Vincenzo De Filippis

Martire della Repubblica Partenopea

(Luigi Marsico - pubblicato in Fatti ed uomini di Catanzaro" L'Ardita, Catanzaro)

Un saggio di Vincenzo De Filippis:

De Terremoti della Calabria Ultra nel 1783 e 1789

  

Vincenzo De Filippis, matematico, filosofo, letterato, ministro, martire per aver professato idee progressiste in tempi di oscurantismo, negli anni che seguirono alla sua morte, non ebbe la notorietà e la fama che si addiceva ad un uomo della sua levatura e portata.

Citato dagli storici unitamente a Francesco Caracciolo, Mario Pagano, Domenico Cirillo e agli altri eroi con i quali comune ebbe la sorte al cadere della Repubblica Partenopea, se si eccettuano quei cenni riguardanti la sua attività di uomo di stato e la sua fine eroica, ben poco di lui fu detto o scritto; eppure non era stato da meno degli altri se, come gli altri, aveva egregiamente operato e saputo morire con la serenità dello stoico e il distacco del saggio.

Fu verso la fine del secolo passato, intorno al 1889, quando si celebrava il centenario della gloriosa Repubblica Napoletana, che studiosi come il Capasso, il Croce, il D'Alaya presero ad interessarsi del De Filippis coll'intento di fare maggior luce sulla sua persona e con il fine di far conoscere la sua opera di matematico, di fisico e di filosofo. Purtroppo questo interesse arrivava con notevole ritardo! Ad un secolo dalla sua fine, di molti fatti già si era perduta la memoria; la polizia borbonica, per giunta, in due irruzioni fatte nella sua casa, aveva sequestrato o distrutto molti scritti, la corrispondenza che egli aveva tenuto con gli uomini illustri del tempo, nella parte più compromettente, l'avevano fatta scomparire i familiari, pavidi e timorosi di nuove rappresaglie e persecuzioni.

Tutto questo naturalmente rendeva difficili le ricerche sul De Filippis e sulla sua opera che non poteva essere convenientemente illustrata; ed oggi le cose sono cambiate in peggio, perché quello che dei suoi scritti era rimasto è andato, forse, irrimediabilmente perduto.

Tuttavia quanto di lui si conosce è sufficiente e bastevole perché si possa delineare, se non particolareggiatamente, certo a grandi tratti, la sua figura di cittadino, di scienziato, di eroe.

Vincenzo De Filippis nacque a Tiriolo il 4 aprile del 1749 ed appartenne ad onorata famiglia di possidenti. Della sua fanciullezza ben poco conosciamo; ricevette la sua prima istruzione nel paese natio e, giovanetto, dimostrò tale trasporto ed amore allo studio, che i suoi genitori, Vito e Laura Micciulli, si sentirono obbligati a farlo proseguire nella via del sapere; fu, pertanto, mandato a Taverna a scuola presso un tal Preti. Chi fosse questo precettore, quale educazione gli avesse impartito, quale influenza abbia avuto sulla sua formazione non sappiamo; è certo, però, che, dopo qualche tempo, si trasferì a Catanzaro e frequentò il Real Collegio. Il Collegio, fondato dai Gesuiti nella seconda metà del '600, era, a quei tempi, fiorente centro di studi ed uno dei pochi esistenti nella regione e vantava professori valenti; qui il De Filippis, tra gli altri, ebbe a maestro il padre Saragò dell'Ordine dei Minori, uomo colto, versato nelle scienze matematiche. Non è da dubitare che questo religioso dovette avere sul giovane discepolo un grande ascendente e che fu proprio lui ad infondergli quell'amore e predilezione per lo scienze esatte che mai poi dovevano venirgli meno.

Ma Catanzaro, dopo qualche anno, in fatto di istruzione, non aveva più nulla da offrire al De Filippis che, secondato dai genitori, per appagare la sua sete di sapere e di conoscere, non esitò di portarsi a Napoli: aveva poco meno di vent'anni.

La Napoli della seconda metà del '700 era veramente la città ideale per chi avesse voluto istruirsi o mettersi in luce.

Da poco aveva lasciato il regno Carlo III di Borbone, il grande monarca che, secondato dal pur grande suo ministro Tanucci, aveva attuato riforme, favorito la cultura, cambiato il volto della città con la costruzione di sontuosi edifici e strade; da qualche decennio erano scomparsi il Vico, che nel fluire delle vicende umane aveva saputo cogliere e determinare le leggi eterne che le governano, ed il Giannone che aveva battagliato contro ogni forma di privilegio feudale. Su queste grandi tradizioni di cultura si era innestata l'ideologia illuministica che aveva conquistato soprattutto il medio ceto, ma che si era anche diffusa tra buona parte della nobiltà; rappresentavano questo movimento di pensiero e di nuove idee alti ingegni come Antonio Genovesi, Gaetano Filangieri, Ferdinando Galiani, Mario Pagano che avevano dato vita a studi di economia, di diritto, di pedagogia con l'intento di sanare la secolare depressione della nostra vita civile. Napoli, unitamente a Milano, era, in questo periodo, uno dei più importanti centri progressisti ed illuministici della penisola.

In questa città il De Filippis si trovò a suo agio; si introdusse negli ambienti della cultura, frequentò gli uomini più rinomati dai quali fu presto apprezzato per la vivacità dell'ingegno e per la passione allo studio. Antonio Genovesi, il grande economista, colui che occupò la prima cattedra universitaria di economia politica istituita in Italia, lo ebbe discepolo prediletto in un primo tempo, amico carissimo poi; si racconta che questo insigne maestro, una volta, stando in compagnia di colleghi a lui pari per dottrina, vedendo il giovane discepolo, lo avesse chiamato e, presentandolo, lo avesse indicato come la "grande speranza d'Italia".

Godette l'amicizia di Eleonora de Fonseca Pimentel, la poetessa, la giornalista che nei pochi mesi di vita della Repubblica Partenopea, interamente e da sola scrisse il famoso giornale "Il Monitore Repubblicano"; costei gradiva la compagnia e la conversazione dello studioso calabrese perché, oltre ad essere letterata, in tatto di scienze matematiche, fisiche e naturali, possedeva una conoscenza sopra del volgare. Ed ebbe familiarità anche con altri uomini illustri, primo tra tutti Mario Pagano, di cui si son trovati libri con dedica autografa al De Filippìs.

Tuttavia il fatto più importante di questo soggiorno napoletano è l'adesione del giovane matematico calabrese all'illuminismo. Questo movimento di pensiero, nato all'alba dell'età moderna, che preparò la rivoluzione francese, nel sostenere la fede assoluta nella ragione e nel respingere il passato come era di superstizione e di errore, affermava la necessità di riformare le istituzioni di una società ormai decrepita, voleva il progresso dei popoli, bandiva la fratellanza fra gli uomini, auspicava l'abolizione di ogni barriera e confine, perché tutti siamo cittadini del mondo.

A queste idee il De Filippis aderì con entusiasmo ad. esse impronterà più tardi il suo operato di ministro.

Ma c'era in lui qualche cosa comune a molti uomini del 7OO, c'era cioè uno spirito di inquietudine e di avventura che lo spingeva a muoversi, a viaggiare, a cercare nuove esperienze; Napoli, dopo qualche tempo, non dovette più soddisfarlo e trovò la maniera di allontanarsene.

I Borboni avevano fondato a Bologna un importante centro di studi, il. "Collegio Ancarano", che sostenevano a proprie spese; ad esso potevano accedere gratuitamente e per merito, i giovani nati nel regno, di buona famiglia intelligenti e capaci. Vi si insegnava legge, filosofia, matematica, medicina; vi si poteva rimanere non più di sei anni e, alla fine dei corsi, era conferito il dottorato, riconosciuto ed equiparato a quello delle altre università. Il De Filippis partecipò al concorso per i posti in questo Collegio, lo vinse brillantemente, si trasferì quindi a Bologna per perfezionarsi nella matematica e nella filosofia. Soggiornò nella città gli anni necessari per compiere il regolare corso di studi e per conseguire il dottorato; qui fu discepolo del celebre matematico Sebastiano Canterzani al quale si legò di duratura amicizia e col quale tenne una assidua corrispondenza che mai interruppe, nemmeno quando fu costretto a soggiornare nella. lontana Calabria..

Furono questi; anni di Bologna, per lo studioso calabrese, un periodo di lavoro intellettuale costante ed intenso; ampliò la sua cultura, approfondì questioni matematiche, si aggiornò sui più recenti ritrovati e scoperte della fisica, meditò severamente sui vari sistemi filosofici. Là sua personalità si arricchì, si completò; non è da dubitare che su questa esperienza poggerà successivamente la sua attività di scienziato e di filosofo.

Conseguito il dottorato, da Bologna sì portò a Napoli e vi rimase qualche anno cercando di ottenere un incarico o un ufficio che gli consentisse dì vivere e di poter ancora studiare; purtroppo i suoi tentativi fallirono; a corte non trovò terreno favorevole, i vari ministri non lo compresero o non lo seppero apprezzare. Ritornò pertanto a Tiriolo verso il 1777 e qui passò molti anni della sua vita; il Canterzani, scrivendogli, nel deplorare l'incomprensione della corte di Napoli, gli invidiava il "ritiro" nel luogo natio che gli avrebbe consentito di lavorare in perfetta tranquillità.

Fu verace profeta.

Nèl proprio paese dimorò circa dieci anni, fino ai 1787 cioè, e furono anni di fatiche aspre, di meditazioni profonde; là solitudine in cui viveva, la pace dei luoghi, la serenità dell'animo favorivano il suo lavoro: unico ristoro alla instancabile attività erano la contemplazione delle superbe bellezze, naturali e la conversazione con l'umile gente, incolta sì, ma di animo grande e di sentimenti primitivi e nobili; Sentì il bisogno di crearsi una famiglia a sposò una donna virtuosa e gentile, Rosalinda Stella, dalla quale ebbe diversi figli, alla cui educazione si dedicò con l'impegno di un padre veramente esemplare.

Ma il bisogno di evadere, la nostalgia di tornare alla città della sua prima giovinezza, ogni tanto lo attanagliavano e non gli davano requie; si recava allora a Napoli, rivedeva gli amici che gli facevano festa, si aggiornava sugli studi; erano tuttavia assenze dì poca durata, il richiamo della famiglia e del lavoro interrotto lo restituivano presto alla terra natale. Ed in un crescendo di amorevole fecondità, proprio in questo torno di tempo, scrisse le sue più importanti opere di filosofia, di matematica, di fisica, e cioè: "Corso di etica", "Scritti filosofici e metafisici", "Statica e dinamica", "Scritti di fisica e di meccanica".

Alla corrispondenza con gli amici e con gli uomini dedicava tempo e fatica; del resto per lui che viveva isolato in un piccolo centro, essere in relazione epistolare con gli studiosi di Napoli e di Bologna era una necessità; solo così, infatti, poteva dare notizia di quanto andava scrivendo o chiedere giudizi su quanto aveva scritto. Le lettere al Canterzani, in buona parte, avevano carattere scientifico-filosofico.

Si diffondeva intanto la sua fama; questo matematico-filosofo che, vivendo sperduto in un angolo remoto della Calabria, dava esempio di come sotto qualsiasi cielo si possa pensare, meditare, creare, attirava su di sé l'attenzione degli uomini di pensiero e di scienza: l'Accademia Cosentina dei Pescatori Cratilidi lo accolse trai suoi soci; la R. Accademia di Scienze e Belle Lettere di Napoli, sorvolando sopra ogni formalità, lo iscrisse, nel l779, tra i suoi componenti. Bologna lo chiamava a ricoprire una cattedra universitaria che egli rifiutava a favore di colui che era stato già suo maestro a Napoli; il canonico Gerolamo Saladini, e Caterina II di Russia l'invitava ad insegnare a Pietroburgo, ma le affettuose sollecitazioni dei suoi ed il lungo e disagevole viaggio che avrebbe dovuto intraprendere lo indussero a declinare l'invito.

Nei 1787 Don Giovanni Bianhi, valente medico e professore nel Real Collegio di Catanzaro, lasciava, perché avanzato in età, la cattedra di matematica che aveva tenuto con competenza ed onore; a succedergli nel posto veniva destinato Vincenzo De Filippis. Il ministro dell'epoca, Francesco Caracciolo, gli scriveva lestualmente: "Sua Maestà, avendo avuto favorevole rapporto non meno dei talenti di V. s. che dei suoi ottimi costumi si è degnata di conferirle La vacante cattedra di Matematica nelle R. Scuole di Catanzaro". Nelle parole del ministro napoletano c'è il pubblico riconoscimento, non importa. se tardivo, di quello che lo scienziato calabrese era nella realtà, e cioè uomo di grande talento e di costumi illibati.

Accettò l'incarico e si trasferì a Catanzaro; ebbe così inizio, per lui, quella attività di insegnante che, sebbene di breve durata, lo doveva tuttavia rendere noto ed apprezzato tra gli intellettuali del luogo per i tesori di dottrina che profondeva dalla cattedra. Si dedicò a questo ufficio con trasporto e zelo; spiegava e dettava le sue lezioni di matematica e di fisica, ma sentiva poi il bisogno di completarle, di arricchirle con conferenze ed esperimenti; non esitava perciò a sottoporsi ad un lavoro che andava oltre i limiti del dovuto.

Ed ebbe discepoli che lo amarono ed onorarono in vita e che, dopo la morte, lo ricordarono sempre con venerazione e rimpianto; tra i tanti ci basta citare solamente Giuseppe Poerio, il grande avvocato, il famoso giureconsulto, il patriota che, nel 1801, venuto da Napoli, ove aveva fissato la sua dimora, a Catanzaro, sentì il bisogno di portarsi a Tiriolo per visitare la famiglia del suo maestro. Ecco quanto egli scriveva alla sua futura moglie Carolina, a. proposito di questa visita: "Ho goduto un poco l'aria purissima d'un vicino paese, dove fui quasi educato, dove passai nella mia prima età anni istruttivi e deliziosi dove infine ho rinvenuto la vedova famiglia del più caro dei miei maestri. Se tu fossi stata presente allo spettacolo di quattro ragazze che mi abbracciavano, che mi accarezzavano, che mi chiamavano balbettando loro fratello, che mi domandavano il loro. padre, tu avresti pianto, o Carolina mia" La figura del maestro indimenticabile che gli aveva insegnato "Ad ora ad ora come l'uom s'eterna" accompagnerà Poerio per tutta la vita; ecco, infatti, quanto egli scriveva alla figlia del De Filippis Caterina, a distanza di molti anni, nel 1833: "io non dimenticherò che devo al fu vostro padre l'amore allo studio e la direzione della mia prima età". E più tardi, nel 1836, trovandosi a Catanzaro, a Vincenzo, nipote del martire, che rinnovava nel nome il grande avo, scriveva ancora: "mi sarei fatto un dovere di. fare una corsa a Tiriolo a ossequiare la vostra famigila e rivedere quei luoghi, quei libri che sono e saranno sempre per me una sacra e dolorosa reminiscenza".

E Carlo Poerio, figlio di Giuseppe, narrando la vita del padre, nel parlare dei maestri che questi aveva avuto a Catanzaro, tra gli altri, cita: "...quell'anima purissima di Vincenzo De Filippis che fu ministro dell'interno nella Repubblica Partenopea, e, quindi, consegnato al carnefica. Da quest'ultimo, nella età matura, mio padre soleva riconoscere un immenso benefizio: quello di avere appreso i principi della severa morale, della dignità umana ed il segreto della nostra misteriosa missione sulla terra"

Non sono, queste, piccole lodi o riconoscimenti di poco conto!

L'insegnamento tuttavia non Io distoglieva dagli studi diletti "continuò a lavorare con lena ed a questo periodo appartengono gli scritti: "Appunti di matematica e meccanica", "Meccanica", "Problemi di matematica, meccanica, dinamica", opere che hanno una palese relazione con quello che andava insegnando; in esse, forse, sviluppò quanto a scuola aveva trattato in sintesi, o forse, a scuola, sintetizzò quello che nelle opere aveva ampiamente svolto.

Da Catanzaro si recava spesso a Tiriòlo ove risiedeva là famiglia; il viaggio era lungo, piuttosto disagiato, monotono, ma il De Filìppis non sentiva la noia, inconsapevolmente si immergeva in meditazioni profonde e cercava, evidentemente, la soluzione di qualche difficile problema di matematica, se, come si racconta, a volte scendeva dal cavallo, disegnava sulla sabbia figure geometriche, scriveva numeri e stava a lungo a fissarli pensoso: la gente che gli passava vicino guardava stupita il professore e abbozzava un timido e rispettoso saluto.

La sua attività di insegnante durò esattamente sei anni, il 1793, infatti, chiese ed ottenne la giubilazione; pur essendo stato in servizio un periodo di tempo relativamente breve, gli veniva concesso, per i suoi grandi meriti, un. assegno di dieci ducati al mese. Le ragioni che lo indussero a lasciare là cattedra si debbono attribuire alle non buone condizioni di salute: soffriva di asma e di reumatismi che lo costringevano talvolta all'immobilità. Ritornò al suo luogo natio a vivere tranquillamente tra i monti e la sua gente, a ripigliare con più impegno gli studi; è di questo periodo il permesso concessogli dal Re per fare scavi di antichità nel territorio di Tiriolo.

Nel 1789, in Francia, scoppiava la Rivoluzione; borghesia e popolo, stanchi di una secolare oppressione, insorgevano contro là nobiltà ed il clero, le classi privilegiate, e proclamavano i diritti dell'uomo alla libertà e all'uguaglianza.

Là Rivoluzione che, agli inizi, poteva sembrare il necessario mutamento di un ordine sociale ormai decrepito, degenerò ben presto nella violenza, travolse la monarchia, fece massacro di nobili, calpestò la religione; là Francia, in preda al disordine ed all'anarchia, fu bagnata di sangue, suscitò con le sue mostruosità, l'orrore delle altre nazioni. Ma la tempesta rivoluzionaria, passato l'iniziale e inevitabile fanatismo, rientrò nei limiti, scomparvero demagoghi e tribuni, durature ed eterne rimasero solamente le idee che dovevano penetrate e diffondersi tra i popoli; Wolfango Goethe affermava che per il mondo cominciava una novella storia.

E' stato detto da qualcuno che, in molti stati retrogradi, le armi francesi avessero importato il nuovo ordine di idee, ma ciò non può essere accettato per vero; le idee non si importano con le armi, nè tampoco s'impongono; esse conquistano la ragione e fanno breccia nell'animo pacificamente ed i popoli le accettano e le fanno proprie se le ritengono giuste e se diventano sentite. Ed in Italia, precisamente così avvenne: prima delle armi francesi penetrarono le idee rivoluzionarie.

Napoli, nel decennio che va dal 789 all 799, fu veramente idoneo terreno ove l'ideologia rivoluzionaria, cadendo, germogliò e fece presa; viveva ed operava nella piena maturità quella generazione di intellettuali e di borghesi che, alcuni decenni prima, aveva aderito all'Illuminismo e che negli avvenimenti di Francia salutava con gioia il tramonto definitivo dei privilegi feudali e nei nuovi ordinamenti vedeva la nascita di una società fondata sulla giustizia, sulla uguaglianza, sulla libertà. Gli illuministi, come fu osservato, si trasformarono in giacobini e furono una folta schiera: furono scienziati, letterati, professionisti, ecclesiastici, studenti, uomini del popolo e si chiamavano Pagano, Girillo, Ciala, de Fonseca Pimentel, Serao, Russo, Conforti, De Filippis.

Il generale Championnet, mandato dalla Francia a guerreggiare in Italia, il 23 gennaio 1799 entrando vittorioso in Napoli alla testa delle sue truppe, proclamava di voler sostituire al distrutto regno borbonico un governo repubblicano libero ed indipendente; per raggiungere tale scopo non doveva che rivolgersi agli illuministi-giacobini; così fece e così nacque la Repubblica Partenopea, primo e grande esempio in Italia di coscienza nazionale, inizio glorioso del nostro Risorgimento. Furono chiamati a reggere le sorti del nuovo stato i vari Pagano, Girillo, Ciala, Conforti e via dicendo, uomini di alto intelletto e di sentimenti nobilissimi; tra questi fu anche Vincenzo De Filippis.

Si trovava a Napoli da alcuni anni; lasciato, infatti, l'insegnamento e ritiratosi a Tiriolo, il soggiorno nel paese natio fu di breve durata, perché presto si trasferì nella città della sua prima giovinezza, non sappiamo se dietro invito e premure di amici o se indotto dagli avvenimenti di Francia che in detta città avevano avuto larga risonanza. Forse fu l'una e l'altra cosa insieme, e non si può mettere in dubbio che la sua permanenza nella capitale borbonica risalisse al 1795, in quanto proprio in questo anno, il suo nome appare in una lista di prigionieri rinchiusi nei castelli ed in attesa di giudizio perché rei di attaccamento alle idee rivoluzionarie.

Non abbiamo particolari su questo avvenimento, sconosciamo anzi se vi fu un processo. Comunque è certo che egli, in questi anni, era tra i più accesi fautori delle idee venute di Francia, tra gli idealisti che aspettavano di vedere realizzato il nuovo ordine sociale, tra coloro che prepararono la caduta del vecchio stato e l'avvento del nuovo. E, venuti i Francesi, dato il suo passato di illuminista-giacobino, era naturale che, nata la Repubblica, fosse chiamato ad occupare in essa cariche e posti di responsabilità. Fu, infatti, messo a presiedere la commissione di vigilanza sulle casse di pubblica amministrazione e tale ufficio disimpegnò con competenza; di questo periodo abbiamo lettere e documenti da lui firmati, la cui dicitura si apre con i nomi di "libertà e uguagilanza" e si conchiude col detto "salute e fratellanza"; fece parte, altresì, della commissione legislativa dei venticinque.

Ma la sua carriera politica doveva culminare con la nomina a Ministro dell'Interno in sostituzione del dimissionario Conforti; in questo incarico fu di una attività instancabile.

Bisognava sostituire ad un regime di assolutismo un regime di libertà, ai vecchi ordinamenti. feudali bisognava far subentrare nuove leggi fondate sulla giustizia e sulla uguglianza e non era fatto di poco contò. Mario Pagano preparava, è vero, la Costituzione della Repubblica Napoletana che, purtroppo, per gli eventi seguiti, non doveva entrare in vigore, ma nel frattempo era compito dei vari ministri, e del Ministro dell'Interno in particolare, emanare disposizioni, norme che consentissero il funzionamento dello stato secondo il nuovo indirizzo. Vincenzo De Filippis seppe a ciò provvedere don solerzia e capacità e dell'attività svolta da lui si ha qualche eco nel giornale "lì Monitore Repubblicano" di Eleonora de Fonseca Pimentel.

La Repubblica Partenopea ebbe vita gloriosa, ma durata breve; nata nel gennaio del 1799, cadeva in maniera eroica nel giugno dello stesso anno.

Di questa rapida fine alcuni storici, e primo fra tutti il Cuoco, hanno indagato le cause e le hanno variamente individuate; è stato, infatti, affermato che la rivoluzione napoletana fu una rivoluzione di intellettuali e non di popolo, e da ciò il suo fallimento; è stato anche detto che i governanti furono degli idealisti illusi e non dei veri politici, e da ciò la loro debolezza; è stata, infine, a questi ultimi attribuita la colpa di non aver saputo approntare un esercito per la difesa e di non aver propagandato le nuove idee tra il popolo che, erroneamente interpretò il giacobinismo come eversore della religione è dell'ordine. Tutte vere queste cause; si potrà discutere quale più e quale meno contribuì al tragico finale della gloriosa Repubblica, ma non è da mettere in dubbio che furono proprio esse, nell'insieme, a determinare il crollo.

Ferdinando IV di Borbone che, da vero codardo, alla venuta dei Francesi aveva abbandonato Napoli, passato il primo smarrimento, da Palermo, ove si era rifugiato, decise di opporre alla rivoluzione la controrivoluzione ed a tanto designò il cardinale Fabrizio Ruffo; sbarcò questi in Calabria l'8 febbraio del 1799 e, nel volgere di pochi mesi, pervenne alle porte della capitale. Le principali tappe di questa memorabile marcia si chiamano Bagnara, Mileto, Monteleone, Catanzaro, Crotone, Cariati, Matera, Altamura, Noia; l'esercito, racimolato tra il basso popolo e detto dei Sanfedisti, dei difensori della santa fede cioè, era costituito da una accozzaglia di gente che nulla conosceva dell'arte militare, ma che, in compenso, era invasata da acceso e cieco fanatismo. E furono proprio le schiere di questi fanatici, non sempre tenuti a freno, che procurarono al cardinale Ruffo i rapidi successi e le vittorie di cui, in aprresso, egli doveva andare superbo; le schiere dei repubblicani, all'incontro, ridotte di numero e non sempre convinte della bontà della causa che difendevano, si rivelarono fiacche e facili a cedere.

Lo scontro finale tra gli uomini del Ruffo e le forze della Repubblica avvenne alle porte di Napoli, precisamente al ponte della Maddalena; i repubblicani si batterono con coraggio, ma, alla fine, furono costretti a cedere, sopraffatti dal numero. Tra i combattenti, soldato tra i soldati, era pure Vincenzo De Filippis.

Battuti al ponte della Maddalena, i Partenopei, a tentare l'estrema difesa, si ritirarono nei castelli Angioino, di S. Elmo e dell'Ovo; qui rimasero asserragliati per alcun tempo, decisi a vendere cara la pelle fino a quando non intervennero trattative e patti coi quali si stabiliva che gli assediati, capitolando, avrebbero avuto salva la vita e che ad essi, altresì, sarebbe stata concessa la facoltà di restare a Napoli o di imbarcarsi per Tolone.

I pani, però, sebbene consacrati da giuramento, non furono rispettati e non è qui il luogo di discettare se tale ignominioso spergiuro sia da attribuirsi al Ruffo, al Nelson o a Ferdinando IV; il fatto grave ed obbobrioso fu. che, tradita la fiducia da parte dei Borboni, i capi della caduta Repubblica furono imprigionati e successivamente processati e giustiziati.

La reazione borbonica, infatti, fu inumana, feroce.

Caddero sono le mani del boia, dopo un sommario processo, Domenico Cirillo, Mario Pagano, Francesco Caracciolo ed altra numerosa schiera di eroi; cadde pure Vincenzo e Filippis.

Anche lui, dopo la sanguinosa battaglia al ponte della Maddalena, si era ritirato nei castelli per l'estrema resistenza; aveva scelto, dopo la resa, la via dell'esilio, di imbarcarsi, cioè, per Tolone, e si trovava già in quella nave che stava ancorata nel porto pronta a salpare; ciò si ricava con certezza da una lettera scritta alla moglie ed ai figli, lettera nella quale, soprattutto, vivo e cocente si manifesta il dolore di non poter riabbracciare i familiari. Ma; in conseguenza della violazione dei pani, fu impedito che la nave partisse e coloro che vi si trovavano imbarcati e che ansiosamente aspettavano la liberazione furono tratti in prigionia.

Non sappiamo a quale carcere il De Filippis fu destinato; conosciamo però la durata delle sue sofferenze: cinque interminabili mesi. A queste sofferenze fisiche, aggravate dalla malferma salute, si aggiunsero quelle morali; la sua sventura, infatti, travolse anche la famiglia e, nel carcere, gli venne notizia che la sua casa di Tiriolo era stata saccheggiata ed arsa, che i suoi scritti, in gran parte, erano andati distrutti, che i suoi averi erano stati confiscati e che perfino una abbondante quantità di olio, che doveva essere venduta, era stata sequestrata dalla polizia borbonica.

Sconosciamo le modalità del processo; è da ritenere, tuttavia, che un uomo della sua levatura dovette tenere testa agli inquisitori e dovette altresì ribattere le accuse che gli venivano mosse; apparteneva, del resto, alla categoria dei Cirillo è dei Pagano, il cui contegno davanti ai giudici fu coraggioso e sprezzante e le cui risposte ad essi date rimangono tuttora memorabili..

Fu condannato a morte. i128 novembre 1799, unitamente ad altri sette, veniva impiccato in Piazza Mercato al cospetto di una folla di lazzari tumultuanti: scontava così la colpa di aver creduto in un alto ideale umano di progresso. .

Fu sepolto nella Chiesa di S. EIigio..

Vincenzo De Filippis fu cittadino esemplare, scienziato e filosofo, martire dell'idea.

Se del cittadino e del martire ci sono pervenute informazioni e notizie sufficienti per poterlo illustrare, non altrettanto può dirsi del filosofo e dello scienziato: per una fatalità ineluttabile i suoi scritti andarono distrutti o dispersi. Eppure sarebbe stato interessante conoscere la sua personalità sotto questo aspetto! Sarebbe stato interessante, non certo necessario, in quanto anche per quello che si sa, il De Filippis appare ugualmente grande e degno di lunga memoria.

 


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