TDM#61-Nov
1999
Carne da
sgombero
Inchiesta di
Massimo Acanfora
Il 7 ottobre
polizia, carabinieri e vigili radono al suolo baracche e
roulotte. Per chi ci abita neanche il tempo di mettere in
salvo le proprie cose. E adesso nessuno sa chi ha dato
l'ordine: la "tolleranza zero" tira il sasso e ritira la
mano
"Vigliacchi,
sono dei vigliacchi": un consigliere comunale inciampa nei
rottami ma non interrompe la litania. Via Barzaghi a Milano,
prati terrosi schiacciati tra il Cimitero maggiore e la
ferrovia. Qui avevano trovato asilo due gruppi di rom: 190
romeni e 50 kosovari. Il 7 ottobre, alle 9 del mattino gli
uomini della Questura, polizia e carabinieri con l'appoggio
della polizia municipale si presentano al campo romeno,
forti di una richiesta della Asl di zona che chiedeva di
sgomberare i rom per ragioni igieniche e contestualmente di
fornire loro un adeguato alloggio. Con le spicce gli agenti
invitano i rom, pochi uomini e alcune donne, a raccattare le
loro cose più importanti. Pochi minuti in cui solo
chi è presente può portare via i documenti e
qualche vestito. Poi la ruspa comincia ad abbattere:
roulotte schiantate e devastate con pale meccaniche e
cingoli. Sotto le macerie una decina di persone lasciano
importanti documenti. Un nomade chiede "Chi comanda qui?".
Il poliziotto gli mostra un coltello. Poi alle forze
dell'ordine scappa la mano: si spostano al campo rom
kosovaro e lo radono al suolo. Profughi fuggiti da guerre e
ritorsioni dell'Uck, in regola con la legge italiana
perché in attesa di asilo politico, perdono tutto per
l'ennesima volta.
La Caritas
definirà l'operazione "un errore". "Si sono
sbagliati" dicono a bassa voce tra le stesse forze
dell'ordine.
Ma errori ed
abusi tessono la trama di questo sgombero. Il campo dei
romeni non aveva il crisma dell'ufficialità ma le
autorità stesse avevano indicato ai rom, già
più volte sgomberati, questo terreno in cui
rifugiarsi. Tant'è che vigili sensibili avevano
installato due rubinetti e approntato quattro toilette
chimiche. La maggior parte dei romeni inoltre, circa 120 su
192, e tutti i kosovari hanno il permesso di soggiorno o la
ricevuta per il suo ottenimento (in base all'ultima legge di
sanatoria). Alcune roulotte distrutte erano di
proprietà e assicurate, benché, per il tronfio
linguaggio burocratico si trattasse solo di "rifiuti
speciali" da demolire; e soprattutto erano la casa di una
quarantina tra bambini e neonati, che da allora vivono in
baracche di fortuna, senza riscaldamento e alla mercé
dei capricci del tempo.
E infine i
"rifugi precari" dei rom, sempre prendendo in prestito la
lingua dei più forti, sono stati distrutti senza
alcun preavviso ufficiale, fatte salve voci informali che i
rom, a torto, hanno ritenuto infondate. Ma quel che colpisce
è che la paternità del blitz è stata
disconosciuta da tutti. Sintomo che, volenti o nolenti, si
è esagerato.
"Terre" si
è trovata di fronte muri di gomma e bocche cucite. Ma
alla fine la verità è venuta a galla.
L'assessore con delega all'Immigrazione Del Debbio nega di
essere stato informato: ottempera alla richiesta di
costruire un altro campo accanto a quello distrutto, e
dà mandato all'ufficio Stranieri di cercare nel
privato sociale, a spese del Comune, un alloggio per i
kosovari. La Questura, chiamata in causa dal suo stesso,
incivile operato, rifiuta di commentare in qualsiasi modo
l'accaduto. Ma un'ordinanza dell'Asl non basta a far
scattare uno sgombero. E quell'ordinanza, si scopre,
è passata in Comune: dal tavolo dell'assessorato
Ambiente e mobilità, che l'ha girata a sua volta
all'ufficio Stranieri. Ma non è dagli uffici di via
Tadino che parte l'ordine. E così, dopo ore al
telefono con funzionari reticenti o non autorizzati a dire
neanche buongiorno, diventa chiara una cosa: la decisione
dello sgombero è passata dal Comune di Milano, ed
è stata decisa a livello politico, quello che compete
alla Giunta o agli assessori. Non a caso il direttore
generale Fiore si ostina a negare che qualcuno abbia anche
solo avallato l'operazione e a scaricare ogni addebito sulla
Questura. E così fanno gli altri assessori, nel
più classico degli scaricabarile
D'altronde,
se Fiore dicesse la verità, significherebbe che la
decantata amministrazione della "sicurezza" non ha il minimo
controllo su quanto accade nel suo territorio e lascia che
la Polizia di Stato adoperi a suo piacimento i "ghisa" per
distruggere i beni di persone che non hanno commesso alcun
reato. Di più: che la Questura mobilita i vigili
senza neppure informare l'amministrazione. Nei telefoni
della polizia municipale suona "New York, New York":
è questa la "tolleranza zero" di Rudolph Albertini:
una politica che con il manto della legalità e il
pretesto della sicurezza pratica di fatto una versione poco
cruenta della pulizia etnica. Colpendo i più deboli e
ritirando la mano.
Nomadi per
forza
Viorel
è uno di quelli che abitavano in via Barzaghi. Lavora
da escavatorista e, ironia della sorte, tante volte ha visto
la sua casa distrutta da una ruspa. Lui e i suoi amici
vengono da Olt in Romania e da 4 anni sono in Italia: il
primo sgombero -racconta- lo subiscono pochi mesi dopo
essere arrivati, da una terra di nessuno vicino alla
stazione Garibaldi. Il successivo stanziamento, sempre
abusivo, è a poca distanza, in via De Castillia,
vicino alle aree dei circhi, ben visibile dalle finestre
degli uffici del Comune. In un paio di anni le loro baracche
vengono abbattute più volte. In un'occasione la
polizia distrugge e sequestra le roulotte acquistate dai
rom. Nel '98, dopo la festa in cui rivelano di essere rom,
le loro baracche vengono incendiate, una, due volte. Dopo
questi episodi i rom occupano una casa prima in via
Maroncelli e poi, nell'autunno '98, nella stessa via De
Castillia, chiedendo gli allacciamenti e di poter pagare un
affitto. Il 20 febbraio 1999 vengono messi per strada. Si
forma una tendopoli sotto gli uffici del Comune, in via
Melchiorre Gioia. Dopo manifestazioni e trattative vengono
invitati a spostarsi in via Barzaghi, campo che il Comune
stesso sistema. Dopo le ruspe e 15 giorni di pioggia e
freddo nelle baracche, la Protezione civile allestisce una
tendopoli in via Triboniano, cui però possono
accedere solo i rom in regola, con la promessa che saranno
assegnate roulotte o contanier. Durerà?
Cronaca da
un campo rom: intervista a Marco
Revelli
Marco
Revelli è professore di Scienze della politica
all'Università di Torino e consigliere comunale
indipendente di Rifondazione comunista. Nell'autunno del
1998 ha vissuto insieme ad altri in un campo rom alla
periferia di Torino, condividendo con la comunità
cibo, precarietà, ostilità di politici e
popolazione. Ne è nato "Fuori luogo", un libro che
è la cronaca di quei giorni. Abbiamo intervistato
Marco Revelli. Come succede che un gruppo di rom romeni si
stanzi alle porte di Torino? Un lungo percorso attraverso
l'Europa. Fuggiti dal distretto agricolo di Ialomita,
perseguitati e costretti, dopo la sedentarizzazione forzata
imposta da Ceausescu, a cambiare vita ancora una volta. Sono
scivolati lungo i confini dell'ex-Jugoslavia; in Francia
prima e in Spagna dopo, ma i muri di Schengen li hanno
rimbalzati fino a Torino. Nella primavera del 1998
l'ostensione della Sindone faceva da contraltare ai rom che
se ne stavano nascosti, nell'area più inospitale
della città.
Quando
è nata l'idea di vivere al campo?
Quando
è cominciato il freddo: quattro consiglieri comunali,
alcuni soci della cooperativa "Senza frontiere" e qualche
ragazzo dei centri sociali hanno cominciato a dormire nel
campo di corso Cuneo in un furgone: questo gesto rompeva la
separatezza, gli invisibili diventavano più visibili.
E qualcosa si è mossa, ma nessuno ha preso in
considerazione l'idea più ragionevole: quella di
ospitarli in piccoli gruppi nelle scuole dismesse. Tanto
poteva la paura dei comitati di quartiere e il retropensiero
di ogni amministrazione, di destra o di sinistra, che non
bisogna mai creare un precedente. Così come, per
motivazioni simili è stato negato loro, contro la
logica e i precisi rapporti sulle persecuzioni subite, il
diritto d'asilo. Vivere in un campo rom cambia la propria
visione del mondo? Non avevo mai visto un campo da dentro, e
se non mi fosse capitata questa esperienza avrei continuato
a passarci davanti senza conoscerli mai. Poi, una volta
dall'altra parte, ho potuto vedere noi e il nostro mondo
dalla prospettiva degli ultimi e constatare tutta la sua
durezza e impenetrabilità. Da un campo rom si vede
bene il nostro grado d'inciviltà.
Che
persone ha incontrato?
Ci si
potrebbe immaginare che chi vive in una tenda canadese e fa
ogni mattina due chilometri per riempire una tanica d'acqua,
con 4, 5, 6 bambini piccoli, conduca una vita tetra e senza
relazioni. Eppure anche in quei luoghi si vivono rapporti
umani intensi, momenti di gioia condivisa. Questa apologia
del sorriso dei rom mi è costata molte critiche. Ma,
senza offesa, gli impiegati della Fiat non esprimono
altrettanta felicità. Quali sono i cardini della vita
rom?
Potrei
raccontare dei bambini, che sono il centro della vita del
campo. Sono molto numerosi, stanno sempre insieme a gruppi e
partecipano ai lavori. Chi dice che gli zingari sfruttano i
bambini usa la logica di chi sorvola dall'alto e giudica. La
cosa è ben più complessa: forse la vita dei
bimbi rom non è meglio di quella dei nostri figli, ma
sono rispettati, non trattati come merce.
E la
vita al campo?
Il momento
comune è intorno al fuoco: qualcuno porta un fascio
di legna, si forma un cerchio e si parla. Si riusciva a
comunicare perché chi poteva si faceva traduttore. Un
bambino parlava il francese, altri l'italiano o si
integravano i messaggi verbali con i gesti. Un'altra
occasione di incontro sono le assemblee per prendere insieme
una decisione.
Perché
si rifiuta lo "zingaro"?
Per la
potenza degli stereotipi: questa comunità rom
è lontana anni luce dai luoghi comuni sugli zingari:
qui nessuno ruba, rifiuta di vivere in una casa di muratura
o di mandare i figli a scuola. Ma nessuno riesce a cogliere
le differenze. E non parlo di persone poco istruite ma di
gente di alta cultura. Il nostro "individualismo possessivo"
fa sì che gli altri diventino uno stereotipo
collettivo. E sì che uno dei romeni faceva il tecnico
in una centrale nucleare.
Come
si è conclusa questa vicenda?
Con la
deportazione di 50 fra gli irregolari e la distruzione del
campo. Gli altri si sono dispersi nell'aria. Queste sono
comunità leggere, che non oppongono resistenza. Del
resto ogni volta che si sono irrigiditi hanno perso. Molti
sono ritornati in altri campi nomadi, alcuni sono andati in
Inghilterra o tornati in Romania seguendo le filiere dei
gruppi familiari. Chi è rimasto come clandestino si
nasconde per non rischiare la sottrazione coatta dei figli.
Perché la verità è questa: siamo noi a
rubare i bambini.
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