Johannes Halvorsen Kalvik, terza classe, 21 anni.

Breve e infelice e comune a molti la vita di Johannes Halvorsen Kalvik, nato in una fattoria di legno sul fiordo di Akra, Norvegia, e morto in mare a ventun’anni dopo aver investito la gran parte dei suoi risparmi per acquistare un biglietto di terza classe e viaggiare sul Titanic per cominciare in America una nuova vita. Johannes era un muratore e di sicuro non avrebbe mai lasciato il suo fiordo e la sua Norvegia se sua madre Severine non fosse morta d’improvviso e senza una ragione: era una donna severa e robusta e scavata dal vento e Johannes la amava. Non avrebbe mai lasciato il suo fiordo, Johannes, ma d’improvviso si ritrovò solo e d’improvviso capì che fra sé e sua madre e il suo fiordo era meglio metterci l’oceano, e ricominciare una nuova vita in un nuovo mondo, e dimenticare il dolore. Severine probabilmente avrebbe fatto la stessa scelta: era una donna forte e coraggiosa, e Johannes per questo la amava. Prima di imbarcarsi nel porto di Haugesund, dove l’accompagnò una ragazza di vent’anni dai capelli scuri e crespi, Johannes volle entrare nello studio di un fotografo. La ragazza si chiamava Anne Berta Austarheim e sarebbe presto diventata sua moglie: presto, cioè non appena Johannes avesse fatto un poco di fortuna e trovato un lavoro e messo su una casa. Johannes nella foto è seduto e una catena d’argento fa bella mostra di sé sul panciotto scuro, Anne è in piedi e un braccio cinge le spalle dello sposo promesso. Lo sguardo di Johannes è assorto in molti pensieri, quello di Anne pare scrutare l’orizzonte.

 

Stanley H. Fox, seconda classe, 38 anni.

La signora Lydia Fox si presentò alle autorità portuali di Halifax come la cognata del signor Stanley Fox. "Cora – spiegò commossa – è distrutta dalla morte del marito e mi ha pregato di occuparmi del trasporto a casa della salma. È rimasta a Rochester e non vuol vedere nessuno". Lydia fu accompagnata nel grande capannone trasformato alla bell’e meglio in camera mortuaria per l’identificazione del cadavere, protocollato con il numero d’ordine 236. "Sì, è lui", disse a bassa voce distogliendo subito lo sguardo dal volto tumefatto. Le vennero consegnati gli effetti personali del naufrago, e la bara fu avviata alla stazione. Giusto in quel momento, però, giunse da Rochester un telegramma della vedova, che intimava di non consegnare il corpo alla signora Lydia e di trattenere gli effetti personali. Ne seguì una discussione concitata, al termine della quale, chissà perché, le autorità decisero di riprendersi le poche cose di Stanley Fox, e di consentire invece che la bara partisse. Proprio il corpo, tuttavia, era il vero oggetto del contendere: perché quel cadavere irrigidito e semicongelato valeva una ricca assicurazione sulla vita. Lydia Fox, presunta cognata, seduta nello scompartimento del treno, la bara a tre vagoni di distanza, tirò un sospiro di sollievo mentre già pregustava l’incasso. Degli effetti personali del naufrago avrebbe fatto tranquillamente a meno. Ma il cadavere, beh, il cadavere adesso era suo. Sennonché arrivò un nuovo telegramma, questa volta dalla compagnia di assicurazioni. Alla stazione successiva la bara fu scaricata dal treno mentre Lydia continuava ignara il suo viaggio.

 

Emilio Portaluppi, seconda classe, 30 anni.

Il mare è freddo, troppo freddo, come una scossa elettrica o una bastonata violenta e ingiustificata, come un colpo secco che lascia senza fiato e immobili e senza sguardo. Emilio Portaluppi era saltato su una scialuppa mentre questa veniva calata in mare, ma era finito in acqua: un colpo sordo, un tonfo appena attutito, una scarica violenta e poi un silenzio immenso. Potete immaginarvi la confusione e il chiasso e le urla e la disperazione intorno a lui, e le scialuppe che si allontanano e il grande corpaccione del Titanic che s’inclina e imbarca acqua, e le grida e gli incitamenti: niente, Portaluppi è immerso in un silenzio siderale e impenetrabile, come se i timpani gli fossero esplosi o come se un velo sottile e impenetrabile fosse sceso intorno a lui e l’avesse avvolto e rapito e stordito. Portaluppi silenzioso prende a nuotare, intontito dal freddo e dal silenzio, in un mare immobile e nero che pare una fotografia o un quadro ingombro di dettagli ma già morto, già consegnato al ricordo e alla storia e ai musei. Portaluppi silenzioso nuota e nuota nel grande silenzio affollato di urla e grida e pianti, e il Titanic dietro di lui lievemente affonda, come una foglia si stacca dall’albero e piano piano si posa a terra, come una piuma che vola nell’aria, come il balzo di un gatto. Soltanto un’onda, una grande onda nera segna l’addio alla nave, e Portaluppi si solleva e ricade e risale, ma dolcemente, e come se fosse un sogno. Poi il mare torna piatto e silenzioso e nero. La vita è qui, sospesa in mezzo all’oceano, e due ore dopo esser caduto in acqua Portaluppi viene raccolto dalla scialuppa n° 14.

 

Contessa di Rothes, prima classe, 27 anni.

E chi l’ha detto che i nobili son gente viziata, e molliccia, e troppo abituata alle comodità per cavarsela quando la vita vera irrompe sulla scena e spezza la coltre soffice di piaceri e gentilezze e forme squisite? Noel Lucy Martha Dyer-Edwardes, contessa di Rothes, si era imbarcata a Southampton con la sua cameriera, la giovanissima Roberta Maioni, con destinazione finale Vancouver. Finì invece sulla scialuppa n° 8, e certo la cosa non le dispiacque. È vero: un naufragio non è esattamente un pranzo di gala: ma la contessina londinese, probabilmente stufa dei pranzi di gala, mostrò nel naufragio grande determinazione, una discreta dose di coraggio nonché, vogliamo immaginarlo, un qualche divertito interesse per la novità. "Parlava e parlava continuamente, così la mandai al timone", raccontò il marinaio scelto Thomas Jones. Ma non c’è nulla di sarcastico, in queste parole: la contessa di Rothes parlava perché s’intendeva di barche e di mare, o almeno così parve al marinaio scelto Jones, che con la contessina, peraltro, mantenne per alcuni anni una sporadica corrispondenza. Il marinaio scelto Jones era sinceramente ammirato dalla bravura e dalla perizia della giovane donna: tanto che qualche mese dopo il naufragio e il salvataggio recuperò la targhetta in bronzo con i numeri d’identificazione della scialuppa n° 8 e ne fece dono alla contessina. La quale, finché restò sulla scialuppa, e sebbene fosse al timone, non cessò un attimo di parlare: per dare ordini, per rinfrancare i compagni di viaggio, e per raccontare uno strepitoso pranzo di gala cui partecipò a Londra quattro giorni prima di salpare.

 

Roberta Maioni, cameriera della contessa di Rothes, prima classe, 16 anni.

Lo stemma della White Star, la grande compagnia di navigazione che ebbe nella sua flotta il Titanic, è, naturalmente, una bella stella bianca. La stella è inscritta in un cerchio, e il cerchio porta il nome della compagnia e della nave. Ogni marinaio del Titanic portava lo stemma sulla divisa, e ne era giustamente orgoglioso. Roberta Maioni, Cissy per gli amici, aveva sedici anni quando s’imbarcò come cameriera della contessa di Rothes, e nonostante il nome inconfondibilmente italiano era nata in Gran Bretagna. Roberta era giovane e graziosa, aveva lunghi capelli neri e occhi scuri, e la nave per lei era prima di tutto una grande festa mobile. S’invaghì di un marinaio proprio come alle feste le adolescenti s’innamorerebbero di un principe o di un cameriere: con leggerezza, e senza pensieri, e pensando alla divisa ordinata ed elegante assai più che agli occhi o alle parole di chi l’indossa. Il marinaio era poco più di un ragazzo, ma a Roberta sembrava un uomo fatto: e quella stella bianca sul petto la incuriosiva e le piaceva e la faceva sognare. Quando, quattordici anni dopo il naufragio, scrisse per il Daily Express il racconto di quel viaggio, Roberta non parlò del suo marinaio né della bella divisa che indossava né della stella bianca che portava sul petto. Era una donna sposata, a quell’epoca, e certe cose non si possono dire in pubblico. A casa però, nel primo cassetto della specchiera, chiuso da una minuscola chiave che Roberta portava sempre con sé, c’era la bianca stella cerchiata che il marinaio, al momento dell’addio, s’era strappata dal petto e le aveva teneramente regalato.

 

Francis Davis Millet, prima classe, 65 anni.

A Washington, all’angolo fra Executive Avenue e Ellipse Drive, c’è una fontana neoclassica in marmo alta circa due metri e mezzo che poggia su una base ottagonale, anch’essa di marmo. Sui due lati maggiori della fontana ci sono due bassorilievi. Il primo, che guarda a sud, raffigura un soldato con spada e scudo, e simboleggia il Valore Militare. Sul secondo bassorilievo, che guarda invece a nord, c’è un pittore con pennello e tavolozza che rappresenta l’Arte. Nessuno sa più che cosa mai ci faccia questa fontana neoclassica nel bel mezzo di Washington. Le automobili sfrecciano veloci, e i pochi passanti non si fermano di certo a guardare. La fontana stessa, del resto, risente dell’età: è sporca e pare qua e là sbrecciata, ed è già un miracolo che non sia coperta di impertinenti graffiti. Di Francis Davis Millet, ai suoi tempi, parlava tutta Washington. Giornalista, scrittore e soprattutto pittore, Millet suscitava rispetto e ammirazione. Fondò la Federazione americana delle Arti. I suoi quadri erano esposti al Metropolitan di New York e alla Tate Gallery di Londra. Decorò il Campidoglio del Wisconsin e quello del Minnesota. È lui il pittore sulla fontana con pennello e tavolozza. Si era imbarcato sul Titanic con un vecchio amico, il maggiore Butt – che è il soldato con spada e scudo. Chissà se gli piacerebbe, questa fontana neoclassica un poco sporca. Di certo gli piacevano poco le sue compagne di viaggio: "Qui è pieno di donne appariscenti e detestabili. Passeggiano con i loro minuscoli cagnolini e portano in giro i mariti come agnellini…", scrisse nella sua ultima lettera.

 

Leah Rosen Aks, terza classe, 18 anni.

Molti ebrei lasciarono la Russia all’inizio del secolo, per sfuggire le persecuzioni e per trovare una vita migliore nel Nuovo mondo. Si portarono appresso la miseria e la Torah e la gioia di vivere e la lingua yiddish e la musica kletzmer. Samuel Aks, dopo una breve permanenza a Londra, si era stabilito a Norfolk, in Virginia, e aveva aperto una piccola sartoria. La moglie, Leah Rosen, s’imbarcò sul Titanic col figlioletto Philip Frank, dieci mesi appena, per raggiungere il marito. Conosceva l’inglese, ma ignorava il mare. Si salvò, ma restò sorda da un orecchio per tutto il resto della vita a causa del freddo patito quella notte. Il Titanic, è chiaro, non era per lei un buon ricordo. Anzi. La prima cosa che pensò quando fu in salvo fu di scacciare dalla memoria quella nave e il nome che portava, e pensare soltanto al futuro che il Signore, benedetto il suo nome, le aveva voluto donare. Amava invece il nome di un’altra nave, il Carpathia: perché il Carpathia l’aveva tratta in salvo e perché sul Carpathia aveva miracolosamente ritrovato il figlioletto da cui la confusione del naufragio l’aveva separata. Un anno dopo il suo fortunoso arrivo in America, e per onorare quel futuro che il Signore, benedetto il suo nome, le aveva donato, Leah Aks diede alla luce una bambina, Sarah. In segno di riconoscenza, decise di dare alla figlia, come secondo nome, il nome della nave che l’aveva salvata: Carpathia. Per un curioso capriccio del destino, però, le infermiere – che conoscevano ciò ch’era accaduto – si sbagliarono e sul certificato di nascita scrissero: "Sarah Titanic Aks". Leah non ne fu per niente contenta.

 

Frederick Barrett, capo fuochista, 38 anni.

Nell’attimo cruciale della vita di Frederick Barrett, capo fuochista alla caldaia n° 6, fuoco e acqua si fronteggiano minacciosi, freddo e caldo si guardano e si sfiorano e si scontrano. Il frastuono, giù alle caldaie, è assordante, e si fatica a scambiare due parole con chi ti sta accanto. Fa caldo, molto caldo, e il sudore scende a rivoli spessi lungo la fronte e sul collo. La collisione non è un rumore, ma una scossa sorda immersa nel grande caldo, fulminea e inaspettata, e poi una luce rossa che si accende di colpo e dice: "stop". La luce rossa, che lampeggia sfocata nel vapore della caldaia, allontana per un istante soltanto il fuoco dall’acqua: perché è un battito di ciglia il tempo che separa l’accendersi subitaneo e del tutto inatteso della luce rossa dall’irrompere di un torrente impetuoso e gelato attraverso le paratie ancora semiaperte. Frederick Barrett è qui, il corpo immerso nel caldo e nel vapore e nel rumore assordante della caldaia e i piedi già lambiti dal torrente gelido che avanza e lentamente sale. L’effetto è il medesimo della sauna: e Barrett infatti riconosce l’acqua – come non potrebbe? – e capisce che qualcosa di grave è successo, ma non percepisce il freddo e, al contrario, per un lieve istante prova uno spensierato sollievo, come se una brezza di frescura avesse preso a soffiare in un pomeriggio afoso. La caldaia brucia gli ultimi scampoli di carbone – l’ordine di fermare le macchine è già stato impartito – e il vapore si condensa verso il soffitto mentre un gran fumo sale dal pavimento. Barrett guarda a terra, l’acqua sfiora le sue ginocchia e ora, per la prima volta, sente freddo, molto freddo.

 

Pierre Maréchal, prima classe, 43 anni.

Dal naufragio, oltre a se stesso, Pierre Maréchal salvò un libro di racconti di Sherlock Holmes. Era figlio di un ammiraglio della marina francese, aveva ricevuto una buona educazione e quella sera stava tranquillamente giocando a bridge al Café Parisien. Queste tre circostanze gli consentirono di salvarsi e di commentare in modo adeguato lo spettacolo che la sorte gli aveva apparecchiato: "A tre quarti di miglio dalla nave ci fermammo. Lo spettacolo che si mostrava ai nostri occhi era straordinario. In un mare calmo e piatto, sotto un cielo senza luna e intessuto di milioni di stelle, l’immenso Titanic giaceva sull’oceano, illuminato fino al ponte più alto. La prua lentamente affondava nell’acqua nera". È un racconto efficace; o, per meglio dire, è una fotografia: senza movimenti – se non quello, impercettibile, della nave che s’inabissa – e senza suoni né rumori né urla. "Il Titanic – a Maréchal non dispiaceva ripetere il suo racconto, e ogni ripetizione è un’approssimazione alla verità – era perfettamente immobile, come un irreale frammento di scenografia teatrale". Maréchal, ed è qui la sua grandezza, è il primo a cogliere l’aspetto scenografico e teatrale del naufragio: e lo coglie in tempo reale, si direbbe oggi, mentre ne gusta e ne apprezza con incolpevole voluttà lo svolgersi. Il silenzio, l’immobilità, il tempo come sospeso e il mare che pare una tovaglia nera, il cielo trapunto di stelle e le mille luci del transatlantico: il mito del Titanic nasce sulla scialuppa n° 7, la notte fra il 14 e il 15 aprile 1912, negli occhi bene educati di Pierre Maréchal.

 

Robert Hopkins, marinaio scelto, 30 anni.

Si diventa marinai così come si diventa operai: per necessità, raramente per vocazione. L’amore per il mare c’entra poco, e magari nulla: Robert Hopkins il mare lo detestava. Significava fatica, e sudore, e disciplina, e turni in ore impossibili e freddo e vento e caldo asfissiante. Ne avrebbe volentieri fatto a meno, del mare. Si sarebbe volentieri sistemato in qualche altro modo, Robert Hopkins: magari aprendo una piccola drogheria, come suo cugino, o cercandosi un impiego come facchino. Che è un lavoro faticoso, questo Robert Hopkins naturalmente lo sapeva, però gli orari erano sicuri e di notte, di norma, non veniva in mente a nessuno di farti lavorare. Quando arrivò a New York – era stato comandato alla scialuppa n° 13, che per un pelo non fu travolta dalla n° 15, calata in mare troppo presto – la White Star gli ordinò – ordinò a lui come a tutti i suoi colleghi, s’intende – di tornare in Inghilterra. Su una nave, naturalmente. E da marinaio, mica da passeggero. Robert Hopkins, che nel naufragio aveva perso tutto tranne la vita, fece due conti e decise che con il mare aveva chiuso. Il mare è grande, pensò, ma anche la terra non è piccola e l’America, poi, è la più grande delle terre. Così si licenziò, e la White Star – non per punirlo ma perché questa era la procedura – non gli rimborsò neanche un cent di ciò che aveva perduto. A Robert Hopkins la cosa non importava: quando si sceglie una strada e se ne abbandona un’altra, l’importante è che la strada nuova sia meglio della vecchia. Si rivolse alla Croce rossa, che non contemplava procedure se non quella di compilare un modulo e mettersi in fila, e ottenne qualche dollaro.

 

Alfred Fernand Omont, prima classe, 40 anni.

Ci vogliono abilità, memoria, destrezza e molta calma per giocare seriamente una partita di bridge. Ci vuole anche un poco di buona sorte, questo è chiaro: ma è la calma, soprattutto, a decidere la sorte del gioco. Di questo almeno era convinto Alfred Omont, mercante di cotone di Le Havre, impegnato come ogni sera al Café Parisien con i suoi tre compagni di gioco. Omont era, per dir così, un veterano delle traversate atlantiche – era al suo tredicesimo viaggio per mare – e mai avrebbe pensato che nella traversata è inclusa la possibilità – remota, s’intende, molto molto remota – del naufragio. No, per Omont le navi partono e arrivano esattamente come i treni (e al deragliamento di un treno, si capisce, Omont non aveva mai dedicato neppure un pensiero). L’essenziale, ad ogni modo, è mantenere la calma più profonda: per giocare bene una partita di bridge, e vincerla, non ci si deve distrarre, né emozionare, né soprattutto si deve rivolgere altrove i propri pensieri. Poco prima di mezzanotte sentì distintamente un colpo sordo, ma non se ne preoccupò, convinto com’era che si trattasse di un’onda. Attraverso gli oblò del caffè vide qualcosa di biancastro passare rapidamente nella notte nera e subito scomparire, e un po’ d’acqua macchiare i vetri: come se un’apparizione fuggevole e inconsueta avesse fatto capolino nella serata, sfiorando il suo gioco assorto, e subito dopo, senza lasciar traccia né eco, fosse rapidamente scomparsa, risucchiata dalla notte silenziosa e stellata che era tornata a distendersi dietro gli oblò adesso un poco bagnati. Fu tra i primi a salvarsi.

 

James Dawson, stivatore, 23 anni.

"J. Dawson – morto – il 15 aprile 1912 – 227": è un cubo di pietra al cimitero Fairview (che più o meno vuol dire "bellavista") di Halifax, sulla costa della Nuova Scozia, ad accogliere quest’epitaffio così scarno. La pietra è scura e levigata. Il numero che segue la data, 227, indica la catalogazione del cadavere recuperato in mare. Prima di lui, dunque, duecentoventisei cadaveri erano già stati raccolti, ordinati, descritti, numerati. Dev’esser stato un lavoro noioso. I corpi vanno ispezionati con cura, bisogna prepararne una succinta descrizione e indovinarne l’età (Dawson aveva 23 anni, ma sulla sua scheda scrissero che ne dimostrava 30), così come va descritto alla bell’e meglio il loro abbigliamento. Poi bisogna ispezionare le tasche, alla ricerca di effetti personali: lettere, soldi, oggetti, orologi, un’armonica a bocca oppure un portamonete di cuoio, la fotografia di un parente o un anello o una manciata di dadi da gioco, chissà. Il cadavere è irrigidito dalla morte e dal gelo delle acque dell’oceano, e ciò rallenta il lavoro, lo rende più delicato e difficile, e più lento. Però è un lavoro che va fatto con scrupolo, perché proprio gli effetti personali, è chiaro, sono preziosi: una vedova, un cugino lontano, un padre potrebbero venire a reclamarli, perché è tutto ciò che resta, e ciò che resta va custodito e conservato. I ricordi hanno bisogno di un appiglio, anche piccolo e sdrucito e insignificante, e anche il lutto e il dolore preferiscono poggiarsi su qualcosa di solido, di tangibile, di reale. Dawson, tuttavia, non aveva nulla con sé: di lui resta soltanto quel laconico cubo di pietra scura.

 

Arthur May, fuochista, 23 anni.

Era un ragazzo, s’era sposato nemmeno un anno prima, aveva un figlio di sei settimane, faceva il fuochista: di lui rimane soltanto un cappotto bianco. Glielo rubarono mentre la nave affondava, o magari qualcuno aveva bisogno di un cappotto e Arthur, che era un ragazzo generoso, gli offrì il suo, o forse trovarono quel cappotto bianco gettato su una panca, o sul ponte, e lo raccolsero. Ad ogni modo, il cappotto di Arthur May finì addosso ad un altro uomo, più anziano e più corpulento, diciamo sulla cinquantina, con pochi capelli color sabbia e un paio di baffetti quasi trasparenti. All’uomo mancavano due denti, e in tasca aveva una cartolina indirizzata ad una signora Kempsey di Belfast – dunque era forse un irlandese, e gli irlandesi sono spesso corpulenti e se non hanno i capelli rossi li hanno biondi. Aveva anche con sé, l’uomo che prese il cappotto di Arthur, un portachiavi e un anello d’oro: era sposato; non con la signora Kempsey, però, che fu rintracciata ma non seppe ricordare di conoscere qualcuno che s’era imbarcato sul Titanic – tanto meno suo marito. E se fosse stato il suo amante? Macché, gli amanti non mandano cartoline; e se le mandano, è perché sanno di poterlo fare: sono amici di famiglia, o cognati, o vicini di casa: e allora la signora Kempsey avrebbe potuto tranquillamente ammettere che sì, aveva un amico o un vicino o un cognato sul Titanic, e avrebbe pianto lo scomparso, e tutto sarebbe finito lì e oggi sapremmo chi ha preso il cappotto bianco di Arthur May. Arthur invece giace in fondo all’oceano, senza cappotto, e il cappotto è tutto ciò che resta di lui.

 

Anna Sofia Turja, terza classe, 18 anni.

La giornata comincia ogni giorno con il rituale della colazione: Emil Lundi a capotavola, la moglie Anna Sofia alla sua destra, i sette figli sparpagliati. Anna Sofia è una madre premurosa, e ogni mattina controlla che i figli siano pronti, che nessuno sia in ritardo per la scuola, che i vestiti siano adatti alla stagione, che i compiti siano stati fatti. Paul è il dormiglione della famiglia, e la mamma fatica ogni giorno a svegliarlo. Il lunedì e il martedì sono dedicati a lavare e a stirare i panni. Anna Sofia è una donna allegra e piena di vita, parla e parla e sorride e la casa, ogni mattina, è colma delle sue parole e delle sue risate. Quando non ha un figlio a tiro, chiacchiera con il cane: un enorme bulldog che, sostiene Anna Sofia, "sa fare tutto tranne parlare". Ogni giorno è così, tranne il quattordici di aprile. Quel giorno, a colazione il silenzio è pesante: mamma non parla, non sorride, non scherza. I suoi occhi si riempiono di lacrime. "Vi ricordate che giorno è oggi?", chiede malinconica ai figli. Poi comincia a raccontare, gli occhi chini e le mani strette in grembo. Si interrompe e dice: "Nessuno però che non sia stato sul Titanic potrà mai davvero capire che cosa è successo". Riprende a raccontare, descrive la "città galleggiante". È triste, molto triste: i figli ascoltano il racconto in silenzio. Il rito si compie ogni anno, a colazione, sempre uguale: ogni quattordici aprile Anna Sofia celebra la sua messa da requiem di fronte al marito e ai sette figli smettendo il sorriso e le parole allegre, gli occhi ancora pieni di un terrore più grande dei suoi diciott’anni di allora. C’è un grande silenzio, e il tempo si ferma.

 

Colonnello John Jacob Astor IV, 48 anni, prima classe.

Corre l’anno 2000, e il presidente Bearwarden si rivolge agli azionisti della Società per il Raddrizzamento dell’Asse terrestre e ai delegati di tutti i governi del mondo. "Voi sapete – dice – che l’obiettivo della società è raddrizzare l’asse terrestre, così da eliminare il freddo eccessivo dell’inverno e il caldo eccessivo dell’estate, e avere una temperatura uniforme ad ogni latitudine per ogni giorno dell’anno". Ridurre l’inclinazione dagli attuali ventitré gradi a quindici circa risolverebbe una volta per tutte il problema degli eccessi climatici: il pianeta avrà un’eterna primavera. Per ottenere questo risultato, è necessario accrescere il peso del polo opposto al sole e alleggerire il polo più vicino al sole. Il resto lo farà la forza gravitazionale. "Il modo più semplice – prosegue il presidente Bearwarden – è spostare l’acqua, che, come sapete, è facile da trasportare e ha un peso considerevole". John Jacob Astor espose questo progetto – insieme a molti altri non meno bizzarri – in un libro oggi dimenticato: s’intitolava Un viaggio in altri mondi e apparve nel 1894. Tre anni dopo costruì un grande albergo a New York, cui diede il proprio nome: Astoria. E siccome confinava con l’albergo del cugino, che si chiamava William Waldorf , ne venne fuori il Waldorf-Astoria. Era un personaggio interessante, John Jacob: brevettò anche un nuovo tipo di freno per bicicletta. Aveva una moglie più giovane di lui di ventisette anni, da cui aspettava un figlio. Quando furono calate le scialuppe, chiese se poteva accompagnarla. Gli fu risposto che dovevano prima essere salvate tutte le donne e i bambini della nave.

 

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