TDM#51-Gen
1999
Dicembre
1999: in missione di pace a
Prishtina
di Massimo
Acanfora
Il 9 e 10
dicembre 217 persone della manifestazione "I Care!" sono
arrivati a Prishtina per affermare i diritti umani, nel
50° anniversario della Dichiarazione universale. In
Kosovo, regione per il 90 per cento di etnia albanese, il
governo serbo ha imposto un regime di polizia, discriminando
gli albanesi e negando loro i diritti più elementari.
Dopo anni di resistenza non violenta da parte del popolo
kosovaro, si è arrivati allo scontro armato con
l'Uck, l'esercito di liberazione del Kosovo. L'inverno ha
segnato una fragile tregua, peraltro già infranta. "I
Care!", organizzata da "Pax Christi", "Beati i costruttori
di pace", "Papa Giovanni XXIII" e altre associazioni
pacifiste ha incontrato tra gli altri il Parlamento kosovaro
albanese e quello serbo, studenti e insegnanti di entrambe
le etnie, mass media, organizzazioni umanitarie. Momento
culminante dell'iniziativa, cui hanno partecipato anche 40
obiettori di coscienza, il seminario sui diritti umani
all'università albanese. L'iniziativa si è
conclusa con una marcia silenziosa per le strade di
Prishtina. Contemporaneamente è stata lanciata
"Operazione Colomba": volontari italiani vivranno in alcuni
villaggi del Kosovo, dove la popolazione sta facendo ritorno
alle case distrutte e spesso vive ancora in tendopoli o in
abitazioni con il tetto di naylon. La presenza "neutrale"
nei luoghi di guerra consente di evitare aggressioni e
saccheggi, di far tornare più persone alle loro case
e aiutarli nella vita quotidiana.
Prishtina,
10 dicembre 1998
"Don't
forget this is Serbia". Non scordate che siete in Serbia:
queste parole di colore scuro sono scritte sopra la porta
della facoltà di tecnologia di Prishtina, Kosovo,
l'unico edificio universitario restituito dalle
autorità serbe agli studenti albanesi espulsi dalle
facoltà all'inizio degli anni '90. Non se lo scorda
certo Drita -in Italia si chiamerebbe Bianca- studentessa
albanese di farmacia, che nell'aula magna gonfia di applausi
e persone, vicine di posto, vicine di parole e sorrisi, si
perde volentieri gli interventi ufficiali del simposio
"Tutti i diritti umani per tutti", e mi racconta: "Il giorno
che sono potuta tornare all'università è stata
una felicità indescrivibile: questa per me è
come casa". Non so che rispondere, con la mia storia di
studente pigro e fortunato. Posso solo dirle che io e i 216
partecipanti di "I Care!", siamo in Kosovo proprio
perchè ci sta a cuore Drita; e tutti quelli i cui
diritti vengono calpestati.
Un passo
indietro. "I Care!" è la spedizione di pace e di
affermazione dei diritti umani organizzata in occasione del
50° anniversario della Dichiarazione dei diritti
dell'uomo da "Pax Christi", "Beati i costruttori di pace",
"Papa Giovanni XXIIII" e altre associazioni pacifiste. Ci
diamo appuntamento domenica 6 dicembre allo stadio di Bari.
Per due giorni i volontari, uomini e donne dai 18 ai 70
suonati, di ogni condizione sociale e provenienza geografica
si preparano in piccoli gruppi. Ci si conosce, si scoprono i
motivi comuni che ci porteranno nella terra dissolta
dell'ex-Jugoslavia, sul percorso inverso dei cosiddetti
"clandestini". Un "training" che serve anche per affrontare
uniti eventuali situazioni di emergenza. La sera di
lunedì 7 la nave "Luburnum" salpa in un'atmosfera di
attesa e festa; i veterani delle precedenti marce di pace in
Bosnia, raccontano finchè il sonno prevale sul rollio
e sulle parole.
Martedì
8 dicembre
Si approda a
Bar, in Montenegro. Sono 5 i pulmann che ci porteranno a
Prishtina attraversando terre contese da secoli e, al
momento, coperte di neve. Al monastero ortodosso di Moraca
una pausa del viaggio ci regala affreschi celesti, il
sacrificio di un maiale e una sorpresa: 30 profughi serbi di
Sebenico e Knin, in Krajina, scacciati nel 1995
dall'"Operazione Tempesta" che provocò l'esodo di
migliaia di serbi di Croazia. Un pulmann si ferma, guai ai
freni. Si fa buio e il ghiaccio incombe. C'è
tensione. Posti di blocco e mitra spianati li superiamo
però con brevi conciliaboli. Prishtina si palesa
infine come un grumo di luce. La nostra sede per la prima
notte è una casa spoglia, pavimenti di cemento,
riscaldata da stufe elettriche e con un bagno ogni 70
persone. Per ragioni di "sicurezza" la polizia circonda la
casa: siamo "consegnati" fino al mattino dopo.
Mercoledì
9 dicembre
Ci
disperdiamo ai quattro cantoni della città.
Incontreremo, divisi per gruppi, oltre 20 realtà
istituzionali, della cultura e della società civile
kosovare, sia albanesi sia serbe. Per non cogliere il
rintocco di una sola campana. Al mio gruppo spetta il
Parlamento "parallelo" del Kosovo, uscito dalle elezioni
"clandestine" che hanno coinvolto, dati di parte, l'84 per
cento dei kosovari albanesi. Incontriamo nella sede
dell'Ldk, il partito del capo del governo Ibrahim Rugova, il
presidente del Parlamento e i capi di alcuni partiti tra cui
la Democrazia cristiana, composta per metà ...da
musulmani. I parlamentari sono sì liberi ma
sorvegliati dalla polizia segreta, lavorano divisi per
commissioni in case private, perchè non hanno un
luogo per riunirsi tutti. La loro cortesia si sposa al
pessimismo: l'offerta di un'autonomia regionale all'interno
della Serbia non interessa più. Toni pacati ma parole
d'ordine senza compromessi: indipendenza dalla Serbia, pari
dignità con gli Stati superstiti della Federazione
Jugoslava. "Vogliamo essere liberi in casa nostra, i serbi
sono solo colonizzatori". Mezzi per conseguire gli
obiettivi: mediazione internazionale e, in caso di
fallimento, la guerra. Quindi la guerra. "A primavera
ricomincerà!" Chiedo: l'Uck è l'esercito di
liberazione del Kosovo? "E' una sola cosa con il popolo
albanese". Quali sono i contatti con i serbi? "Beh, quelli
con... la polizia". Risate amare.
La sera, la
polizia ci fa sloggiare: abbiamo dormito dove si tenevano
attività non consentite; il "covo", incredibile a
dirsi, era fino a poco tempo fa, la facoltà
"clandestina" di medicina. Tutte le scuole albanesi sono
state ospitate in abitazioni private. Da poco i serbi hanno
restituito ai kosovari alcuni edifici scolastici. Ci
trasferiscono al palasport, che da quasi 3 anni ospita anche
200 profughi serbi della Krajina croata. Chi li incontra ne
riporta un'impressione di povertà e rassegnazione. Il
nazionalismo non fa più presa su di loro: hanno
subìto troppo anche dai compatrioti. Qualche ora di
riposo sull'impiantito di legno degli stanzoni.
Giovedì
10 dicembre
In fila
verso l'università. Prishtina è una
città senza colori. Sugli alberi solo segni di lutto.
I volantini listati con le foto dei giovani morti in guerra
o scomparsi, e i sacchetti di plastica neri che i corvi
hanno liberato dall'immondizia sparsa per strada. Un
terremoto ha reso la città moderna, sgraziata e
impudica: dai mattoni delle case mai intonacati ai tondini
che sbucano dal cemento armato per qualche futura
costruzione. Sorridono ai balconi grigi cento e cento
parabole. La tv si affaccia sul mondo ben più dei
terrazzi: soprattutto da quando radio e tv a Prishtina sono
state chiuse e centinaia di giornalisti albanesi messi alla
porta. Carramba che fortuna. Nell'aula magna
dell'università il simposio alza il tono. Sul palco
Pajazit Nushi, presidente del Consiglio per la difesa dei
diritti umani di Prishtina. Parole roventi: "L'esercito
dell'Uck difende il popolo albanese e le sue case, i suoi
beni. Tra noi e i serbi non c'è odio. Colpevole
è il regime poliziesco e militare di Belgrado".
Un'ovazione, compatta ma composta. Mentre il rappresentante
dell'Alto Commisariato Onu sbrodola un discorso ufficiale e
stantio, Drita mi tiene la sua lezione sulla scuola
dell'odio: "Sono cresciuta a Belgrado, ho amici serbi, ma ho
vissuto la paura, ho dovuto lottare per la mia casa, per
studiare, per vivere; questo porta facilmente a odiare. E
c'è chi combatte perchè ha perso tutto. Che
altro può fare? La religione non c'entra. Io sono
musulmana ma in famiglia la preghiera è solo
l'occasione per stare insieme". Chiude Natasha Kandic
dell'Humanitarian Law Fund di Belgrado, serba dissenziente.
Si scusa di non parlare albanese. Applausi. Fuori dall'aula
capannelli spontanei di italiani e kosovari. Non ci si perde
una parola. "A primavera ci sarà la guerra. Possiamo
scegliere se scappare o arruolarci. E voi come vivete?"
Deglutire prima di rispondere.
Le posizioni
sono uniformi: "Vogliamo essere liberi, non odiamo i serbi,
ma non si può trattare con Milosevic, l'unica strada
possibile è la guerra". La guerra che fa scrivere la
storia solo a chi vince. E se i serbi fossero sconfitti?
Spieghiamo che siamo in Kosovo anche per i loro diritti,
perché le parti si possono invertire. Nessuna
obiezione. Scambio finale di indirizzi e-mail, la posta che
non si può bloccare alla frontiera. Usciamo in fila,
gracchiando le scarpe sulla neve, per la manifestazione
conclusiva nelle strade della capitale, come tanti prima di
noi hanno fatto in questi anni, sfidando la repressione
della polizia serba. Gli studenti ci salutano dalla
balaustra del primo piano. Prima due, poi quattro, otto,
mille mani in un lungo applauso reciproco. Sfiliamo a due a
due per mano in una pace innaturale. Dalle finestre e dai
balconi ci spiano con curiosità, un grido isolato e
un battente che si richiude. Le macchine serbe ci mostrano
tre dita: la vittoria; poi un dito solo... Il Grand Hotel ci
sovrasta; le macchine blindate della televisione
parcheggiate di fronte. Rai Tre, presente a Prishtina, ci
snobba, scegliendo la manifestazione per le vittime serbe.
La polizia, che ha messo mille bastoni tra le ruote
dell'organizzazione, scorta il silenzioso serpente
arcobaleno fino al palasport.
Venerdì
11 dicembre
La fila
degli autobus riprende la via delle montagne verso il
Montenegro. Cascate di ghiaccio e covoni, minareti e
mercati, gole e neve in una slow-motion al contrario. Ma "I
Care!" è tutt'altro che finita. Tanto che la nostra
nave potrebbe navigare sul mare di relazioni, commenti,
domande, formulate in fitti crocchi di conversazione, sul
bilico tra la stanchezza ed un'urgenza: "Che fare?". La
risposta, che non compete a noi soltanto, prima di
primavera, per favore.
Un po' di
storia
1989:
Milosevic impone con la forza emendamenti della Costituzione
Serba che svuotano l'autonomia del Kosovo. Manifestazioni a
favore dell'autonomia vengono represse con arresti e
violenze. 1990: Viene proclamato lo "stato di emergenza" che
instaura di fatto un regime di occupazione poliziesca. Gli
albanesi, i politici e la popolazione, reagiscono con forme
di resistenza non violenta, evitando il conflitto. Il 2
luglio il parlamento del Kosovo proclama l'indipendenza. Il
5 luglio la Serbia lo scioglie. Le autorità chiudono
Prishtina TV and Radio Broadcasting e l'unico quotidiano
albanese "Rilindja". La legge consente espulsioni di massa
da luoghi di lavoro e cariche politiche. 150 mila albanesi
vengono licenziati tra il '90 e il '91 da pubbliche
amministrazioni, tribunali, fabbriche, banche,
università, scuole, luoghi di cura. Si instaura
un'apartheid di fatto. 1991: Vengono chiuse scuole
elementari e medie. Sono espulsi insegnanti (25 mila) e
studenti albanesi da ogni ordine di scuola. Le proteste
vengono represse dalla polizia a più riprese. Le
università vengono requisite. L'insegnamento della
lingua albanese è abolito, così come il suo
uso ufficiale.Viene distrutto il sistema sanitario: il
personale albanese di cliniche e ospedali viene sostituito
da serbi. 1992: I kosovari creano una "società
parallela" che gestisce scuola, sanità,
attività culturali e politiche. Leader della
resistenza non violenta, esempio forse unico nella storia
moderna, è Ibrahim Rugova, intellettuale moderato. Si
tengono le prime elezioni non autorizzate. 1994: La
Commissione Diritti umani dell'Onu condanna le
discriminazioni e le violenze sull'etnia albanese. 1995: Gli
accordi di Dayton sulla Bosnia non menzionano il Kosovo. Le
misure del governo serbo sono tese alla pulizia etnica,
all'esodo degli albanesi dal Kosovo e all'arrivo di migliaia
di "coloni" serbi, soprattutto dalla Kraina croata.
L'occupazione di polizia e militare serba giunge a contare
60 mila e più uomini sul territorio kosovaro, circa 1
ogni 70 albanesi, la percentuale più alta d'Europa.
1996: La non violenza è alle corde. Appare l'Uck,
l'esercito di liberazione del Kosovo. 1997: Manifestazioni
non violente vengono represse, l'Uck si rafforza. 1998: Tra
febbraio e marzo il conflitto assume la forma di guerra vera
e propria. Si contano da parte albanese 1900 morti, 432
villaggi distrutti, 14 mila case bruciate, 430 mila persone
in fuga, molte verso Montenegro, Albania, Italia. La
minaccia di bombardamenti Nato e l'inverno fermano il
conflitto. La mediazione Holbrooke-Milosevic e quella di
Hill non vengono accettate. Politici, gente comune,
osservatori presenti in Kosovo non hanno dubbi: a primavera
si ricomincia.
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