TDM#62-Dic
1999
Donne
senza un tetto
servizio di
Massimo Acanfora
Le chiamano
"plastic bag ladies", le signore con le borse di plastica,
per il loro girovagare gravate di sacchetti. Ma cosa ci
tengono dentro? Conservano dimissioni dall'ospedale
psichiatrico; o una famiglia spezzata da un abbandono, una
fuga, una separazione, la violenza. Tengono i figli avuti da
ragazze madri, mai visti o portati via da famiglie
più "normali" o solo più ricche. O il retaggio
di giorni passati a prostituirsi. Stipano anni e anni di
lavoro duro ma nero, senza pensione se non quella sociale o
l'invalidità, sotto il minimo vitale. E uno scacco
sul mercato del lavoro domestico, battute sul prezzo dalle
donne straniere. Le più giovani portano come fardello
la loro tossicodipendenza, anche senza sacchetti. Per loro
fortuna le donne abbandonano la loro casa più
raramente degli uomini, per la presenza dei figli ma anche
per un tenace istinto di sopravvivenza. Quelle che ormai
l'han persa la portano con sè nei sacchetti, sotto
forma di cibo e cose personali. Proprio come chiocciole.
I
dati
Le donne
senza dimora sono quasi sempre persone isolate. Ma quante
sono? A Milano il Servizio accoglienza milanese della
Caritas ascolta ogni anno un migliaio di persone e meno d'un
quarto sono donne, al Dormitorio pubblico i 50 posti del
femminile (su 500 totali) hanno spesso qualche vuoto. A Roma
i vigili hanno censito per strada 45 donne italiane e 130
straniere su circa 2000 persone in totale. A Torino
l'associazione Bartolomeo & C, che opera alla stazione
di Porta Nuova segnala che le donne senza dimora sono l'8
per cento. Brescia arriva al 10 per cento, a dimostrazione
che le dimensioni della città non cambiano il
prodotto. A Genova le donne che si rivolgono ai maggiori
servizi per senzatetto sono circa il 6 per cento e il centro
di ascolto "Monastero" registra il 14 per cento di utenza
femminile. A Napoli le ospiti del dormitorio sono circa il
25 per cento del totale. E anche se i dati sulla popolazione
senza dimora vanno sempre presi con le molle si può
affermare che l'altra metà del marciapiede non
rappresenta, in Italia, più del 20 per cento delle
persone senza dimora .
Storie
d'amore: Natascia
"La gente
perbene non capisce, si vede da come ci guarda". Natascia,
56 anni e nome in prestito, confronta il suo cappotto
striminzito con la mia giacca vinta coi punti dei biscotti e
mi individua subito come suo complice. "Intendo dire la
media borghesia", dice e si siede con fatica. Non si toglie
nulla, anche se la temperatura in questa saletta dei
Ricoveri notturni di Milano glielo consentirebbe. Abitudine
presa nelle lunghe notti alla stazione centrale di Milano.
E' scesa da un treno che veniva da Torino 8 anni fa. "Sono
uscita dalla casa dove vivevo da 10 anni con il mio uomo. Ho
detto che andavo a prendere le sigarette e non sono tornata
più. Non avevo un bagaglio, solo una gran fretta che
il treno andasse, che partisse. In viaggio mi ripetevo come
farò, come farò? Ma le botte duravano da
troppo tempo. Aveva tutti i vizi possibili ma ero
innamorata". Parla con proprietà e scilinguagnolo
sciolto, eredità del suo mestiere, lettrice di
tarocchi: "Ma con me non hanno mai funzionato" si rammarica.
Muove le gambe con meno facilità della lingua. Colpa
dell'osteoporosi. Natascia punge con gli occhi e si ravvia
per un attimo il biondo corto sotto il cappello. "I miei
guai sono cominciati con l'amore. Il mio primo figlio, che
adesso ha 36 anni, è stato proprio un figlio
dell'amore. Stavo insieme a un mio coetaneo da quando avevo
15 anni. Quando sono rimasta incinta ho desiderato questo
figlio con l'incoscienza che potevo avere a 20 anni. Lui
invece non l'ha voluto riconoscere, anche se quando era
più grande ha preteso di dargli il suo nome". "Molti
uomini si assomigliano", aggiunge secca Natascia. Non erano
tempi facili per ragazze madri: "Odio le suore: per giorni
non mi han fatto vedere il bambino. Mia madre è corsa
all'ospedale in pantofole per evitare che dessero in
adozione il suo nipotino: ma a parte questo mi ha sempre
disapprovata". Natascia salta anni di ciripà e
fatica. "Un bel giorno ho deciso che dovevo sposare una
persona matura. Ne ho trovata una con cui stavo bene e che
mi amava, un uomo tenero anche se lavorava in miniera. Aveva
un solo difetto, ma grosso: era un 'ciucchettun'. Con lui ho
avuto due figlie. La seconda è venuta come una
'disgrazia', proprio mentre stavo per separarmi da lui; ho
pure rischiato di morire dopo il parto. Nessuna delle due
è rimasta con me, una è stata subito affidata.
Ma non mi pento della separazione, quando era ubriaco non
potevamo proprio capirci". Per un po' Natascia se la cava da
sola, predicendo il futuro. Ma non prevede l'ultimo amore,
durato 10 anni e portato via dall'ennesimo schiaffo. E si
riparte dalla stazione centrale: "La libertà si paga.
Dopo la mia fuga sono rimasta più di un anno per
strada. Non conoscevo Milano. Ho imparato pian piano
dov'erano le mense dei frati e delle suore, a cui devo dir
grazie per la mia colite, e gli altri servizi che potevano
darmi una mano". La vita di strada richiede di corazzarsi.
"In stazione tanta gente cerca quella che ci sta. La cosa
che fa più paura in strada? La violenza. La cosa
più difficile invece è riuscire a dormire".
Mesi di colletta per poter far la doccia finchè, in
modo casuale, è passato uno di quei salvagente che
consentono di non affondare del tutto. Le donne spesso sanno
afferrarvisi meglio e più prontamente degli uomini.
"Un volontario che portava i pasti in stazione mi ha
convinta ad andare al 'dormitorio' -spiega Natascia- da
allora ho fatto dentro e fuori a seconda del lavoro che
andava e veniva". Il primo impatto con il dormitorio
è stato duro. Poi ho trovato altre donne, amiche con
cui tenersi compagnia, litigare, tenere il muso. Solo che
qui sono tante quelle fuori di testa. Adesso tiro avanti con
un piccolo sussidio in attesa della pensione". E non ha mai
pensato Natascia di riuscire a risalire la china? "E'
difficile tornare indietro: non solo per gli affitti alti,
ma anche per la volontà, che può mancare
-Natascia si smarrisce- ... la paura di sbagliare.
Soprattutto quando non hai l'appoggio della tua famiglia.
Tante volte, girando per la Centrale ho dovuto voltare la
faccia di fronte a persone che conoscevo, prima. E non
voglio che mio figlio sappia dove sono". Natascia ha fatto
domanda per la "casa popolare" e adesso aspetta. "Ho una
faccia per il giorno e una per la notte. Quando vado a
letto, dopo una giornata nera e penso alla mia casa, ci
scappa anche una lacrima". Quando mi sveglio vado tutta sola
nel 'mio' giardino; è il mio pensatoio. Penso che
quando avrò una casa racconterò tutto questo a
mio figlio, il mio preferito. Per lui, ho sofferto tanto".
Pausa. "Però lo rifarei, lo rifarei un'altra volta".
Lucia
Lucia ha una
casa, anzi due. Ora fa capolino dalla sua dimora diurna:
come le case dei bambini fatta con due sedie, un tavolo e
una coperta, così Lucia, in un angolo del salone
della Cardinal Ferrari ha costruito la sua culla, dove sta
coricata molta parte del giorno e qualche volta anche la
sera, finché non va alla ricerca di qualche portico
riparato. L'altra dimora è una casa popolare: Lucia,
55 anni, ci ha abitato con l'uomo che amava, finché
lui non è morto. L'imprevidenza e la sfiducia nella
burocrazia, ha fatto sì che nulla sancisse la
convivenza. Così la figlia del suo uomo ha preso
possesso dei locali. Lei è rimasta senza casa
né pensione, perché ha sempre lavorato come
cameriera in nero. Ora Lucia si ostina a non chiedere
un'altra casa. Vuole quella, perché dentro c'era il
suo amore. Nessuno potrà mai dire se la sua
testardaggine è mera asocialità o un modo di
dire "ti amo".
Lorena
Lorena ha
passato una vita sotto sfratto. Prima buttata fuori di casa;
poi dalla sua baracca sotto i ponti di corso Francia,
demolita insieme a tante altre. Aveva ricostruito un altro
simulacro di casa nei giardini che affacciano sui Fori: uno
spazio per dormire riparato alla meglio sotto un telo di
plastica, i vestiti appesi sotto un albero, damigiane
d'acqua per lavarsi e perfino le piantine aromatiche. Con
400 mila lire al mese di pensione d'invalidità, c'era
poco da scialare e Lorena, 55 anni, si è affidata
come tanti alle mense e ai guardaroba. Finché il
Comune di Roma, con la delibera 163 dell'inizio 1999, ha
istituito un contributo economico per l'affitto mensile,
fino a un milione al mese per al massimo quattro anni,
destinato a chi aveva subìto uno sfratto. E proprio
Lorena, dopo 5 anni di strada, è stata la prima ad
usufruirne. Com'era giusto.
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