“I «Promessi sposi» valdesi” |
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Una scrittrice
italiana narra, in un romanzo che ha fatto molto discutere, il rientro alla
loro terra dei profughi valdesi del XVII secolo. Un pastore rintraccia, in
quella che si presenta soprattutto come una storia d’amore, l’attualità della
vicenda valdese come storia di libertà.
Se qualcuno temeva che la celebrazione del “glorioso rimpatrio” avesse
degli esiti introversi ed etnocentrici, può essere pienamente rassicurato: questo
centenario, oltre a dar luogo a manifestazioni di massa di rara qualità [*2] ha catalizzato tre iniziative culturali
molto diverse l’una dall’altra, ma tutte di grande rilievo: un convegno
scientifico [*3] che ha spazzato via ogni residuo di
trionfalismo e di apologetica, uno straordinario spettacolo popolare [*4] in cui il “Gruppo Teatro Angrogna” ha dato
il meglio di sé e questo romanzo [*5]di Marina Jarre. Le tre iniziative non
erano tra loro coordinate [*6] ma i risultati sono sorprendentemente
convergenti: guardando lo spettacolo del teatro Angrogna, studiando le
relazioni del convegno storico (626 pagine!) leggendo il romanzo della Jarre si
prova la stessa sensazione, che riassumerei con una formula: attualità della
vicenda valdese.
Certo, questa attualità è suggerita dalla Jarre in un modo che può
anche urtare la sensibilità di qualche valdese. Tutta la prima parte è dedicata
a un vasto affresco della tragedia del 1686: i combattimenti, gli eccidi e le
violenze sono visti con gli occhi di una ragazza di tredici anni: Margherita
assiste (ma il romanzo lo dirà solo a pagina 99) alla scena in cui i soldati
piemontesi violentano sua madre e massacrano tutta la famiglia; poi partecipa
alla lunga fuga sulla neve, ai disperati tentativi di resistenza, e infine
all’esilio “con l’onore delle armi”: a Ginevra la accoglierà una famiglia
benestante che le darà affetto e cultura.
La seconda parte del romanzo è invece quasi tutta dedicata alla Torino
della Controriforma: c’è il Duca, al centro del potere; c’è la figura
affascinante di padre Valfré, vero perno spirituale della civiltà subalpina in
quel momento, e naturalmente ci sono gli ottomila valdesi che stanno morendo
nelle carceri piemontesi.
Il vertice di questo capitolo sta nell’udienza concessa dal Duca
a padre Valfré, il quale gli chiede due grazie: della minestra per
salvare le vite dei valdesi prigionieri, e l’allontanamento dei loro pastori,
per poterne salvare le anime: non si poteva cogliere meglio lo spirito della
Controriforma nella sua grandezza e, perché no, nel suo orrore.
A Torino, naturalmente, c’è anche Ascanio: giovane
cadetto di famiglia nobile e dal temperamento artistico sta cercando il suo
destino, e intanto si consola con qualche bella ragazza.
Ascanio (forse la figura più interessante del romanzo) sta
chiaramente al centro del terzo capitolo. I valdesi sono ormai rientrati alle
Valli, e stanno ricostruendo il loro mondo: tra di loro c’è anche Margherita,
una splendida adolescente fatta fiorire dai suoi amici ginevrini e regolarmente
promessa sposa a un giovane combattente valdese, che risponde al nome biblico
di Davide. Ascanio va a Torre Pellice a trovare degli scioperati nobilotti suoi
parenti, incontra Margherita nel più casual dei modi, e si innamora
della bella sconosciuta. L’amore è pero reciproco, e Margherita vive l’incontro
con Ascanio, calvinisticamente, come tentazione.
Il problema non è tanto la lealtà verso un matrimonio combinato,
come quello con Davide: il problema è la lealtà verso la propria identità
vocazionale, verso il mondo in cui è radicata. Ad Ascanio, che pur di averla
promette “mi faccio barbetto [*7] anch’io, tanto fa lo stesso”, Margherita
risponde pacatamente: “No, non fa lo stesso” (pag. 220); e nel momento in cui Ascanio
la bacia, lei rivede il soldato piemontese che violenta sua madre, e dice di
no: “era tutto finito, e lei era di nuovo la bambina che era salita correndo su
per i campi quel mattino del 1686” (pag. 244). E così, pur amando Ascanio,
sceglie il matrimonio con Davide: “Ascanio, lui, non era il suo sposo promesso:
lui non era che il suo amore” (pag. 233). E così questa toccante storia d’amore
s’interrompe con una duplice rinuncia: Margherita rinuncia ad Ascanio, Ascanio
rinuncia al suo status di nobile piemontese: passerà lunghi anni come artista
vagante, tra Venezia e le Alpi, tra le Alpi e l’Olanda (sempre consolato da
qualche bella ragazza, ma sempre col pensiero ai capelli biondi di Margherita),
finché una sua ammiratrice fiamminga non farà di lui, con discrezione, un erede
benestante.
Intanto, sono passati quasi vent’anni: Margherita ha sposato
Davide, che le ha dato tre figli. La prima, una bella bambina intelligente,
“crescerà” tanto da poter diventare moglie di pastore: uno status in cui
l’identità vocazionale e la “realizzazione” personale possono finalmente
coincidere.
Ma Davide è morto presto, combattendo, e Margherita si ritrova,
giovane vedova, con i figli cresciuti e il cuore pieno di rimpianti.
A questo punto ricompare Ascanio, e Margherita assume una
decisione sorprendente: Davide è morto da anni, i figli sono ormai lanciati
verso la vita, adesso Margherita può scegliere l’amore. Parte con Ascanio, si
stabilisce con lui in Olanda, rifiuta di sposarlo per non rinnegare la fede, ma
non si oppone a che il loro bambino sia allevato nella fede di lui. I suoi
figli sono gli altri, quei tre che vivono nelle Valli Valdesi: questo è figlio
di Ascanio, un figlio dell’amore.
A questo punto, il romanzo impone tutta la sua modernità. Siamo
ben lontani dalla pia vicenda manzoniana: siamo davanti ai nostri
problemi, sia pure ambientati tre secoli fa. Questo amore che spezza la vita in
tronconi diversi e tra loro incompatibili [*8] è ben l’amore che vivono e soffrono la
maggior parte delle donne e degli uomini di oggi: un amore che si muove tra gli
estremi della trasgressione [*9] e della rinuncia, senza mai
veramente risolvere il dilemma. E al lettore viene la voglia irresistibile di
riaprire il romanzo per cercare una soluzione. Ma la soluzione non c’è: né nel
romanzo, né nella vita: o almeno, non c’è ancora.
Non ho capito perché ad alcuni valdesi questo romanzo sia
piaciuto poco [*10] come poco è piaciuto il libro precedente [*11]. A me invece sono piaciuti moltissimo
tutti e due, e cercherò di spiegare perché: con Marina Jarre, è la terza volta
in cent’anni che uno scrittore italiano di rilievo si occupa dei valdesi. Il
primo è stato Edmondo De Amicis [*12] il quale ha saputo guardare i ricordi
delle Valli con lo stesso occhio con cui ha descritto i ragazzi di cuore:
l’occhio del socialista umanitario: “onore a te, nobile e bella Val d’Angrogna,
che negli annali della grande guerra per la libertà dell’anima hai scritto, col
sangue dei tuoi pastori, una pagina vittoriosa e immortale”.
Il secondo è stato Piero Jahier [*13]: un figlio di pastore [*14], che perde la fede, ma conserva l’amore
per le Valli, e la nostalgia per il rigorismo protestante: Jahier cerca Dio
senza forse trovarlo, ma sa che dietro di lui ci sono “le nonne calviniste con
i capelli lisci spartiti sulla fronte”, i pastori che facevano calare
“sull’assemblea genuflessa” l’invocazione sicura: “Notre aide est au nom de
l’Eternel”.
E ora, ad aiutarci a rompere quella cortina di paure e di
sospetti che ci separa interiormente da questa Italia che è pure la nostra
patria, viene Marina Jarre: ci presenta il mondo valdese come una democrazia
animata dalla fede e capace di aprirsi alle problematiche del soggettivo:
una storia che non si chiude di fronte all’amore. Certo, questa “democrazia
valdese” risulta un po’ spietata. Perché? Forse non lo è? Certo nei libri della
Jarre il rigorismo moralistico di noi valdesi risulta talvolta soffocante [*15]: ma scusate, non è proprio così?
A questo punto mi punge un sospetto: che Marina Jarre abbia il
sommo difetto di essere donna, di mettere in primo piano il soggettivo,
di vedere che la lotta è in contrasto con l’amore? Chissà se noi
valdesi, tragicamente isolati nella nostra ritrosia, riusciremo a perdonarle
questi difetti, e a capire che Marina Jarre, come De Amicis e come Jahier, ha
saputo vedere che i Valdesi fanno parte di una grande storia: la storia
della libertà; e, più di loro, ha saputo intuire che dietro questa storia
di libertà ce n’è un’altra [*16]: una storia con Dio?
Amici valdesi, ma cosa vogliamo di più?
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02/01/01
[ 1]Giorgio Bouchard: “I promessi sposi valdesi”, Gioventù Evangelica, 2/91
[*2]Vedi la raccolta dei “discorsi d’occasione”, pubblicata dalla Claudiana col titolo Tra ricordo e speranza, (Torino 1990).
[*3]Si tratta del convegno della Società di Studi Valdesi tenuto a Torre Pellice nel Settembre 1989. Le relazioni sono pubblicate in A. De Lange (curatore) Dall’Europa alle Valli Valdesi, Torino – Claudiana-SSV 1990.
[*4]“A la brua!”.
[*5]Ascanio e Margherita - Torino, Bollati Boringhieri 1990 (due edizioni in un anno).
[*6]Anche se vi sono stati contatti informali tra Marina Jarre e il Gruppo Teatro Angrogna, e fra questo e la Società di Studi Valdesi.
[*7]Valdese.
[*8]Lo stesso tema si trova, in forma più triste, nella Cassandra di Christa Wolf: Cassandra vive la sua quotidianità affettiva ed erotica con Pantoo, ma ama Enea, che è quasi sempre assente.
[*9]Credo sia Bataille che ha messo in circolazione il concetto dell’eros come trasgressione.
[*10]Ma le presentazioni di Roberto Peyrot e Massimo Rocchi sulla “Luce” sono state simpaticamente favorevoli.
[*11]I padri lontani (Torino - Einaudi 1987) rievoca l’infanzia e l’adolescenza dell’Autrice, largamente passate nelle Valli Valdesi.
[*12]Alle porte d’Italia, 1883.
[*13]Alludo soprattutto al suo libro autobiografico “Ragazzo”.
[*14]Il padre di Jahier, valdese d’origine, operava in una missione battista.
[*15]Soprattutto nei “Padri Lontani”.
[*16]Questo lo ha capito benissimo Massimo Rocchi, che non a caso è un “convertito” (metodista, per giunta): egli vede nella storia delle Valli rievocata dalla Jarre la storia di un confronto con l’Eterno.