in questo modo si può davvero rendere gloria a Dio. Così almeno la pensava il reverendo Ernest Courtenay Carter, pastore anglicano, vicario della parrocchia di St. Jude, a Whitechapel. Portaci dolcemente alla luce, per esempio, fu scritto in seguito al naufragio di un veliero nelle acque fredde dell’Atlantico. E Eterno padre, forte nel salvarci ha anche un altro titolo: molti lo conoscono come Per coloro che in mare corrono un pericolo. Di questo parlava il reverendo Carter ad un centinaio di passeggeri che s’erano radunati nella sala da pranzo della seconda classe, la sera di domenica 14 aprile, per ascoltare la funzione religiosa. Marion, la moglie del reverendo, cantava accompagnata al pianoforte da Douglas Norman, e il reverendo spiegava paziente il significato di ogni inno. L’ultimo che cantarono fu Ora il giorno è compiuto. Verso le dieci, al termine della funzione, il cameriere cominciò a servire caffè e pasticcini ai fedeli, e il reverendo ringraziò per aver potuto usufruire dalla sala da pranzo. "È la prima volta – disse compiaciuto – che si cantano inni religiosi la domenica sera su questa nave. Siamo convinti e preghiamo perché non sia l’ultima". Il reverendo si disse anche ammirato per la solidità della nave. Poco più di un’ora dopo – molti fedeli erano già nelle loro cabine – il transatlantico urtò un iceberg. Il reverendo Carter e sua moglie Marion perirono nel naufragio.

 

Gunnar Isidor Tenglin, terza classe, 25 anni.

Gunnar ed Einar si salutarono nella primavera del 1912, al porto di Stoccolma. Gunnar aveva 25 anni, era già stato in America per cinque anni e intendeva ritornarci. La Svezia gli piaceva, ma Burlington, Iowa, gli piaceva di più. Einar aveva 19 anni, e avrebbe seguito volentieri il fratello: lo salutò con una punta d’invidia, e se ne tornò a casa. Gunnar s’imbarcò per Southampton, e da lì per New York. A New York arrivò senza bagagli né vestiti né soldi; l’Esercito della Salvezza gli pagò un biglietto di prima classe per Burlington, Iowa. L’anno successivo Gunnar si sposò con una ragazza del posto. Più avanti negli anni diventò ingegnere minerario. Più tardi ancora fu assunto come addetto alla manutenzione dei pozzi per l’estrazione del gas naturale della società J.I. Case. Non lasciò mai Burlington, Iowa. Non ne aveva motivo. Del resto, era quella la sua patria e là c’era la sua famiglia. Ebbe un figlio, e lo chiamò Gunnar. Andò in pensione. Curava la sua casa con giardino e passeggiava per Burlington, Iowa. La moglie lo lasciò quando aveva appena compiuto ottantun’anni. Sessant’anni esatti dopo quel saluto al porto di Stoccolma – e in mezzo c’era stato il naufragio del Titanic, due guerre mondiali e una laurea in ingegneria – Gunnar ed Einer si rividero. A Burlington, naturalmente. Il vecchio Gunnar aveva dimenticato lo svedese, e il vecchio Einar non sapeva una parola di inglese. Rimasero insieme per una settimana. Fu una settimana felice. Gunnar morì due anni dopo, all’età di ottantasei anni, e fu sepolto nel piccolo cimitero di Aspen Grove. A Burlington, Ohio.

 

George Patchett, terza classe, 19 anni.

George Patchett era un ragazzo pieno di energia, di coraggio e di voglia di fare. Veniva dalla campagna e cercava una campagna più grande e più libera dove farsi una vita degna di essere vissuta. Era nato in un paesino del Northamptonshire, in Inghilterra, e voleva andare in Canada. Il Canada gli piaceva più degli Stati Uniti: perché "è più inglese", diceva agli amici. E perché gli sembrava più grande e più selvaggio e più libero. Chissà. John Garfirth, che condivideva con lui la passione per l’avventura e che con lui si imbarcò per il Nuovo mondo, avrebbe preferito la California. Ma George fu irremovibile, ed ebbe la meglio. L’unica foto che abbiamo di lui ce lo ritrae con lo sguardo fisso davanti all’obiettivo, come ipnotizzato e un poco a disagio. Non è una foto naturale. George se la fece fare prima della partenza, a Wollaston, perché sapeva che gli sarebbe servita una volta arrivato nella sua nuova patria. I capelli sono curati, il naso lievemente schiacciato, la bocca serrata in un’espressione anonima. Non c’è traccia del futuro nei suoi occhi piccoli e puntuti: è una foto senza destino. Sul bavero della giacca fa capolino un fiore, forse è un’orchidea e forse è una margherita. L’abito, la camicia e la cravatta sono inappuntabili. All’inizio del secolo ci si faceva fotografare così come si andava a messa: era un rito cui ci si preparava con la dovuta deferenza, indossando l’abito della festa e assumendo un’espressione compìta. In campagna, a volte, è ancora così. Sono fotografie, queste, che hanno poco a che spartire con la vita. Vanno bene per un visto d’immigrazione, o per una lapide.

 

Alma Cornelia Pålsson, terza classe, 29 anni.

Il cadavere numero 206 è quello della signora Alma Cornelia Pålsson, imbarcatasi in terza classe con il biglietto collettivo numero 349909 e quattro figli. Quando la ripescarono senza vita, indossava un cappotto marrone scuro, un golf verde, una camicetta scura, una gonna marrone, un paio di scarpe nere. Non portava le calze. Sul cadavere furono trovati alcuni effetti personali: la vera d’oro, un borsellino con due monete, 65 corone svedesi in banconote, una lettera del marito, un’armonica a bocca. Fermiamoci qui. E dimentichiamo il Titanic, il naufragio, la morte e la disperazione e le urla e il freddo che piano piano e silenziosamente e inesorabilmente uccide. Dimentichiamo l’eccitazione del viaggio, la bellezza della nave, la maestosa tranquillità dell’oceano, l’attesa eccitata di rivedere presto il marito (perché la signora Alma stava raggiungendo il suo Nils a Chicago, emigrato in America un paio d’anni prima in cerca di fortuna). Dimentichiamo tutto e fermiamoci sulla piccola armonica a bocca che la mano di un marinaio ha ritrovato sul corpo irrigidito e gelido di Alma Cornelia Pålsson. L’orchestrina, la famosa orchestrina del Titanic, era per la prima classe. In terza ci si arrangiava da soli, e molti passeggeri avevano un violino, o una chitarra, o una fisarmonica, e la sera si suonava e si ballava come alle feste di paese. Alma aveva quattro figli con sé: la sera, per farli addormentare, suonava loro una ninnananna con la sua piccola armonica. E i bambini si addormentavano felici, e Alma continuava a suonare un altro poco, e l’America era sempre più vicina.

 

Philip Zenni, terza classe, 23 anni.

Ci sono molte storie di eroismo, nel naufragio del Titanic; ma anche salvare se stessi può essere eroico. Philip Zanni, siriano emigrato a Niles, Ohio, con una giovane moglie pronta a raggiungerlo da Parigi, è un eroe. Quando capì che la nave stava affondando, cercò subito di guadagnare una scialuppa, ma fu respinto da un ufficiale armato: "Prima le donne". Fece un secondo tentativo, e di nuovo fu respinto. Ma la confusione era grande, potete immaginarvelo, e non appena l’ufficiale si allontanò, Zanni saltò nella scialuppa e si nascose sotto una panca. La scialuppa fu calata in mare: c’erano venti donne e tre uomini e Zanni sotto la panca. Quando i tre uomini dissero alle venti donne che bisognava remare, e molto e in fretta, perché altrimenti il risucchio del Titanic che di lì a poco si sarebbe inabissato avrebbe travolto anche loro, Zanni decise che era venuto il momento di dichiarare la propria presenza a bordo. Chissà se qualche donna avrà pensato che proprio in quel momento stava diventando vedova, o se avrà immaginato che forse sotto la panca di qualche altra scialuppa s’era acquattato il proprio marito, eroe di se stesso proprio come Zanni – che adesso rema di gran lena mentre la scialuppa si allontana dal naufragio e la stella del mattino brilla a oriente e chissà se una nave verrà a salvarli. Quando arrivò il Carpathia, Zanni aiutò le donne a salire a bordo. Una di loro, che aveva con sé un cagnolino, non ne voleva sapere di lasciare l’animale. "Gli esseri umani hanno la precedenza", osservò educatamente Zanni mentre due marinai la sollevavano senza troppi complimenti.

 

Thomas Francis Myles, seconda classe, 62 anni.

Dell’India ciò che più amava era la lontananza. Le piogge frequenti o la paura di una malattia sconosciuta o la disperazione che non di rado incontrava per le strade lo lasciavano, se non indifferente, quanto meno assente. Non era un uomo insensibile, Thomas Francis Myles, questo no: anzi, gli amici lo dipingono come persona devota e generosa. Ma nella sua mente e nel suo modo di comportarsi l’India faceva scattare un meccanismo sconosciuto, un dispositivo ignoto. Essere lontano (da casa, dagli amici, in fondo dalla vita) lo trasportava in una dimensione inaccessibile a chiunque: per questo l’India gli piaceva. Arrivò a Bombay quand’era poco più di un ragazzo. S’era imbarcato a Liverpool su una nave mercantile comandata dal cugino perché, come molti ragazzi, cercava l’avventura e forse sognava la gloria. In India trovò la lontananza, e se ne beò. Rimase a Bombay per qualche mese, poi si spostò a Calcutta e forse ci sarebbe rimasto per tutta la vita. Non ebbe mai la tentazione di apprendere e conoscere gli usi, la lingua, la religione di quel luogo intatto e delicato; con l’India mantenne sempre, per dir così, una relazione platonica. Nessuno saprebbe spiegare perché un giorno se ne partì con l’intenzione di non farvi mai più ritorno. È come se un altro dispositivo, nascosto quanto inesorabile, fosse scattato d’improvviso. Thomas Francis Myles s’imbarcò per gli Stati Uniti e quando toccò terra a Boston aveva con sé una sterlina e niente altro. La vita contemplativa era ormai alle sue spalle. Quando – gli anni passano in fretta – morì nel naufragio, era uno stimato proprietario terriero.

 

Bertha Lehmann, seconda classe, 17 anni.

Il padre, accompagnandola alla stazione di Basilea, le parlò così: "Bertha, ogni volta che siamo insieme mi capita qualche disgrazia. Ora ho la sensazione che capiti qualche cosa a te". Bertha Lehmann aveva 17 anni e lasciava Basilea per Cherbourg, dove si sarebbe imbarcata sul Titanic. La destinazione finale era Central City, Iowa, dove la sorella la stava aspettando. Le premonizioni sono parte essenziale del mito, di ogni mito: figuriamoci quando in ballo c’è il naufragio del Titanic. Esiste persino un romanzo, scritto quattordici anni prima del varo del grande transatlantico da un tal Morgan Andrew Robertson, il cui protagonista è un Titan che, pensate un po’, cozza contro un iceberg in mezzo all’Atlantico e affonda come l’ultima delle barchette. Incredibile, non è vero? C’è sempre qualcuno che prevede un disastro, quando il disastro si compie. Quando non accade nulla, nessuno si ricorda delle premonizioni che mancano il bersaglio. È una legge indiscutibile. Bertha in realtà si salvò, seppur in extremis (riuscì a salire sull’ultima scialuppa, la "D"), e campò più di settant’anni sopravvivendo a due mariti e lasciando sei figli. Una foto scattata in tarda età ce la mostra con un sorriso malizioso, due occhietti vivaci e un cappellino degno della regina Elisabetta. La premonizione, dunque, era sbagliata. Ma non lo era ciò che il padre di Bertha aveva detto subito prima, e cioè che la presenza della figlia, inspiegabilmente, portava scalogna. Tornato a casa, il signor Lehmann cadde dalle scale e si ruppe il femore, proprio come in una commedia macabra, e rimase per tre mesi immobilizzato in un letto.

 

Michel Navratil, seconda classe, 36 anni.

Michel Navratil era nato in Slovacchia ma si era presto trasferito a Nizza. Aveva aperto una piccola sartoria e aveva sposato Marcella Carretto, una ragazza italiana con i capelli neri e due occhi ancora più neri. Erano nati due bimbi, Michel e Edmond, e la vita scorreva felice. Ma la sartoria fece fallimento, e Marcella forse aveva un amante, e Michel impazzì di gelosia e di debiti e la coppia si separò. Michel non poteva vivere senza i suoi bambini, e quando Marcella tornò a prenderli la domenica di Pasqua, dei figli e dell’ex marito non c’era traccia. Erano partiti per Montecarlo, e da lì per Southampton, e da lì per l’America. Michel s’imbarcò sotto falso nome; a bordo teneva i bambini sempre con sé e ai compagni di viaggio diceva di essere vedovo. Soltanto una volta, per una partita a carte, li affidò a Bertha Lehmann: che parlava francese ma non conosceva una parola d’inglese. Nessuno avrebbe scoperto la verità, e Louis Hoffman (questo il nome scelto da Michel) avrebbe forse vissuto in America con i suoi bambini, mentre in Francia la madre per anni li avrebbe cercati disperata in ogni luogo. O forse Michel avrebbe dimenticato l’amante di Marcella e non ci sarebbero più stati debiti e Michel e Marcella e i due bambini avrebbero avuto di nuovo una vita lieta. Mentre li sistemava sulla scialuppa "D", Michel disse ai bambini: "Quando la mamma verrà a prendervi, e verrà di sicuro, ditele che l’ho sempre amata e ancora la amo. Ditele che speravo che ci avrebbe raggiunti, così da poter vivere felici insieme nel Nuovo mondo". Sul corpo di Michel trovarono una pistola carica.

 

Michel "Momon" Navratil, seconda classe, 3 anni.

"Non ricordo di aver avuto paura. Mi ricordo il piacere di cascare – plop! – nella scialuppa. Finimmo accanto alla figlia di un banchiere americano che cercava di salvare il proprio cagnolino, e nessuno protestò. Soltanto più tardi capii che se non avessimo viaggiato in seconda classe non ci saremmo mai salvati. Voltammo dunque le spalle al Titanic e ci addormentammo. L’indomani vidi il Carpathia all’orizzonte. Fui issato a bordo in un sacco da imballaggio. Mi sembrava molto sconveniente…". Michel Navratil, "Momon" per i genitori, tre anni, si salvò così dal naufragio insieme al fratellino Edmond. Papà li aveva portati con sé senza dir nulla alla mamma. A New York la figlia del banchiere che aveva salvato il proprio cagnolino, che si chiamava Margaret Bechstein e che parlava francese, li ospitò nel suo lussuoso appartamento e forse non se ne sarebbe più separata se un giorno, dalla Francia, non fosse finalmente arrivata la mamma. Gli "orfani del Titanic" – così li aveva battezzati la stampa – potevano ritornare a casa: avevano ritrovato la mamma, ma avevano perso per sempre il papà. Il cadavere di Michel Navratil fu ripescato e sepolto nel cimitero del Monte degli Ulivi, a New York. "Momon" visse tutta la vita in Francia, divenne uno stimato professore di psicologia e cercò di non pensare troppo alla sua lontana avventura di bambino stupito e curioso che faceva "plop" in una scialuppa in mezzo all’oceano. Il 27 agosto 1996, ottantaquattro anni, quattro mesi e dodici giorni dopo il naufragio, "Momon" per la prima volta si recò sulla tomba di suo padre.

 

Edmond Roger Navratil, seconda classe, 2 anni.

La mamma arrivò una mattina di maggio, e piangeva e gridava e non stava mai ferma. Edmond la guardava e rideva e non capiva. Aveva due anni. Suo fratello Michel, che di anni ne aveva già tre, raccontava quant’era grande la nave e com’erano buone le uova che aveva mangiato a colazione e quanto s’era divertito quando era saltato dalla nave grande grande in una barca piccola piccola. La mamma non capiva e rideva e piangeva, ed era troppo felice per pensare ad altro che non fosse la sua felicità ritrovata. Edmond era un bambino allegro e i riccioli gli cascavano fin sugli occhi e correva intorno alla mamma e non stava mai fermo. Il mare gli piaceva e fu felice quando mamma gli disse che avrebbero ripreso una grande nave e sarebbero tornati a casa e non si sarebbero mai più separati. Edmond chiese nella sua lingua arruffata e allegra dove fosse papà. Il primo viaggio sul mare l’aveva fatto con lui, e s’erano divertiti un mondo; il secondo, per tornare a casa, l’avrebbe fatto con la mamma. Edmond non riusciva a capire come mai non si poteva viaggiare tutti insieme, e insieme guardare il mare e giocare sul ponte e mangiare le uova. La mamma era troppo felice per trovare la risposta, e quando Edmond scoppiò a piangere e a singhiozzare e non sembrava potersi calmare, la mamma lo prese in braccio e lo strinse a sé e gli disse che presto sarebbero stati a casa e tutto si sarebbe aggiustato e non si sarebbero separati mai. Edmond si fece calmo e silenzioso e guardò la mamma, poi si divincolò e cominciò a giocare con Michel.

 

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