MARINA JARRE

Introduzione a Negli occhi di una ragazza

 

Quando avevo tredici anni, mi capitava talvolta di annoiarmi in modo terribile. Poteva durare pochi minuti oppure qualche ora, a periodi anche un giorno intero. Mi annoiavo cosi totalmente da non ricordarmi neppure che poco prima mi ero divertita o che avrei potuto, un giorno o l'altro, divertirmi ancora.

Non che ci fossero molte occasioni di divertimento; niente televisione, la radio la si doveva spegnere alle nove di sera per economia ed io la ascoltavo di nascosto quando la nonna saliva al primo piano per dormire. Vivevo infatti in casa della mia nonna materna la quale, per fortuna, saliva a dormire piuttosto presto. Scendevo allora in quella che, chiamata sala da pranzo, era anche il soggiorno: unica stanza della casa, oltre la cucina, scaldata durante i giorni invernali da una stufa a carbone. La casa della nonna era in un paesetto di mezza montagna e la notte, d'inverno, gelava talvolta l'acqua nel bicchiere sul tavolino da notte.

Scendevo dunque, tutt'avvolta in una coperta, a passi cauti, fin nel soggiorno che si andava raffreddando e, accesa pian pianino la radio, ascoltavo un'opera di cui, se avevo fortuna, avevo reperito il libretto. Se non avevo il libretto, cercavo di capire quel che cantavano i cantanti, seguendo la linea generale della trama. Purtroppo in questi miei ascolti clandestini non mi riuscì mai di cogliere un'opera sin dall'inizio.

La domenica andavo regolarmente al cinema: non c'erano allora film vietati ai minori di anni diciotto. C'erano, però, genitori che vietavano ai figli di andare al cinema e cosi risolvevano la questione di quel che si poteva vedere o non vedere. La nonna mi lasciava andare al cinema e così, senza dubbio, accorciò di molto quelle rabbrividenti ore di noia di cui sopra. Andare al cinema significava infatti non solo vedere un film, ma anche aspettare di vederlo e, dopo averlo visto, ripensarci ed immaginare altre storie costruite con il materiale cosi raccolto.

Mi guardavo bene dal dichiarare ufficialmente la mia noia abissale. Annoiarsi era considerato un peccato piuttosto grave, «Io non mi annoio mai», diceva mia madre. E la nonna: «Se ti annoi, puoi fare qualche lavoretto».

Ora, i lavori che io potevo fare erano i più noiosi possibile: avevamo un grande orto da innaffiare, senza contare il giardino della nonna e, durante la guerra, le patate in fondo al prato. Tutto ciò si innaffiava con l'innaffiatoio: era sconosciuto l'uso del tubo di gomma, non so per quale motivo, forse perché considerato un lusso. Ma pazienza innaffiare, il peggio era spremere in un tovagliolo di lino le bacche di ribes per ricavarne un sugo raffinatissimo con il quale preparare la gelatina di frutta. Si trattava comunque sempre di fatiche subordinate, preparatorie di risultati il cui merito non andava mai a me: non vi ero, perciò, affatto interessata.

Meno che mai mi piaceva ricamare tovagliette, tanto più che le tovagliette che ricamavo a punto croce erano di regola le più orribili del mio gruppo di ragazzine.

Fare compiti evitava gran parte dei lavori — eccetto l'innaffiatura delle patate che era lavoro di sopravvivenza — e ricordo appunto che nell'estate in cui compii tredici anni, tradussi per intero non ricordo più quale libro del De bello gallico, guadagnandomi una certa pace, uno «spazio», si direbbe oggi.

— Perché non leggi? — mi chiedevano quando mi trascinavo in giro in quelle ore di sbadiglio.

Sciagurata domanda: non mi annoiavo forse cosi abissalmente proprio perché avevo letto troppo ed ero giunta a uno stadio di sazietà assoluta?

*


Leggevo molto, in tre lingue: tedesco, che era la lingua della mia infanzia, francese, che era la lingua che si parlava in casa della nonna e italiano, che era la lingua scolastica. Leggevo di tutto e, anche qui, mi lasciavano leggere di tutto. O meglio di quasi tutto: romanzi di avventure, drammi storici, tragedie in versi e in prosa, romanzi francesi dell'Ottocento e romanzi italiani del Novecento. Ero onnivora, anche se qualche libro lo divoravo a bocconi troppo grossi e dovevo poi digerirlo per parecchi anni di seguito, rileggendo quello che, nel primo impeto, avevo saltato qua e là.

Mi lasciavano dunque leggere quasi tutto, ma c'era un genere letterario che mi veniva concesso malvolentieri, mentre le mie amiche se ne potevano pascere senza impedimento. Si trattava dei cosiddetti romanzi per signorine («romanzi rosa» si chiamavano anche), malvisti in casa mia, soprattutto da mia madre. La nonna, che leggeva lei stessa innumerevoli romanzetti, aveva dalla sua che almeno li leggeva in inglese; quelli che le mie amiche mi imprestavano — mai e poi mai mia madre mi avrebbe dato i soldi per comperarmeli — erano tradotti in italiano da altre lingue. Non mi veniva proibito di leggere questa «cattiva letteratura»: però me ne era amareggiato il godimento con punzecchiature sul mio pessimo gusto e prese in giro sulle mie debolezze romantiche.

Questi romanzi trattavano, di solito, di ragazze povere e belle, che, dopo parecchie vicissitudini, tra cui immancabili umiliazioni da parte di ragazze ricche e superbe, sposavano il conte un po' tenebroso che, sulle prime, aveva fatto mostra di disprezzarle. In uno di questi romanzi, ricordo, il conte era un principe russo; in un altro, un giovane ingegnere minerario americano. Comunque fosse, a me il conte, il principe e persino l'ingegnere, piacevano moltissimo — il conte inglese un pochino più dell'ingegnere americano — e non mi stancavo mai di quelle vicende, le quali (ben diversamente dalle tragedie in versi) finivano sempre in un matrimonio.

E cosi finivano sempre in un matrimonio anche i romanzi (forse d'un «rosa» un poco più audace) italiani per signorine, in cui splendide ragazze erano sempre sul punto di cedere ad amori illeciti con giovani aviatori. Questi romanzi li leggevo soltanto se non avevo proprio altro da leggere. Non mi piacevano o perché disprezzavo quelle ragazze cosi indecise — ero per le situazioni nette, io — o perché l'attualità dei tempi e dei personaggi che si supponevano nostri contemporanei, rendeva le vicende del tutto irreali. Dove trovare giovani aviatori? E dove mai quelle bellissime ragazze? Le ragazze, oggi, mi sembrano tutte assai più belle di quanto non fossimo noi allora. Ai miei occhi eravamo tutte, chi più chi meno, appena passabili.

Nonostante la disapprovazione familiare continuavo a leggere romanzi rosa; anzi, non ne potevo proprio fare a meno, anche se sapevo di cedere a istinti riprovevoli. Che cosa c'è di più riprovevole d'un romanzo per signorine, un fotoromanzo si direbbe oggi? Avevano un bel alleviarmi la noia, i loro autori non stavano in nessuna storia della letteratura e inoltre c'era il dubbio che in realtà l'amore non conducesse affatto al matrimonio — fosse pure con un ingegnere minerario americano — ma alla rovina più nera, come appunto nelle tragedie in versi. Perché dunque illudersi pericolosamente sui romanzetti rosa?

I maschi, miei coetanei, non li leggevano. Leggevano Sandokan o Ventimila leghe sotto i mari. Neppure se lo avessero voluto, avrebbero mai osato leggere romanzi per signorine. Più fortunata di loro, mi era consentito leggere, senza essere presa in giro, libri «maschili», i quali, pur non essendo citati nelle storie della letteratura, non erano mal considerati. Per lo meno, si diceva, non portano a rischiose illusioni. Quasi non presentasse qualche rischio immaginare di pilotare sommergibili o di essere un pirata!

O forse i maschi, semplicemente, non immaginavano nulla? E il male stava nell'immaginare?

A loro, segregati nelle letture maschili, restava la consolazione che come molte attività femminili — eccettuate il partorire, l'allattare e il cucinare — la lettura di romanzi rosa fosse ridicola.

Quanto a me, che non potevo ancora né partorire, né allattare ed ero a malapena capace di eseguire i lavori più bassi, come, appunto, innaffiare le patate e lavare i piatti, talvolta mi balenava il dubbio che il mio unico lato femminile fosse appunto la mia propensione alla «cattiva letteratura».

*

 

Quando qualche anno fa una casa editrice mi propose di scrivere un libro per allievi della scuola media, mi ricordai innanzitutto di quel vuoto dei miei tredici anni, che riempivo di fantasticherie rosa e mi ricordai anche dei miei coetanei maschi confinati a leggere Sandokan. Niente storie d'amore, quelle riguardano soltanto le femmine!

E poiché non avevo perso il vizio di immaginare, incominciai a pensare a un romanzo che rappresentasse proprio la vita d'una tredicenne di questi tempi, d'una ragazza che vivesse nel quartiere di Torino dove insegno. A poco a poco essa prese forma e così intorno a lei la sua famiglia, i suoi compagni di scuola, le sue amiche.

La storia di Maria Cristina si svolge in pochi mesi: essa racconta come questa ragazzina, destinata dai suoi familiari e dal costume a divenire solo una donna, riesca a diventare innanzitutto una persona. Non perché sia intelligente o perché qualcuno la spinga a ciò, ma perché la vita stessa e una segreta capacità di riconoscersi con occhi suoi — e non con quelli degli altri — sia nei bellissimi disegni che nei rapporti con chi le vive accanto, la portano a uscire dal mondo delle cose.

Credo che questa vicenda possa interessare femmine e maschi in uguale misura, anche se è la storia d'una ragazza. Gli uni e le altre, infatti, devono in ugual misura confrontarsi con modelli loro imposti e decidere quali accettare e quali rifiutare.

I colleghi mi dicono che i nostri allievi non leggono e che in questo modo si è arrivati all'eliminazione automatica dei romanzetti di cattiva letteratura insieme ai romanzi di buona letteratura. Non solo, ma che il libro di narrativa letto nella scuola media rischia di essere il solo libro letto nella giovinezza.

L'aver scritto un libro per la scuola media è dunque una grande responsabilità. Vorrei, infatti, che, avendo letto la storia di Maria Cristina, i miei allievi sentissero il desiderio di leggere altre storie e che, soprattutto, capissero che non esistono specificatamente libri per ragazzi e libri per adulti. Tutti i libri dovrebbero essere adatti per tutti.

Proprio le peripezie di Negli occhi di una ragazza potrebbero dimostrare la verità di tale asserzione.

La casa editrice che mi aveva commissionato il libro, trovò da ridire sul linguaggio «eccessivamente libero» e mi propose di edulcorarlo. I miei protagonisti avrebbero dovuto, cioè, parlare e pensare all'incirca come Pinocchio oppure come Sandokan, il quale depredava navi inglesi ma non diceva mai «Cristo!»

Rifiutai l'operazione e il libro venne poi accettato e pubblicato da un altro editore — Einaudi, appunto — per adulti.

Ora esce finalmente per i lettori ai quali era destinato in origine. Il linguaggio e il dialogo sono rimasti tal quali (come lo è rimasto il libro), ma penso che ragazzi di oggi vi si riconosceranno.

Rileggendo il libro e pensando a quel che mi dicono i colleghi sulle scarse letture dei nostri allievi, mi parso opportuno introdurre, con alcune notazioni preparatorie e riassuntive, i singoli capitoli, perché non capiti ai giovani lettori quel che capitava a me, avvolta nella coperta nella stanza buia che si andava raffreddando: tra un gorgheggio e un a solo, un duetto e un coro, mancavo regolarmente i momenti culminanti dell'opera e mi accorgevo in ritardo e delle battaglie vinte e delle eroine trafitte a morte. Mi sembra che, accennando brevemente alla scena di ogni capitolo, si possa più agevolmente superare la lieve difficoltà della costruzione del romanzo, che non si svolge secondo un ordine logico o cronologico, ma segue le tappe, irrazionali e intuitive, delle scoperte di Maria Cristina in se stessa e negli altri. Ciò potrà interessare sia i maschi che le femmine, sia Giovannino con gli orecchini d'oro che Marinella con la giacca da gangster.

 

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03/01/01