TDM#66-Apr
2000
Tenere in
piedi la baracca
Inchiesta di
Massimo Acanfora
Gli
inquilini delle baracche sono stranieri quasi sempre privi
del permesso di soggiorno e di un lavoro in regola. Diverse
generazioni di immigrati si sono avvicendate nelle
"baraccopoli"; gli ultimi arrivati hanno sostituito chi ha
trovato sistemazioni migliori. Romeni, ucraini, moldavi
hanno preso il posto di albanesi e magrebini. Difficile
valutare quanti siano gli insediamenti e il numero di
persone che li abitano, anche perché spesso gli
stranieri si disperdono, spazzati via dalle ruspe comunali o
private, come a Greco o in Bovisasca. Le baraccopoli sono
però almeno una decina solo nell'area urbana di
Milano e si può stimare che i loro abitanti siano
nell'ordine di molte centinaia. In maggioranza giovani
uomini in età lavorativa, ma anche famiglie dell'Est
europeo. Le baracche sono costruzioni rudimentali, abbozzate
con materiali di recupero: assi da ponteggio, pezzi di
lamiera e di ondulato, vecchie persiane e tapparelle ne
costituiscono l'ossatura. Il tetto è spesso coperto
da grandi pezzature di materiale impermeabile. Le
baraccopoli spesso sorgono nelle "terre di mezzo" tra
città e campagna, ma anche in piena città. Nei
pratoni tra le fabbriche, lungo le tangenziali, le aree
prossime o interne a fabbriche dismesse, a fianco di corsi
d'acqua, talvolta confuse ai capanni degli orti abusivi.
Mancano le più elementari risorse: acqua corrente,
elettricità, servizi igienici. I rifiuti si
accumulano perché l'azienda di nettezza urbana si
rifiuta di ritirarli. Gli sgomberi, che trovano base
soprattutto in provvedimenti dell'Asl e interessi dei
privati sulle aree in questione, comportano spesso
distruzioni indiscriminate e la notifica del decreto di
espulsione dall'Italia, l'anticamera di campi come Corelli.
Dal '90 Milano ha perso circa mille posti di accoglienza per
stranieri. Restano aperti solo due centri comunali, quelli
di via Giorgi e via Novara, capaci di un centinaio di posti,
riservati peraltro a immigrati in regola.
Capanna
doppio affaccio
La
collinetta ha da un lato la "vista ferrovia" e dall'altro la
"vista cimitero" e un paio di baracche hanno anche il doppio
affaccio. Che volere di più? Sul crinale una stradina
si incunea tra i piccoli orti abusivi. I depositi di vanghe
e recipienti e le reti negano alla vista i terrazzi che
digradano da una parte e dall'altra. Accanto alla recinzione
che delimita la massicciata ferroviaria tavolacci di legno e
oggetti sui quali sembra che sia passata una ruspa. Appunto.
Le rovine dell'ultimo sgombero. Alcune baracche, forse
collocate su un versante troppo impervio per i cingolati,
sono state risparmiate. "Sono venuti il 15 febbraio
-racconta Yuri, 27 anni, con un buon italiano- e hanno
buttato giù tutto". Sulla porta della sua baracca
campeggia il poster di Andrej Shevchenko. Un ucraino che
segna senza chiedere permesso (di soggiorno). E invece Yuri
e gli altri sette connazionali che vivono con lui devono
giocare in difesa. Anche perché il giorno dello
sgombero li hanno portati in Questura, consegnandogli il
foglio di espulsione, un cartellino rosso secondo il quale
in 15 giorni devono volatilizzarsi. Ma né Andrej
né Natasha, che striglia i panni in una tinozza,
intendono obbedire a quest'arbitro troppo fiscale. "Qui
nonostante tutto riusciamo a cavarcela -quasi si scusa Yuri-
Io lavoro in un cantiere e anche se i soldi sono pochi sono
contento". La vita di tutti i giorni però è
scomoda. "L'acqua per cucinare e lavarci andiamo a prenderla
alla fontana". Niente elettricità? Un'idea
illuminante. "Ci facciamo mettere in carica per poche lire
delle vecchie batterie di auto e abbiamo luce per due o tre
settimane. Per riscaldarci invece usiamo una cucina a gas
con la bombola". Pericoloso ma necessario. Dove siano finiti
quelli, alcune decine, a cui han distrutto la baracca, non
è dato saperlo. L'insediamento è multietnico,
cosa rara nelle baraccopoli, divise di solito per
nazionalità. In basso, sotto il livello della strada
vive una famiglia di peruviani, in cima alla collinetta
invece alcuni magrebini. Ma non solo. "C'è nessuno?"
Olga spunta da una verandina dove si sente sfrigolare
qualcosa. La sua baracca dà un senso di
dignità. E' una delle poche che ha una sorta di
finestra di plexiglas che le dà luce. Olga sorride
con tutto il metallo che un dentista moldavo le ha regalato
e parla piano. "Io e mio marito siamo arrivati in Italia da
un anno e tre mesi con un pullman -ricorda-, siamo entrati
grazie a un visto turistico e adesso speriamo ci diano il
permesso di soggiorno. Abbiamo lasciato i figli in
Moldavia". Si illumina mentre racconta di avere un maschio e
una femmina. "Mio marito lavora per le cooperative, io
riesco a fare qualche lavoretto in casa di italiani". E
pensate di far venire qui i vostri bambini? "Chi può
dire?", risponde Olga. Poi si scusa e corre dentro, a girare
il sugo.
Serata a
Campazzino '93
Molte
baraccopoli sorgono in estrema periferia, sotto lembi di
città che bisogna sollevare: terre di nessuno dietro
alle ferrovie, vicino ai cimiteri, negli strappi di campagna
tra una fabbrichetta e l'altra, miste agli orti abusivi.
Più raramente si ritagliano un angolo di città
consacrato all'abbandono. Stasera ne visito una con Fabio
Parenti, volontario del Naga (vedi a pagina 5). Fabio ha
disegnata una mappa mentale delle baracche ma mi chiede di
mantenere il riserbo sui "siti" ancora poco noti,
perché negli ultimi tempi è stato dato un giro
di vite: "Avevamo censito almeno 11 luoghi con presenza di
immigrati, ciascun insediamento aveva una consistenza tra le
40 e le 200 persone. Ma quando sono tornato per concordare
quando far venire i medici, alcuni erano stati abbandonati o
distrutti: così in gennaio le baracche della
Bovisasca, miste agli "ortolani" abusivi. Questo significa
che la tendenza è quella di disperdere e allontanare
sempre più fuori dall'area urbana immigrati e rom".
Sono le
21.30. Le prime baracche compaiono tra gli alberi di uno
sparuto boschetto. Questo insediamento esiste dal 1993, ma
gli ultimi arrivi risalgono a un mese fa. "Molti siti
-spiega Fabio- hanno un grandissimo turnover. In 15 giorni
cambiano completamente gli abitanti". Entriamo nel prato, un
grande cerchio circondato da baracche, come in un surreale
villaggio vacanze. Chiediamo di Lazar, e veniamo subito
accompagnati. Lazar è già a letto ma si alza.
Se è scontento di questa resurrezione forzata non lo
dà a vedere. Si forma un capannello che discute a
lume di candela. Sono tutti uomini albanesi dai 16 ai 50
anni. Facce di lavoratori quasi tutti in nero. C'è
Semir, che vive qui dall'inizio, dal 1993, e ha un figlio di
un mese che non ha mai visto. "Di che cosa avete bisogno?"
"Luce e soprattutto docce", rispondono. Per prendere l'acqua
dobbiamo farci due chilometri a piedi". Qualche volta ci
laviamo i piedi nella roggia, ma abbiamo paura, ci sono dei
topi grandi come gatti". Risate. "E poi abbiamo bisogno che
ci danno i documenti che aspettiamo -insiste Semir-. In
questura non sanno mai niente". In altri casi l'ottimismo
sfiora il paradosso: "Io qui sto bene- sostiene Bogar- Io
sono nato in campagna, come tanti altri di noi, sono
cresciuto con i piedi nudi". Alla faccia dell'umido che ti
penetra nelle ossa. Le canne che escono dai tetti parlano di
stufe a legna. E i rischi? "Qualche volta la polizia viene
qui -ci dice Lazar- ma non abbiamo paura perché siamo
tutti puliti". Fabio conferma: "Chi vive in un'area dismessa
o in una baraccopoli non fa attività illegali. Chi
delinque spesso vive in casa e ha il permesso di soggiorno,
magari comprato". Alcuni sono arrivati come clandestini su
un traghetto, altri con i gommoni e i pescherecci. Bogar ha
fatto così. "Eravamo 200 su un peschereccio,
cacciavamo la gente da un lato all'altro della barca per non
affondare".
"E quanto
avete pagato?" "Niente, il peschereccio l'abbiamo fregato".
Qualcuno ci invita a non fare chiasso. Alcune persone vanno
a dormire presto perché si alzano verso le 4 per
andare a scaricare frutta e verdura 8 ore per 70 mila lire a
giornata.
La
fabbrica di speranza
Una
porticina di ferro conduce in uno sterpeto ingombro di
rifiuti. Fabio è già stato qui e mi conduce su
sdrucciolevoli scale ingombre di terra. Le mura in mattoni e
il residuo tetto dell'ex-fabbrica sembrano pronte a
sgretolarsi. È rimasta integra solo la struttura,
come lo scheletro di un cetaceo o di un vascello. Al primo
piano, incastonate negli spazi più solidi una decina
di baracche, quasi tutte chiuse con il lucchetto. Al secondo
piano un ragazzo albanese riposa sulla branda, alla luce di
una miracolistica lampadina, appesa al nulla: ci spiega che
sono tutti a lavorare. Fabio gli dà appuntamento alla
sera stessa. Usciamo camminando in uno stretto corridoio:
tutto intorno le tracce dell'uso di questo spazio come
toilette. Sulla porta incrociamo due ragazzi del Marocco:
uno dei due, saputo che verranno dei medici chiede con lo
sguardo triste: "Posso chiedergli se c'è una
comunità che può prendermi. Voglio
smettere".
Due cuori,
un'area dismessa
Hanno subito
sgomberi e attentati incendiari, hanno dovuto lasciare
abitazioni sfitte, le forze dell'ordine gli hanno distrutto
più di una volta roulotte e baracche. La loro storia
assomiglia a uno stradario: via De Castillia, via
Maroncelli, via Sebenico, via Barzaghi, via Triboniano. Ogni
via, uno sgombero. Alla fine alcuni di loro, romeni, molti
dei quali di etnia rom, hanno preferito smettere di fare da
bersaglio grosso all'intolleranza dei cittadini e
dell'amministrazione e si sono dispersi sul territorio.
Virginia e Lucas invece sono rimasti uniti e da più
di un anno occupano silenziosamente un'ex-fabbrica in una
zona popolosa e vivace di Milano. Fa buio quando entriamo
nell'androne dell'edificio, due piani di cui il secondo col
tetto scoperchiato: "E' la tecnica, illegale, che adotta il
Comune quando vuole far andare in rovina una struttura senza
spendere troppo di demolizione", ci spiegano. Niente
elettricità, niente acqua. Qui vivono una quindicina
di persone. La stanza di Virginia e Lucas è pulita e
dignitosa, illuminata da una candela. "E la tv?", chiedo.
Funziona con un generatore. Paradossi. Un bell'armadio
nell'angolo, il letto rifatto e sopra gli orsacchiotti di
Viorel. Già Viorel, ha un anno e mezzo, è
bellissimo come la sua mamma, sgrana gli occhi e ride."Io
non posso lavorare -spiega lei- anche perché il
bambino senza permesso di soggiorno non l'accettano al
nido". Non è certo un ambiente da bambini:
l'umidità che viene da sopra si sta mangiando il
soffitto, nonostante la stufa a legna. Lucas ha i capelli
bianchi, non tanto per canizie precoce ma per la vernice e i
rulli. Lavora quando riesce in attesa del permesso di
soggiorno. Trova la voglia di fare spirito: "In Ruanda di
sicuro stanno peggio". Ci fanno visitare le altre stanze, la
cucina. I panni stesi in un immenso stanzone nella luce
fioca sembrano fantasmi. Gli altri abitanti sono nel
bergamasco a lavorare in nero nei cantieri. Il soffitto
incombe. Ma ancor di più l'ennesimo sgombero. "Tra 20
giorni buttano giù tutto e ci fanno un parcheggio". E
non c'è Viorel che tenga.
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