Breve raccolta di notizie storiche

Siede Alessandria a Nord della provincia di Girgenti, sopra un altipiano leggermente inclinato da Oriente ad Occidente.  Essa è circondata per tre parti da collinette, dove, tra il verde cupo dei ricchi oliveti, fiorisce lussureggiante il mandorlo; mentre ad Occidente il suo orizzonte si apre e l'occhio di chi si affaccia dal piano del "Serrone" digradando dai monti di Bivona, giù giù fino a quelli di Rifesi e Caltabellotta, si riposa sulla verde vallata dove scorre il classico Macasoli, profumato, nei suoi tortuosi giri, dalla zagara degli aranci.Questo Comune prima veniva chiamato Alessandria della Pietra (per la vicinanza alla Pietra o Rocca d'Amico) o più generalmente Alessandria di Sicilia; nel 1862 per Decreto Regio fu denominato Alessandria della Rocca".

Così agli inizi del Novecento ne dava notizia Francesco Nicotra nel suo "Dizionario illustrato dei comuni siciliani", pubblicato a Palermo nel 1907.

E ci piace iniziare questa "nota" storica su Alessandria proprio col Nicotra perché sembra compendiare efficacemente una realtà geografica che nel complesso poco è cambiata ai giorni nostri.

Fondata da D. Carlo Barresi nel 1570, Alessandria fu costruita presso l'antico fortilizio della Rocca di Pietro d'Amico.  Il nonno, D. Nicolò Barresi, aveva comprato la baronia di Pietra d'Amico nel 1542 dalla Regía Corte per il prezzo di 800 scudi d'oro, col mero e misto imperio, comprendente i feudi Presti Alessandro con i suoi marcati, Solicchialora, Chimeni o Chinesi e Moavero.  Il contratto di vendita fu stipulato dal notaio Giacomo Scavuzzo di Palermo il 16/12/1542.  La famiglia Barresi era di origine normanna che venne in Sicilia al seguito del conte Ruggero.  Signori di vari feudi in Val di Noto parteciparono alle lotte baronali al tempo dell'Imperatore Carlo V'.

Ma di certo la baronia di Pietra d'Amico aveva già nei tempi anteriori al 1500 nuclei di popolazione.  Dal 1224 si ha notizia di due casali, Scibeni e Chinesi.  I borgesi del primo casale dovevano pagare la terza parte della decima alla Chiesa di Girgenti, mentre quelli di Chinesi l'intera decima. (Libellus de successione pontificum, Agrigenti).  Il primo casale doveva trovarsi nella contrada Scibè nei pressi del Magazzolo, non molto distante dal feudo Castello.  Il secondo si trova in contrada Chinesi, nella zona circostante l'antica dimora dei Sicani, contrade "Grotticelle" e "Lordichelle".

Nelle suddette contrade, delimitate a valle dal fiume Turboli, oggi si può osservare ciò che rimane della piccola necropoli sicana, le cui tombe "a forno" o a "grotticelle" sono scavate sui fianchi di una montagna che viene chiamata "li gruttiddi".

In seguito, tale insediamento sicano subì la sorte della colonizzazione greca prima e del dominio romano poi.  Forse la definitiva sottomissione di quella antica popolazione sicana avvenne nel 104-99 a.C. con la seconda guerra servile che ebbe come teatro di battaglia, tra le legioni romane e gli schiavi, uniti alle popolazioni indigene, proprio i luoghi lungo la valle del Magazzolo e la montagna delle Rose.

In epoca bizantina poche ed incerte notizie si hanno del territorio alessandrino.  Durante l'occupazione araba della Sicilia nuclei di popolazioni berbere si stabilirono presso la dimora sicana, formando del villaggi che in epoca normanna divennero casali.  Dopo la conquista normanna i feudi in territorio di Alessandria vennero concessi a un parente del conte Ruggero, Lucia, signora di Cammarata.  Facevano parte della Contea di Cammarata la baronia di Motta S’Agata e il castello di Pietra d'Amico.  Le sorti di tali feudi furono segnati dalle alterne vicende storiche che si svolsero in Sicilia con la guerra tra Svevi e Angioini prima e tra Angioini e Aragonesi dopo.

Dal 1398 in poi la baronia di Pietra d'Amico veniva concessa dal Re Martino I° a Guglielmo Raimondo Moncada, conte di Cammarata.  Nel 1431 Giovanni Abatellis la comprò per 40 mila fiorini d'oro.  In seguito passò a Federico Abatellis, ma resosi reo di fellonia perché ribelle alla Corona, fu giustiziato nel 1523 a Milazzo e i suoi beni confiscati.  Nel 1542 la baronia fu comprata, come già abbiamo detto, da D. Nicolò Barresi.

Nel 1568 ebbe l'investitura il nipote, D. Carlo, detto anche Blasco, "principe prudentissimo e di gran governo", il quale, nel 1570, nel feudo Presti Alessandro, contrada Prato, fondò Alessandria che prese nome dal feudo stesso.  Il Principe diede un notevole sviluppo al primo insediamento, che nel 1593 era formato da 110 case e da 307 abitanti, come risulta dal primo Rivelo.  La promessa di franchigie e conseguentemente di una vita meno incerta economicamente fece sì che si insediassero in quel primo borgo centinaia di contadini provenienti dai centri vicini, Bivonesi in particolare.  Infatti nel 1588 il barone concesse all'Università di Alessandria per comodo degli abitanti stessi 20 salme di terra "comuni", "liberi et expediti di ogni censo et gravezze in perpetuum" (Atto del notar Pietro de Undo di Bivona del 4 ottobre 1588 IX ind.). Nello stesso atto vengono segnati i confini delle terre concesse.

"Terre pro prato seu «comuni» dell'Università incominzando di la via grandi di Juso di lo dicto castello, confinanti colli vigni di Ambrozio d'Alfano, con altri vigni, et tira a la via di lo Invacillaro e nexi a la via di Xillonato et gecta a la fontana in menzo la via et tira suso a dirittura a la Montagnola di li disi et gecta a lo Piraino undi è la timpa et tira a drictura a li terri forti di li disi et nexi a la via chi veni di li Chinesi confinanti con lo fego di Noro, et gira via via et veni a la via di Santo Stefano e jungi a la finalta di lo fego di Fontana Russa et gira a la finita di la vigna d’Augustino di Dato et di la vigna di Paolo Pinzato et di Berta la Marana confina con la vigna di Philippo Mortellaro taruno di Antoniola Valenti et segita, confina di la vigna chi era di Antonino Valenti lo longo et nexi a la vigna d'Onofrio Terranova, et gira a la finaita di la vigna di Pietro Jardino lo Russo et di Maes.  Antonio Vurzzera et jungi in detto Ambrogio d'Alfano di la dicta via grandi chi veni di lo Castello".

Nel capitoli dello stesso notar de Unda si leggono i seguenti patti:

  1.Le terre comuni o prato devono rimanere tali per comodo degli animali e così difendersi;

  2.Esclusa la paglia;

    3. Niente pagamento di colletta per dette terre;

    4. Divieto di mandrie con animali meno di 10;

  5. Libertà di vendita dei beni dei cittadini;

  6. Divieto di carcerazione;

  7. Contributo di una gallina per abitazione al barone o tarì uno;

  8. Franchigie per 10 anni;

  9. Il padrone non poteva fare zagato;

10. Nessuna clausola contraria alla Chiesa o al Re.

Sembra che queste terre, scrive l'avv.  Landolfi, nella sua relazione sugli usi civici, sino alla fine del 1600 fossero state destinate interamente a pascolo, perché in tutti i successivi riveli, dopo quello del 1593 e fino a quello dell'anno 1682, non si rivelano né le terre né rendite per fitto o censuazione di terre comuni.

In ricordo delle franchigie di dazi doganali ed angarici loro concessi gli Alessandrini ogni anno, l'8 settembre, festa della Vergine, inalberavano sul campanile della Chiesa del Carmine uno stendardo.  Per tali ragioni la popolazione crebbe in pochissimo tempo: nel 1653 era di 3466, nel 1714 di 3862 e nel 1798 di 4416 abitanti, come riporta nel suo saggio storico-statistico il Maggiore Perni.

A darle notevole sviluppo contribuì principalmente Donna Elisabetta Melchiora Barresi, che s'investì della Baronia di Alessandria nel 1619.  Avendo ella sposato nel 1636 D. Girolamo di Napoli, principe di Resuttana e di Campobello, stabilì che alla sua morte i suoi discendenti assumessero il titolo di Napoli e Barresi.  Nell'atto di immissione in possesso della Baronia di Girolamo stesso è descritto dettagliatamente il territorio della Baronia e della terra di Alessandria, nel modo seguente: "Fu immesso e indotto al reale possesso della Baronia di Pietra d'Amico e del suo castello diroccato insieme ai suoi feudi, gabelle, frutti e proventi e cioè il castello nominato della Pietra esistente nel feudo Cabibbi insieme ai suoi mulini e il detto feudo di Cabibbi, i feudi di Scillonato, di Fontana Rossa, di Noro, di Boschetto, esistenti in Val di Mazzara, il feudo chiamato di Noro di S. Stefano da una parte, di Pietra Nera dall'altra e Chinesi dall'altra ancora, il feudo di Mailla, di Scarnicola e di Santa Venera, e la predetta terra di Alessandria e grandi tenimenti di case, di magazzini, di carceri...... (Arch. di Stato, Palermo, Protonotaro del Regno Processo N' 6380).

Nel 1636 la Baronia fu elevata a Principato.  Donna Elisabetta visse gran tempo della sua vita ad Alessandria dove morì e fu sepolta nel 1679 nella chiesa del Convento dei Francescani.  Fra i discendenti si distinse il principe Federico che fu consigliere dell'Imperatore Carlo VI°.  L'ultima investitura della baronia l'ebbe Pietro Barresi nel 1788.  I Napoli-Barresi generalmente vissero lontano da queste contrade, dove tennero un Segreto che fece le loro veci.

In questo primo secolo di storia e sotto i signori Barresi sorsero le chiese più insigni.  Del 1593 è la chiesa Madre di S. Maria del Pilerio. Essa sorse sulla vecchia struttura della chiesuola di San Nicolò di Bari di cui D. Carlo Barresi comprò il patronato cambiandole il nome ed eliggendola a Parrocchia.  Il primo parroco fu D. Natale Cangemi che ebbe assegnato dal barone 78 onze per le primizie, mentre la Confraternita del SS.mo Sacramento collocata nella sacrestia della parrocchia ebbe 43 onze di rendita.  Una cinquecentesca statua in legno di S. Nicolò, tele ed affreschi settecenteschi costituiscono un patrimonio artistico di notevole interesse.

Del 1589 è la Chiesa con il convento annesso dei P. Carmelitani sotto il titolo di Maria Annunziata.  Espressione genuina del barocco siciliano è "teatralmente isolata e dominante dall'alto di ampie gradinate".  All'interno, l'altare maggiore è sovrastato da un pregevole dipinto, si dice, di Guido Reni, raffigurante l'Annunciazione.  Nelle due cappelle laterali si trovano degli stucchi portati a finitezza sorprendente della scuola dei Serpotta.

L'altra chiesa secentesca è la Chiesa con il convento annesso dei P. Minori Osservanti.  Essa fu edificata a spese della baronessa Elisabetta Melchiora Barresi nel 1664.  Notevole pregio hanno le tele e il busto marmoreo della stessa baronessa che ivi si conservano.

La chiesa del Collegio di Maria è d'ordine corinzio, le sue pareti sono istoriate di bellissime pitture del Manno ed è ricca di arredi sacri.

Il Santuario della Madonna della Rocca, eretto su una collinetta pur risalendo al 1630, solo nel XIX secolo fu completamente ricostruito.  Nell'altare maggiore si può ammirare l'immagine marmorea della Madonna, mentre dipinti di ottima fattura raffigurano la storia del ritrovamento miracoloso.

Il "Feudo" e la "Chiesa" erano in quel lontano tempo i due "soli" della vita alessandrina.  Il feudo guidava la vita economica e civile, la Chiesa era la guida spirituale e morale della comunità.  Essa costituiva la speranza e la consolazione per le difficili condizioni di vita di migliaia di contadini e pastori.  Ad Alessandria l'autentico fervore religioso si intrecciava spesso alla superstizione e alle pratiche magiche, per cui esemplarmente si possono citare da un lato la venerabile Suor Francesca Furia,  terziaria dell'Ordine Domenicano, che proprio in quel tempo (1670) saliva agli onori degli altari per la sua vita di elevata spiritualità e santità; dall'altro lato, nel 1658, il Tribunale d'Inquisizione di Palermo condannava a portare il “sambenito" e a cinque anni di carcere nello Steri di Palermo l'alessandrino Sac.  D. Pietro Perzia "di anni 33, superstizioso, mago, malefico, detentore di libri magici", assieme alla sua serva Flavia Salca soprannominata Flora da Bivona, anch'essa ritenuta dal S. Uffizio "strega, maliosa, invocatrice di demoni", condannata, oltre a indossare il "sambenito", a sette anni di carcere.  E qui ci sarebbe tutto un discorso da aprire sull'assurdità e sulle nefandezze di un tale Tribunale che ha privato la Sicilia del '600 e del '700 dei suoi uomini più liberi nella coscienza e nel pensiero.

Nello stesso periodo (1630) avvenne il ritrovamento del simulacro della Madonna della Rocca dove attualmente sorge il Santuario dei Padri Passionisti, proprio quando imperversava ad Alessandria e in tutta la Sicilia una terribile pestilenza, sicché prodigioso dovette sembrare il ritrovamento della statua della Madonna che a clamor di popolo fu portata in processione per le vie del paese.

Con l'Unità d'Italia, la popolazione era di 5214 abitanti, i beni ecclesiastici passarono al demanio pubblico e molte chiese decaddero nel più completo abbandono.

Il primo Presidente del Municipio fu Faustino Cosentino, seguirono il notar Giuseppe Amorelli, il dottor Giuseppe Giglio, il cav.  G. Inglese ed altri.  Nel 1862 mutò il nome, da Alessandria di Sicilia fu denominata Alessandria della Rocca.  Ma le misere condizioni economiche non mutarono: il brigantaggio fu diffuso, l'analfabetismo capillare, la malaria era endemica, la collusione tra "mafia" e politica cominciava a rinsaldarsi.  Inspiegabile rimane la cattura del latitante Giuseppe Scaglione, imputato di omicidio, nell'abitazione dell'allor sindaco funzionante D. Gioacchino Inglese, avvenuta nel luglio del 1863.

Nel settembre del 1885 accaddero disordini popolari per un superstizioso timor di "pretesi" untori di colera.  Essendosi sviluppata nella provincia di Palermo l'epidemia colerica, gli alessandrini, nella paura di essere contagiati e nell'ignoranza che tale malattia era da addebitarsi a persone, convenientemente immunizzate, che la diffondevano per decisione del Governo, si sollevarono con le armi e, col proposito di isolare il paese, formarono un cordone sanitario.  Fu devastata la caserma dei carabinieri e vennero imprigionati gli stessi carabinieri.  Intervennero i militari e un distaccamento di soldati pose lo stato di assedio ad Alessandria.  L'esercito governativo agì in modo autoritario e repressivo.  I soldati che alloggiavano dentro il fabbricato della Scuola Elementare furono accusati dal Sindaco Cordova di furto e di danni gratuiti al locale per un valore di lire 64 e 45 centesimi.

Alla fine dell'800 Alessandria cercò di inserirsi in quel grande moto popolare che furono i Fasci Siciliani.  Non è difficile immaginare il quadro di desolazione e di disperazione che offriva allora Alessandria.  Il delegato di Pubblica Sicurezza, Ariani, così scriveva nel luglio del 1893 al Sotto-Prefetto di Bivona a proposito delle condizioni del contadini: "Il contadino qui pazientemente accoglie il salario sulla giornata comunque gli viene offerto, e spesso è troppo basso da non retribuire il lavoro".  Ma anche Alessandria costituirà il suo Fascio del Lavoratori presieduto dal sig.  Pietro Amorelli e sarà formato da 250 soci, di cui 14 donne.  Scopo del Fascio era quello di fare rispettare gli affitti in corso e per le nuove gabelle ottenere migliori patti dai proprietari.

Venne, invece, il siciliano Francesco Crispi a reprimere nel sangue le rivendicazione economiche e sociali delle plebi siciliane, angariate ed oppresse da un sistema di potere economico reazionario e conservatore che in Sicilia era rappresentato dagli agrari latifondisti. Sicché l'unica risposta ai loro bisogni divenne la possibilità d' emigrare, nella ricerca di quella dignità e libertà umana negata nella loro stessa patria.

Agli inizi del Novecento con Regio Decreto furono dichiarate malariche quattro zone: i territori adiacenti lungo il corso dei tre fiumi: Turvoli, Platani e Magazzolo e quelli attorno al vallone Ciniè, i quali continuarono a costituire fino alla prima metà del secolo focolai di febbri malariche.

Nel 1902 fu costruito l'acquedotto che portò l'acqua potabile dalle sorgenti del Voltano nel centro abitato.  Era Sindaco don Giuseppe Bondì.

La Grande Guerra chiamò anche gli Alessandrini a difendere una patria verso cui pochi si riconoscevano e che pochissimo si era ricordata di loro.  Alla fine della guerra tanti non tornarono, ma in riconoscimento del loro sacrificio ebbero dedicato un monumento.  Poi venne il Fascismo e anche allora lo Stato italiano chiese uomini per le guerre del Duce: la guerra d'Africa, quella di Spagna ed infine l'ultima guerra.

Tra gli avvenimenti più memorabili resta ancora nella memoria dei più anziani la visita del Prefetto Mori e la successiva "associazione contro la mafia", allorché molti campieri e altre persone furono arrestate perché sospettati di essere mafiosi.

Nel secondo dopoguerra, dopo le attese deluse della riforma agraria, molti braccianti, affittuari e poveri contadini presero la via dell'emigrazione transoceanica.  Iniziava un secondo grande esodo, inarrestabile, che tra gli anni 1950-60 portava la popolazioni a un sensibile calo di oltre 1000 abitanti.  Infatti la popolazione che nel 1951 contava 6408 abitanti, nel 1971 scendeva a 5388.  Attualmente, con i dati del dicembre del 1984 essa è di 5273 abitanti.

L'economia del paese, che per secoli si è basata soprattutto su una agricoltura di tipo tradizionale, in prevalenza cerealicola, oltre che su colture di oliveti e mandorleti, oggi è in piena trasformazione.  Le colture del cereali sono state in gran parte abbandonate e vengono gradualmente sostituite da moderni impianti di vigneti, frutteti, oliveti e mandorleti diffusi un po' su tutto il territorio.  Ma i prodotti dell'agricoltura non trovano adeguati sbocchi sul mercato e pertanto il lavoro agricolo è poco remunerativo.  Gli addetti all'agricoltura sono molto diminuiti e spesso sono anziani pensionati.

Oggi Alessandria si presenta con un volto urbanistico cambiato: le case del centro storico sono state in buona parte ricostruite; anonimi agglomerati urbani sono sorti nella zona di espansione edilizia; molte speranze di sviluppo economico sono affidate alla diga Castello sul Magazzolo.  Ma tutt'oggi le terre irrigate sono poche centinaia di ettari e perciò molto dipenderà dalla costruzione di un'ampia rete di irrigazione.

Delusione e speranza caratterizzano questo particolare momento della vita di Alessandria: delusione storica per la mancata soluzione dei problemi che hanno assillato generazioni di uomini; speranza per una rinascita delle condizioni economiche e sociali.  Ma questa rinascita si collega al destino complessivo del Meridione e in particolare della Sicilia, e certamente non può essere oggi affidata né alla militarizzazione del suo territorio né tanto meno alle testate nucleari.  La Sicilia e il Sud attendono ben altre risposte e ben altri progetti da parte dello Stato italiano.

 Stefano Centinaro (Alessandria ieri-1986)