CECILIA KIN [ 1] 

“Il quarantacinquesimo parallelo”

Traduzione dal russo di Clara Coïsson (il testo in grassetto è in italiano nell’originale).

Sì, quello dell’ex fascista non è un mestiere facile.

Ma, forse, egli non è un ex fascista, bensì un fascista vero.

Che ne sai?

Ernest Hemingway

La natura del successo o dell’insuccesso di un libro non sempre quadra coi nostri gusti e con le nostre idee abituali. Per il mio genere di lavoro debbo seguire abbastanza attentamente la stampa periodica italiana. Si sa più o meno di quali opere si discute, quali vengono solennemente presentate ai lettori durante il ricevimento organizzato dall’editore (esiste in Italia questa piacevole tradizione semiletteraria e semimondana); quali sono maggiormente richiesti, ce lo comunicano i giornali: al primo posto il libro tale, al secondo il tal altro … Naturalmente, al successo possono contribuire varie circostanze: l’opinione di qualche critico autorevole, la fama dell’editore, la moda letteraria, come pure - perché nasconderlo? - anche la volgare réclame.

Ed ecco che, non molto tempo fa, m’è capitato fra le mani un grosso volume di 536 pagine. Il libro s’intitola “Monumento al parallelo”, che tradotto letteralmente suona un po’ goffo. Ma il titolo ha un senso diretto: l’azione si svolge a Torino, e su una delle sue piazze è stato eretto un monumento in onore del quarantacinquesimo parallelo che passa attraverso la città. Autore del romanzo è una donna, Marina Jarre, e bisognerebbe scrivere Iarre in russo, sennonché i compagni italiani dicono che la signora si chiama Marina Žarr. Dalle note dell’editore si possono ricavare le seguenti scarse notizie: Marina Jarre ha 44 anni, di padre lettone e madre italiana, vive in Italia dall’età di dieci anni, risiede stabilmente a Torino, è sposata, ha quattro figli, insegna il francese. E la sua biografia letteraria? Nel 1955 ricevette il premio Pancrazi per un racconto, premio conferito dalla rivista “Il Ponte”, nel 1962 pubblicò una raccolta di racconti per ragazzi. E questo è tutto. Un solo racconto premiato, una sola raccolta per ragazzi, insegna lingue. Chi è, una dilettante?

Recensioni del romanzo, non ne ho viste. In ogni caso il libro non è stato un avvenimento letterario e - sembra a me - soltanto in virtù di circostanze casuali. Io, invece, straniera, ho letto questo libro tutto d’un fiato e continuo a pensare che noi dovremmo tradurlo, quantunque sia di un’autrice non solo non celebre, ma addirittura poco nota, che non appartiene a nessuna tendenza di moda, e non ha palesemente delle chances di essere candidato a uno dei grandi premi nazionali.

Ma siccome anche i gusti letterari individuali non si possono sempre suffragare con argomenti e spesso ci si abbandona semplicemente al “gusto immediato” (Piace! No, non piace!) per qualche mese ho messo da parte il romanzo, poi mi sono messa a leggerlo una seconda volta, per capire io stessa perché mi avesse commossa. Ma a questo punto mi permetto una piccola digressione, giacché mi riesce difficile pensare al libro senza pensare nello stesso tempo anche alla vita.

 

 

La cronaca giornalistica italiana, soprattutto negli ultimi tempi, ritorna ogni momento sui neofascisti. Si tratta in prevalenza di giovani, ma fra essi vi sono anche degli anziani, vi sono degli “uomini eminenti” che s’inorgogliscono d’aver avuto in passato dei grandi meriti, che in nessun caso cancellano questo passato, dei consiglieri di Mussolini. Per la maggior parte sono proprio essi che si atteggiano a continuatori della “tradizione”, che sono i fornitori di ideologie per “gli uomini di oggi”. La gioventù neofascista che, come anche in altri tempi, si recluta nell’ambiente della piccola borghesia (occorre peraltro tener conto del fatto che tra i neofascisti vi sono molti figli di ex camicie nere) di regola non brilla per ricchezza di fantasia, essa conosce soltanto pochi “metodi di lotta” ma in compenso convalidati dall’esperienza, e non ci è difficile elencarli.

Eccoli: attacchi a noti uomini di sinistra; organizzazione di manifestazioni d’ogni genere con impensabili slogan demagogici; saccheggio di locali appartenenti a organizzazioni progressiste (rompere mobili, strappare carte e documenti, incendiare edifici, bastonare chi capita sotto mano, questo però se a guardia del locale vi siano poche persone, nel qual caso i fascisti si dimostrano particolarmente valorosi, se invece le forze sono uguali, essi non sempre scendono in campo); talvolta un omicidio del quale negano sempre d’essere colpevoli, come nel caso dell’uccisione dello studente romano Paolo Rossi; e, infine, propaganda nella stampa, una propaganda impudente, violenta, ed essi hanno i loro organi di stampa, giacché i neofascisti esistono illegalmente.

E questo sarebbe tutto, e ci si può quindi rassicurare, pensando che sono in pochi e che nelle elezioni politiche del ’68 hanno perso un certo numero di voti e, in generale, quale concreta minaccia possono essi rappresentare?

Ma questo non è vero, è un modo superficiale di guardare le cose. Se si riflette seriamente su quanto adesso avviene, sul finire degli anni sessanta, tutto ci si presenta in una luce diversa. Vi sono dei fatti noti a tutti: l’enorme incremento del movimento di sciopero degli operai dell’industria e del proletariato agricolo e il burrascoso movimento studentesco di contestazione. Questa parola significa: contestazione, negazione, smentita, protesta; scegliete una qualunque di queste accezioni, tutte quante possono definire l’ideologia e l’azione della gioventù studentesca. Recentemente, nel corso di una delle tante “tavole rotonde” organizzate dal settimanale “L’Espresso”, si sono dette molte cose interessanti, sulla natura della “contestazione”, sulle radici sociali di questo fenomeno, sui rapporti reciproci fra la gioventù ribelle e i partiti di sinistra. Sarebbe ingenuo ignorare che adesso, nei paesi del capitalismo evoluto - e di essi fa parte anche l’Italia - si verificano processi complessi e in parte morbosi, sono sorti momenti qualitativamente nuovi.

Ma il possente movimento di sciopero della classe lavoratrice e la ribellione della gioventù possono potenzialmente rappresentare una minaccia del tutto reale per il sistema. Nel febbraio di quest’anno ha avuto luogo il dodicesimo congresso del Partito Comunista Italiano. Il segretario generale del partito, Luigi Longo, parlando della crisi profonda che travaglia in questo momento l’Italia, si è espresso molto chiaramente: “Sì, noi sappiamo che oggi il socialismo è all’ordine del giorno in Italia; esso è presente nella coscienza di larghe masse popolari; senza riforme socialiste è impossibile risolvere pienamente tutti i nostri problemi fondamentali”. Certo, dietro le parole di Longo si celano molte cose: tutte le contraddizioni, quelle vecchie, tradizionali, e quelle nuove create dal “neocapitalismo”, si sono intrecciate in un groviglio morboso e molti uomini politici lungimiranti ritengono che, fra tutti i paesi dell’Europa Occidentale, l’Italia sia il più maturo per radicali, decisivi mutamenti per il socialismo.

Sarebbe tuttavia strano presupporre che tutto questo possa avvenire idillicamente, per così dire, senza lotta e senza profondissimi sconvolgimenti. La logica non ci suggerisce forse che nel momento opportuno le forze reazionarie conservatrici della borghesia italiana potrebbero di nuovo (come già avvenne agli inizi degli anni Venti) utilizzare per l’appunto questi giovani, antidemocratici convinti, fascisti convinti, come reparti mobili per una controrivoluzione preventiva? La storia dell’Italia dell’ultimo decennio ci dimostra che queste cose sono del tutto reali, basti ricordare se non altro la faccenda del SIFAR, troppo nota per parlarne diffusamente, e non ancora terminata perché certi circoli influenti fanno di tutto per intralciare l’inchiesta. E voglio ancora una volta richiamarmi alla relazione di Longo il quale ha detto che nelle condizioni della crisi che travaglia in questo momento l’Italia (e cioè della crisi di tutta la struttura), i circoli economici influenti “sono capaci di prendere decisioni in seguito alle quali potrebbe sorgere il pericolo di una reazione, il tentativo di ricorrere alla forza”.

 

 

E adesso ritorno al punto da cui avevo cominciato il discorso: perché mi ha commosso il romanzo di una sconosciuta autrice italiana? In parte perché, naturalmente, tutto ciò che in un modo o nell’altro è connesso col pericolo del fascismo m’interessa e mi commuove profondamente. La narrativa italiana si rivolge spesso a questo tema, talvolta si tratta dei ricordi di ex fascisti che in un secondo tempo hanno espiato i loro peccati partecipando alla Resistenza; di questi ricordi ce ne sono molti e non ha senso elencarli. Talvolta si tratta di racconti, di romanzi, di novelle. Citerò qualche esempio, non è difficile aggiungerne altri. Nel 1962 “Inostrannaja Literatura” pubblicò il racconto di Marcello Venturi “Licenza di un tedesco”; c’è anche una novella, non tradotta in russo, di Renzo Rosso “Breve viaggio nel cuore della Germania”, il cui soggetto è costruito sul personaggio di un ufficiale del comando alleato che non ha il coraggio di smascherare un criminale di guerra perché ha pietà della moglie di quel nazista, la quale ignora il suo passato. Ma, comunque, non è questa la tematica che predomina attualmente nella prosa italiana. In misura assai maggiore l’attenzione della stampa è attratta dai libri dei neoavanguardisti, si accendono discussioni sulle loro peculiarità formali. Io li leggo e vedo che tutto ciò è in certo qual modo attraente e forse anche importante, ma non desta un vero interesse. Posso leggere con curiosità (come riesce a fare questo?) il libro di uno qualunque fra gli scrittori italiani “ultracontemporanei”, ma, personalmente, questa fredda, raffinata letteratura non mi tocca mai veramente, anche se presenta un certo splendore formale.

Splendore formale nel romanzo di Marina Jarre non ce n’è, forse. Il libro è scritto nella maniera tradizionale, forse un po’ asciutta, contenuta, senza premere, senza la minima inclinazione agli effetti, con un rigoroso realismo, in molte pagine con un’intonazione ironica appena percettibile. Con tutto il suo tradizionalismo il romanzo mi sembra tuttavia perfettamente attuale e non provinciale (e sappiamo come spesso gl’italiani si lagnino del carattere provinciale della loro letteratura). E ha anche un’altra grande qualità: l’autrice ha il senso della misura, del tatto artistico e psicologico. Marina Jarre sa fermarsi in tempo, non ama il patetico, anzi, narra le cose più terribili quasi come se le mettesse a verbale. Il soggetto del romanzo, per contro, le darebbe la possibilità di rendere il libro estremamente avvincente, di sfruttare varie tecniche d’effetto, per mantenere il lettore in uno stato di costante suspense. Il fatto che la scrittrice abbia rinunciato di proposito a queste possibilità è, a mio avviso, una prova d’intelligenza e di buon gusto.

La narrazione procede su due piani. All’inizio sembra che ci siano due linee diverse, poi esse s’incrociano, si intersecano e si uniscono come soggetto. In questo senso, e solo in questo, si può dire che Marina Jarre sia ricorsa a una tecnica divenuta abituale e addirittura di moda. Il primo capitolo s’intitola “Klaus I”, poi seguono altri capitoli con i più diversi titoli, poi di nuovo “Klaus II” e così si avvicendano i vari capitoli fino a “Klaus IX” e all’epilogo. Disdegnando, come s’è detto, gli effetti, fin dal primo capitolo “Klaus I” l’autrice ci presenta allo scoperto colui che sarà il personaggio principale del romanzo. Seguendo l’esempio dell’autrice, anch’io racconterò subito chi è Klaus Boehr. Con una piccola differenza, però: Marina Jarre ci racconta la storia autentica di Klaus gradualmente, capitolo per capitolo e, grazie a questo, oltre alla nuda verità dei fatti c’è la verità psicologica. Klaus Boehr acquista la più completa attendibilità, il suo passato, la sua storia, la sua autocoscienza, tutto si presenta a noi in modo convincente, senza affettazione, e ciò è terribile. Ma in questo articolo devo, naturalmente, rinunziare alla graduale rivelazione del personaggio.

Chi è dunque Klaus Boehr? Se non si legge il romanzo tutto di seguito, ma scegliendo i capitoli che trattano di lui, da “Klaus I” a “Klaus IX” apprendiamo tutti i particolari della sua biografia, ed essi si fondono in un quadro compiuto. Egli è nato nel 1920 in una piccola città tedesca, suo padre insegnava greco e latino al liceo, ha studiato… Del resto non ha senso parlare adesso della sua fanciullezza, passiamo subito al periodo della guerra. Nei capitoli “Klaus” il racconto è fatto in prima persona (a proposito, Klaus è il suo vero nome, per una fortunata coincidenza si chiamava per l’appunto Klaus l’ingegnere svizzero Boehr in cui, subito dopo la guerra, si è reincarnato il giovane SS. Sin dal primo capitolo Klaus mette, come si suol dire, le carte in tavola: afferma che il suo scopo era, beninteso, di “sopravvivere, se solo vi fosse riuscito, a ogni costo”. Quando, dopo la guerra, era arrivato a Torino e si era sistemato in qualità d’ingegnere svizzero in una grande ditta di costruzioni, si era prefissato lo scopo di entrare a ogni costo nella società torinese, di entrarvi organicamente, d’imparare non solo a parlar bene ma anche a pensare in italiano, di farsi una posizione solida, di sposare una ragazza italiana. Il passato era sepolto per lui, con tutto il sangue e il fango, coi tradimenti, le denunzie; era sepolto non perché fosse brutto, ingiusto, crudele e immorale, ma solo perché la partita era perduta.

Ed ecco Klaus Boehr, criminale di guerra, assassino e carnefice, che adesso gode di grande autorità presso i colleghi italiani come bravo ingegnere, eccolo rivolgersi mentalmente ai suoi possibili giudici (nel caso quasi improbabile che lo prendano e venga in mente a qualcuno di processarlo). Questo monologo interiore appare non solo un’autodifesa, è nello stesso tempo anche una requisitoria contro gli altri, contro gl’italiani, contro tutti i possibili avversari. Klaus Boehr è cinico al massimo, non riconosce decisamente a nessuno il diritto morale di giudicarlo. Oltre a tutto il resto, egli non crede che qualcuno sia seriamente interessato a smascherarlo e condannarlo, ma c’era forse interessato qualcuno prima, subito dopo la fine della guerra? Questo, per così dire.

“Volevate soltanto vivere in pace. Avete tagliato la testa a qualche grosso papavero e nemmeno a tutti, agli altri avete dato la possibilità di squagliarsi, alla minutaglia, come me… Non ho da cercarmi dei difensori, la mia difesa sono io. Sì, eravamo una splendida gioventù, signori miei, noi che ci rovesciammo sull’Europa con una furia e una sete di gloria così comprensibili in chi era stato ieri povero e virtuoso. Non ho che da indossare la vecchia divisa, dico, e sedermi muto fra pubblico e giudici. Non sono più un uomo, sono un personaggio, mi troverete in molti film e in molti libri. Ma certo, sono proprio quello, alto, biondo, ghignante, col mitra fra le mani, dimenticavo il mitra, figuratevi! Non ho da aprir bocca; non c’è nulla, infatti, che mi distingua dagli altri”.

Ho riportato questo passo per dare l’idea di come sia ideato il “personaggio” Klaus Boehr. Ma questo passo è avulso dal contesto del capitolo, mentre ciò che caratterizza il capitolo è la combinazione, l’unione di questa autoaffermazione interiore (“Sì, eravamo una splendida gioventù…”) con la prosaica e sobria narrazione di come tenacemente e metodicamente, ma soprattutto felicemente, questo personaggio alto, biondo, col mitra, si integri nella società torinese nella prima metà degli anni Sessanta. Sì, soprattutto di come gli arrida il successo…

 

 

Possiedo la traduzione in italiano del libro “L’internazionale nera”. L’autore si chiama Dennis Eisenberger. È un inglese. Il sottotitolo del libro è “Fascisti e nazisti oggi nel mondo”. È un’opera molto interessante, arricchita di fotografie e di documenti, è uscita nel 1964 ma è un tema che, purtroppo, non invecchia. Di libri come questo bisognerebbe in genere parlare diffusamente, ma mi limiterò adesso a un solo documento, tolto dall’appendice. L’autore ha intervistato un italiano. È Romano V., di 22 anni, studente di quart’anno della facoltà di legge.

Domanda: Perché sei fascista?

Risposta: Sono fascista per convinzione. Penso che per il mio temperamento e la mia mentalità devo essere fascista. Potrà stupire, ma io noto che ogni mio pensiero sincero e spontaneo corrisponde positivamente ai dogmi o, piuttosto, ai postulati del fascismo.

Domanda: Hai in mente il fascismo del Ventennio?

Risposta: No, non credo che il fascismo si possa limitare e collegare soltanto al Ventennio. Sono convinto che il fascismo sia l’espressione di un’ideologia mondiale, che non si debba identificare con un determinato paese o con una determinata epoca. Il fascismo va piuttosto considerato come un movimento internazionale avente una quantità di forme diverse. Non credo che il fascismo sia qualcosa di statico e di stagnante, anzi, secondo me, il suo maggior merito sta nel fatto che esso sa adattarsi alla realtà. Ma il fascismo ha solidi fondamenti. Questi fondamenti, che ne costituiscono la base, valgono per qualsiasi epoca e per qualsiasi popolo.

Domanda: Ti ho chiesto prima se avevi in mente il fascismo del Ventennio perché credevo che ideologicamente - diciamo così - le direttive del fascismo siano contenute nell’articolo di Mussolini “Dottrina del fascismo”. Parlando di ideologia mondiale, avevi in mente quel documento?

Risposta: Ritengo che questo documento non sia il fondamento del fascismo, ma solo uno dei fondamenti. Secondo me il fascismo non va cercato nei libri, quali sarebbero l’articolo di Mussolini o il libro di Rosenberg “Il mito del Ventesimo secolo”. Bisogna cercare, bisogna trovare l’autentica dottrina del fascismo, questa indagine deve ancora essere fatta. Ma, naturalmente, bisogna per questo studiare l’esperienza e i punti di vista di coloro che hanno lavorato in nome del fascismo. Il fascismo non è qualcosa di stagnante, non consta di alcuni dogmi che si sono cristallizzati. Il fascismo è anzitutto un’esperienza viva.

Ometto alcune domande e risposte in cui gli interlocutori analizzano particolareggiatamente i vari regimi fascisti dell’Europa e dell’America Meridionale, e passo a quella parte della conversazione in cui Romano V. afferma che se i fascisti avessero vinto la guerra, in Europa si sarebbe instaurata una pace stabile e un nuovo ordine.

Domanda: Quale nuovo ordine? Quello che si chiama Auschwitz, Buchenwald, Mauthausen e Dachau? Il nuovo ordine la cui base è racchiusa nelle parole di Baldur von Schirach: “Quando sento parlare di cultura, do di piglio alla rivoltella?

Risposta: Senti, con questa frase di von Schirach sono pienamente d’accordo.

Domanda: In che senso sei pienamente d’accordo? Non puoi esprimerti più chiaramente?

Prego i lettori di questo articolo di considerare attentamente la risposta di Romano V. giacché egli è tutt’altro che l’unico ad avere questa opinione, e qualcosa di simile l’ho trovato nella stampa neofascista.

Risposta: Per cultura intendiamo la peggior forma di culturalismo. Questa, in fondo, non è nemmeno cultura, bensì una forma d’intellettualismo che sempre e inevitabilmente risulta essere antifascista, ma che non ha niente a che fare con la vera arte. Per me la cultura è mestiere, non arte. Gli uomini di cultura sono degli artigiani professionali. Possono soltanto biascicare, mentre la creazione artistica è qualcosa d’immediato, di spontaneo. Per me, quindi, l’artista è un fascista, mentre l’intellettuale è necessariamente un antifascista. Anche il critico letterario, per esempio, può essere un artista, ma può essere anche semplicemente un perditempo che rimastica le idee, e tale è, purtroppo, la letteratura critica contemporanea.

Dalle successive domande e risposte ricaviamo non poche notizie curiose sui gusti letterari e sulle opinioni politiche di Romano V. Così, ad esempio, egli considera D’Annunzio un vero artista-fascista; a differenza dei nazisti, egli ritiene che “ebrei e polacchi non debbano necessariamente esser annientati tutti: donne e bambini devono inevitabilmente essere fra le vittime, poiché sono fatti che avvengono sempre nei periodi di rivoluzione”. E, infine, Romano V., per principio e con convinzione, senza ombra d’esitazione, adotta la formule dell’antidemocrazia.

 

 

Non sappiamo in che città viva Romano V. (è questo il suo vero nome) potrebbe anche darsi a Torino. Ma la sua conversazione col giornalista inglese ebbe luogo per l’appunto nel periodo in cui si svolgono i fatti descritti da Marina Jarre. E adesso torniamo al romanzo. Avverto fin d’ora che ometterò molte linee del soggetto, non menzionerò neppure la maggior parte dei personaggi. M’interessa una sola linea, che è però la principale; la storia di Klaus Boehr e della sua intenzione di inserirsi completamente nella società torinese degli anni Sessanta.

Il secondo capitolo del libro s’intitola “La Banda”, e in esso c’imbattiamo in un gruppo di giovani torinesi. Questa banda fa quasi da sfondo: solo a qualcuno toccherà una parte attiva e importante nello sviluppo del soggetto. Sono ragazzi e ragazze provenienti per la maggior parte dall’ambiente borghese o da quello dell’intellighenzia borghese, solo pochi vengono da strati sociali più modesti. Molti di essi sono studenti universitari. A differenza di Romano V., non s’interessano affatto di politica, anzi, la politica li nausea. Non conoscono nessun parolone altisonante, e non ci credono, si occupano soltanto delle loro faccende personali. Essi, anzi, hanno una loro formula: “Niente politica. Niente sindacalismo, femminismo, fascismo”. (Quando a uno di questi ragazzi viene proposto da un giovane molto attivo, capo dei fascisti universitari, di iscriversi al movimento, egli risponde che “preferisce scegliersi i bordelli da sé”; un po’ brutale, naturalmente, ma, a mio avviso, espressivo). Col movimento di “contestazione” di cui ho parlato al principio dell’articolo questi ragazzi e ragazze non hanno alcun rapporto. Non c’è in loro uno stato d’animo di ribellione e di rifiuto del mondo, la cerchia dei loro interessi è altrove, basta ascoltare quello che dicono, con allegria, con leggerezza, talvolta con cinismo, in un modo perfettamente attuale… In generale, adoperando un termine italiano contemporaneo, questo è disimpegno, che significa assenza di obblighi civili e morali volontariamente assunti. (Notiamo tra parentesi che appunto del “disimpegno” Libero Bigiaretti ha parlato nel romanzo “Indulgenza”). Ma non affrettiamoci a trarre deduzioni.

Nominerò alcuni personaggi che nel romanzo hanno un ruolo preminente. Anzitutto Carlo Federico, che tutti chiamano Carlin. Vive in un palazzo freddo e tetro, dove non invita nemmeno gli amici più intimi, evidentemente si sente a disagio in casa sua. Appartiene a un’antica famiglia aristocratica, i suoi avi ebbero una parte importante nel movimento del Risorgimento ma a questo egli accenna solo di sfuggita. Carlin è un uomo delicato di natura, è impressionabile e precoce, benché lo nasconda con cura dietro un’abituale ironia e noncuranza. In un punto, all’inizio del romanzo, c’è una frase, un mezzo accenno all’inconscia sete di autodistruzione che si cela in lui. Ha un’acuta sensibilità, è intelligente e nervoso, vi sono in lui dei sintomi di degenerazione propri delle antichissime casate aristocratiche. A volte egli manifesta un’abulia quasi incomprensibile: ragazzo dotato, colto, che ha letto molto, non può decidersi a dare l’esame di maturità, non può, e basta. Questo fatto è oggetto di scherzi e di rimproveri da parte di tutti, ma Carlin non è assolutamente in grado di vincere la sua indecisione, c’è in lui una qualche inibizione, e non ci si può far nulla. E nonostante tutto, fin dalle prime pagine sentiamo in Carlin l’intellettuale: sotto la posa, sotto il cinismo e l’accentuato disprezzo per ogni genere di “pregiudizi” s’indovina un intenso lavorio del pensiero, un innato intuito, una capacità di soffrire in silenzio, e anche questo non è da tutti.

Il più intimo amico di Carlin, e nello stesso tempo quasi il suo antipodo, è Filippo, un ragazzo dotato di tante qualità così positive che è perfino opprimente, sebbene sia davvero un bravo figliolo. Non avrà mai scatti nervosi, non prenderà mai decisioni avventate, non farà mai nulla d’irrazionale: è il giovane cittadino modello d’uno stato ben ordinato, da lui non c’è assolutamente da aspettarsi che un bel momento faccia qualche stravaganza. Carlin e Filippo sono molto affezionati uno all’altro, ma il loro atteggiamento verso la vita, come si vedrà in circostanze difficili, è del tutto diverso. Credo che i lettori indovineranno che queste circostanze saranno connesse con Klaus Boehr.

 

 

Poche parole, strettamente necessarie, e niente di più, su come si costruisce l’intreccio. Boehr lavora nella ditta di costruzioni con un ingegnere italiano, Gino Aldrighetti. Per suo tramite o, più precisamente, per il tramite della sua amica Clotilde, egli fa a poco a poco la conoscenza della “banda” e decide di sposare la sorella di Clotilde, Patrizia. La sua offerta di matrimonio viene accettata. Né in Gino Aldrighetti, né in nessuno dei giovani coi quali Boehr s’imbatte, inevitabilmente, sorgono adesso problemi o dubbi. L’unico che incomincia a sospettare vagamente qualcosa è Carlin. Bisogna notare ancora che a un dato momento appare una ragazza di famiglia ebrea, bella ma un po’ strana, con un carattere difficile; si chiama Daria, suo padre è medico, lui e i figli hanno preso parte alla Resistenza e un fratello di Daria è morto. Daria diventa l’amica di Filippo, ma poi lo lascia per Carlin. Storie d’amore ce ne sono molte nel romanzo (Marina Jarre non si dilunga in eccessive sottigliezze psicologiche) e io non ne parlerò, ma di Daria non si può far a meno, poiché essa ha un grande ruolo nello sviluppo della trama. Ma adesso torniamo a Klaus Boehr.

In uno dei capitoli “Klaus” troviamo dei particolari interessanti sul suo passato. Sul suo amico intimo Gerd von Beck. Sul non meno intimo amico e protettore Barnhoff, al quale deve in gran parte il suo rapido avanzamento nella carriera nonché il passaporto svizzero nel momento in cui ne ha urgente bisogno. Com’è ovvio, qui riecheggia anche il tema dell’omosessualità (di sfuggita, col tatto proprio dell’autrice) così in voga nel Terzo Reich. E, naturalmente, durante la guerra Klaus si trova a dover partecipare alla “soluzione del problema ebraico”. Egli scrive che si ricorda perfettamente delle facce:

“Dopo le prime fucilazioni mi accadeva talvolta di vedere in sogno tutta la notte una faccia che mi aveva colpito durante il giorno. E la disegnavo e la ridisegnavo in sogno, non so se con la matita o con la rivoltella, e ogni volta la viscida macchia di sangue e i capelli che scendevano sul viso m’impedivano di terminare il disegno. Ma poi smisi di sognarmele”.

Già, Klaus ha un suo microcosmo, lui stesso scrive così, e in lui i ricordi occupano molto posto. All’inizio ha “lavorato” nei pressi di Kauen, poi vicino a Minsk, poi in altri posti. Ricorda come “stava ritto accanto alla prima fossa e contava i cadaveri che in essa venivano gettati”. Ricorda i partigiani, ricorda i bambini. Ricorda le sue promozioni nel sistema della GESTAPO. Che farci, scrive egli, “se vivere significava uccidere noi continuavamo a uccidere”. Klaus ammette che avrebbe potuto scegliersi un altro campo d’attività - a rigor di termini nessuno lo costringeva. Ma egli era ambizioso, già, ambizioso e… disinteressato:

“Il mio disinteresse era leggendario, amici miei, come lo era la mia instancabilità. Io fui, inutile ripeterlo, primo anche qui. E come ritornare indietro? Ritornare indietro a che cosa, se non trovi più significato in nulla e in nessuno? È presto detto ritornare indietro, quando tutti ti fanno talmente schifo che li ammazzeresti indipendentemente dal certificato razziale”.

A questo punto bisogna rilevare che nella “pratica” di Klaus s’incontravano anche elementi “eterogenei”: sebbene in genere egli “lavorasse” in un determinato campo, talvolta doveva occuparsi parallelamente anche di altre cose. Così, nel capitolo “Klaus VI” leggiamo il racconto particolareggiato di come una volta Klaus abbia diretto un’importante operazione. I fascisti avevano deciso un’operazione di rappresaglia in un villaggio russo, sospettando che in esso si nascondessero dei partigiani. Klaus uccise personalmente una vecchia e due bambini, e ne descrive uno (“avrà avuto sette anni, un bellissimo bimbo”), e Klaus non centrò il colpo, ci vollero tre revolverate per finire questo bambino sotto gli occhi della madre e di una folla di abitanti del villaggio.

Comunque fosse, Klaus veniva adoperato per “le missioni più delicate”. I nazisti contavano di farla finita col problema razziale in un tempo relativamente breve (il lavoro di eliminazione sistematica della popolazione ebraica era poco piacevole, ma “indispensabile per chi voleva avere un avanzamento”). E ciò nonostante, ci voleva del tempo: sparare e contare, sparare e contare, scattare fotografie - questo più che altro per il proprio piacere - e alla fine Klaus si stancò e cominciò a chiedere d’esser mandato al fronte, e la sua domanda fu accolta, ma poi Barnhoff gli procurò un “posticino d’oro in un piccolo campo di concentramento a due ore di macchina al nord di Praga”. Leggiamo altresì che Klaus non era mai stato un fanatico. Questo è un momento psicologico straordinariamente interessante; non era un fanatico, non era un sadico, non aveva nessuna inclinazione perversa, l’atteggiamento verso il suo lavoro efferato, infame, sanguinoso era straordinariamente prosaico; c’è da supporre che lo facesse coscienziosamente e seriamente, come vent’anni dopo avrebbe lavorato a Torino nella ditta di costruzioni.

Non so che ne penseranno gli altri, ma è proprio questo che a me sembra più terribile. Marina Jarre, in generale, non ha scoperto nulla di nuovo, da molte opere della letteratura mondiale antifascista conosciamo per l’appunto questa svolta del tema: l’ex fascista che ci si presenta nel ruolo del cittadino meglio intenzionato e più ossequiente alle leggi, è un ottimo impiegato e un buon padre di famiglia (“A casa il boia sorride mentre prende il tè e gioca volentieri a mosca cieca col suo bambino” scriveva Svetlov molto tempo fa); il passato è come cancellato dalla sua memoria, questo passato non c’è stato, non c’è stato nulla, un nuovo nome, un nuovo ambiente, nuovi interessi, una nuova vita. Nuove opinioni, anche? Ma, comunque, nella svolta del tema Marina Jarre ha dato prova di una certa originalità: ha creato la figura di un uomo che ricorda tutto e non rinnega nulla e, nello stesso tempo, non solo per l’istinto di autoconservazione, s’inserisce in una società completamente nuova, ma lo fa con un senso di completa stima di se stesso. Che diavolo, non è forse un democratico? Ma adesso faremo di nuovo una digressione.

 

 

Nel 1965 il giornalista italiano Mario Giovana, insieme col suo collega Angelo Del Boca pubblicò presso Feltrinelli un ottimo libro, “I figli del sole” (così si chiama un’organizzazione giovanile neofascista), col sottotitolo: “Mezzo secolo di nazifascismo nel mondo”; di quel libro ebbi a suo tempo occasione di parlare. Ma un anno dopo Giovana scrisse un altro lavoro, di piccola mole, ma questa volta esso uscì presso una casa editrice torinese poco nota, le “Edizioni Dall’Albero”, che s’interessa di problematica sociale. Essa pubblica libri a buon prezzo, con copertina di carta, destinati al lettore popolare. Mario Giovana analizza con cognizione di causa lo sviluppo del neofascismo italiano durante vent’anni, dalla fine della guerra al 1965. In primo luogo egli riferisce una gran quantità di dati e di fatti attendibili, ricavati da fonti di prima mano. In secondo luogo egli presta molta attenzione all’ideologia. Dove ha attinto le sue idee lo studente della facoltà di legge Romano V.? Egli, indiscutibilmente, legge qualcosa.

Afferma, infatti, che la pietra angolare della sua fede non sono soltanto l’articolo di Mussolini “La dottrina fascista” e il libro di Rosenberg “Il mito del Secolo Ventesimo”, ma qualcos’altro, e afferma inoltre che bisogna “studiare l’esperienza e i punti di vista di chi ha lavorato in nome del fascismo”. C’è ogni motivo di credere che Mario Giovana conosca il nocciolo della questione, ed ecco che, parlando dell’ideologia, fa in primo luogo un nome, quello di Julius Evola.

Ho già avuto occasione di scrivere nella “Inostrannaja Literatura” su Julius Evola, e precisamente come di un uomo che i neofascisti italiani considerano il loro ideologo, ma il mio articolo fu scritto un anno e mezzo prima che uscisse il libro di Giovana e soltanto sulla base delle varie rivistine e opuscoli neofascisti in mio possesso, cosicché a questa conclusione ero arrivata allora quasi per via d’intuizione. A quei tempi non avevo ancora letto il libro di Evola e la convinzione che proprio lui fosse l’ideologo di tutti i possibili “figli del sole” si era formata in me più che altro in base a dati indiretti. Adesso c’è l’affermazione categorica di Giovana. C’è inoltre un nuovo libro di Evola: “Il fascismo. Saggio critico analitico dal punto di vista del Diritto”, pubblicato dalla casa editrice romana Giovanni Volpe che si è specializzata in opere del genere. È un editore che sa chiaramente cosa volere e per che cosa lottare; fascismo, razzismo, antidemocrazia.

Il libro di Evola è scritto professionalmente, non volgarmente, senza la banale retorica e l’inveterata demagogia caratteristica della maggior parte degli scritti fascisti che ho avuto occasione di leggere. Mario Giovana afferma che per i “destri” Evola è quasi un profeta. Crediamogli e diamo alcune notizie su questo profeta. Il barone Julius Evola ha adesso settant’anni. Per oltre quarant’anni si è occupato di “idealismo magico” e di varie dottrine esoteriche. Non solo si crede filosofo, ma pretende di essere il solo vero ideologo del fascismo italiano. Nel 1939 egli pubblicò sul giornale “Tevere” una serie di articoli che, secondo alcune testimonianze, piacquero molto a Mussolini, il quale chiamava Evola semplicemente “il Barone”. Poi scrisse un libro intitolato “Sintesi della dottrina razzista”; esso rispondeva pienamente alle direttive propagandistiche del regime che a quei tempi, sotto l’influenza e la pressione di Hitler, si era completamente allineato sulle posizioni del razzismo, inesistente in Italia prima del 1938. Le teorie di Evola erano, per così dire, una variante italiana delle concezioni razzistiche tedesche. Parlando schematicamente, Evola affermava che esistono razze di due categorie, di prima e di seconda qualità. Seguiva la specificazione: razza “animistica”, “ iperborea”, “demoniaca”, “solare”, “tellurica”, “amazzonica” e via dicendo. Mario Giovana riferisce che i gesuiti della rivista “Civiltà Cattolica”, cui collaborano uomini qualificati, affermarono allora che la “sintesi” escogitata da Evola era frutto di una lettura assidua ma “mal digerita” ed era priva di qualsiasi valore scientifico. Mussolini, però, lesse il libro e lo approvò. In generale, tuttavia, e benché questo sia strano, nella bibliografia di quel tempo il nome di Julius Evola non s’incontra quasi mai.

Ma negli anni Cinquanta alcuni esaltati neofascisti proclamarono Evola loro profeta e padre spirituale. Vi sono peraltro altri fascisti, non meno convinti, che non hanno riconosciuto “il Barone” e si sono cercati altri ideologi. Ma lasciamo da parte tutte le loro beghe interne per rivolgerci piuttosto al suo libro “Il fascismo” perché, comunque, esso tira le somme e non è privo d’interesse. Meditando sull’esperienza del passato, Evola rivolge al fascismo italiano alcuni seri rimproveri. Secondo la sua convinzione il regime è naufragato perché era insufficientemente reazionario, faceva le riverenze alla plebe e si permetteva di dimenticare che non le masse ma le élites hanno sempre deciso le sorti delle nazioni. Ma vale la pena di parlare tanto del passato? Leggendo attentamene il libretto di Evola, vi trovo dei passi politici che si riferiscono chiaramente al presente. E anche al futuro. E questo, certo, è una faccenda più seria di quanto lo siano le nostalgie del “Barone”. Ogni movimento, infatti, sia esso estremamente progressivo o reazionario, ha bisogno di una piattaforma ideologica senza la quale non può esistere. Julius Evola propone questa idea, e noi cercheremo di capirla, ma per ora lasciamo da parte la “filosofia” e torniamo alla letteratura.

 

 

Quando si legge il romanzo per la seconda volta, volgendo l’attenzione, come si fa di solito, alle sfumature che sono sfuggite alla prima lettura, si scopre che Klaus Boehr nei suoi rapporti con la gioventù torinese, durante le passeggiate per la città, nelle conversazioni su questo e quello, si è trovato molte volte in una situazione un po’ equivoca. È sembrato spesso che stesse per accadere qualcosa d’imprevisto e di spiacevole, che Boehr, in fondo, si reggesse in equilibrio su una corda troppo tesa e potesse cadere. Ma una volta sola è accaduto davvero qualche cosa. L’episodio è descritto in sole tre o quattro pagine, ma è alla base di molte cose.

In circostanze che non staremo qui a narrare, la “banda”, ivi inclusi Patrizia e Klaus Boehr, entra nell’alloggetto semibuio di un antiquario per scegliere - in vista delle nozze imminenti - uno dei due specchi precedentemente messi da parte. In una poltrona, accanto alla stufetta, avvolta in uno scialle e sputando ogni momento nel fazzoletto, sta seduta la moglie dell’antiquario, fiacca, indifferente, che risponde laconicamente alle domande dei compratori. Essi le chiedono di accendere la luce e Boehr pronuncia una frase insignificante. E a un tratto, con la sua voce incolore la donna chiede dove mai può averlo veduto prima, egli non è italiano. Boehr, con perfetta padronanza di sé, risponde che è svizzero, vive a Torino da molto tempo e non ricorda d’esser mai venuto in quell’appartamento. “No”, ribatte lei e con la stessa voce monotona, ma con assoluta sicurezza, afferma che egli è tedesco, che di gente come lui ne ha vista tanta, non per nulla essa “sputa i polmoni nel fazzoletto”.

La vecchia non pronuncia nessun monologo, sembra anzi che non sia emozionata. Si limita a guardare Boehr e dice:

“Venti donne per tre vagoni con trecentosettantacinque casse. Da scaricare, senza interruzione. Dodici ore al giorno. Gli chieda dov’era”.

Per metter fine a questa scena spiacevole, Carlin dà la caparra per uno degli specchi e tutti si avviano verso l’uscita. La vecchia, sempre con la stessa voce monotona, dice mentre se ne vanno:

“Va bene. Vi fa comodo dimenticare. E che noi si parli vi secca. Ora ve li portate anche a spasso”.

Nient’altro. Nessun discorso accusatore. Resta oscuro se essa abbia riconosciuto Klaus, se l’abbia mai visto realmente, se egli sia stato realmente il suo carnefice o se abbia sentito in lui uno degli uomini che essa non potrà mai dimenticare, sebbene a quegli altri, forse, “faccia più comodo dimenticare”. Tutta la scena è scritta concisamente, efficacemente e produce una grande impressione. Nessuno, in generale, ha capito nulla; le ragazze sono sconcertate, Filippo dice che a volte accadono cose strane, e tutti concordano nell’idea che la donna sia un po’ tocca, se non addirittura pazza. Ma rimasto solo con Filippo, Carlin (“che idiota!”) comincia a fischiettare “Giovinezza” e dichiara inaspettatamente:

“Detto fra noi, ha davvero qualcosa dell’SS, il nostro Boehr”.

Così nel romanzo nasce una nuova suspense. Viene fuori che Carlin, che non ha abbastanza volontà da costringersi a dare finalmente quel maledetto esame di maturità, in certe cose si comporta come si deve. L’idea che fra di loro si trovi un fascista che nasconde il suo passato, che per giunta sposerà fra poco una delle ragazze della “banda” non gli dà pace. Egli vuole smascherare Boehr a qualunque costo. Appare il tema della responsabilità morale individuale, il tema dell’impegno dei doveri morali e civili.

Si affaccia la domanda: perché nel romanzo l’esponente dell’idea dell’impegno è per l’appunto Carlin, nevrastenico, soggetto a depressioni? È necessario soltanto per quella svolta del soggetto che Marina Jarre ha scelto, oppure dietro questo si nasconde qualcosa di più: l’atteggiamento dell’autrice verso la società italiana di oggi giorno, l’amara consapevolezza che troppi abbiano dimenticato il tragico, ignominioso passato? Forse il finale ci chiarirà questo, ma torniamo intanto ai capitoli “Klaus” che si combinano ottimamente con quelli in cui il racconto si svolge in terza persona.

Motivazione del matrimonio: Boehr non ama Patrizia, ed essa non desta neppure in lui particolari desideri, ma per una serie di considerazioni il matrimonio con una ragazza della grossa borghesia torinese gli fa comodo: “l’ingegner Boehr entra definitivamente nel suo mondo”. Poco importa se sarà un’esistenza monotona, banale; Boehr, come s’è detto, “non è un fanatico” e non lo attirano le avventure “in un posto qualunque del Brasile”. Egli ha vissuto troppo a lungo col complesso dell’incompletezza, ha avuto paura che qualcuno lo giudicasse, adesso per fortuna si è liberato di quel complesso e le circostanze gli sono favorevoli.

Klaus riflette sui suoi compatrioti rimasti nella Germania Federale. Essi, beninteso, al pari di lui non hanno assolutamente nessuna colpa, e gli argomenti di difesa sono gli stessi: non sapevano nulla, hanno eseguito gli ordini, e così via. Tuttavia lui, Boehr, si comporta più sensatamente di molti. Per esempio, prima di fuggire da Praga il cinque maggio del millenovecentoquarantacinque, distrusse accuratamente gli archivi (“quest’ultimo lavoro, eseguito per il bene della diletta patria, lo feci con lo stesso scrupolo col quale avevo assolto i miei compiti precedenti”); sicché, egli incendiò gli archivi, poi s’incontrò con Barnhoff che aveva un’idea fissa: “soprattutto, evitare i russi!”, poi ricevette il suo passaporto svizzero. Oramai non era più un attore, bensì un testimone della scena conclusiva dell’ultimo atto; egli sentiva dire: “i tedeschi sono spacciati”. Ed ecco, a pagina 383 del romanzo leggiamo una sorta di “manifesto” del criminale di guerra, collaboratore della GESTAPO, Klaus Boehr, felicemente sistematosi a Torino:

“Io ho imparato la lezione; sono sempre stato svelto nell’imparare. Io sono pensoso dei diritti della democrazia, io sono contro la pena di morte, contro i calpestatori delle aiuole, per l’eguaglianza dei popoli di tutti i colori e di tutte le religioni, per l’edilizia scolastica. Io sono come voi. Lo sono sempre stato, del resto, … Confermatemi, perciò, la mia definitiva innocenza, non vi mando forse una bomboniera di gusto perfetto?”

Ben detto: conciso, ironico, crudele - beffardo, per esser precisi. E non una parola dell’autore. Non è forse questo un vero atto d’accusa, una vera requisitoria pronunciata dallo stesso Boehr contro tutti coloro che preferiscono dimenticare, che si permettono di dimenticare, aggiungiamo noi? È paradossale, naturalmente, che il nazista Boehr dichiari: “Io sono come voi”. Ma occorre applicare un coefficiente correttivo: “voi” non è un concetto uni versale, in nessun caso è applicabile al popolo italiano, non bisogna generalizzare, “voi” è soltanto una determinata categoria di uomini, seppure dobbiamo notare con rammarico che questi uomini non sono poi così pochi.

La vita, intanto, segue il suo corso: storie d’amore, lavoro, studio. Filippo ha finalmente persuaso Carlin a dare gli esami di maturità, l’aiuta a studiare. Parallelamente si sviluppa un altro tema, quello dei rapporti fra Carlin e Klaus. Esteriormente si vanno creando delle relazioni quasi familiari, essi passano a darsi del “tu” e si chiamano per nome. Ma dietro questo c’è un gioco complesso, ci sono delle conversazioni piene di tensione: uno vuol sapere di sicuro (benché, interiormente, sia convinto di non sbagliarsi), l’altro è troppo intelligente per non capire. Capisce, ma, inspiegabilmente, c’è in Carlin qualcosa che attira Klaus. Non solo, ma in certi momenti fatica a vincere la tentazione di raccontare qualcosa di sé, di confessare qualcosa. Forse perché Carlin gli ricorda uno degli intimi amici della sua giovinezza, l’abbiamo già menzionato: Gerd von Beck. No. Klaus non ha detto nulla, egli sa dominarsi. E nondimeno… Una notte Filippo è destato dallo squillo del telefono, è Carlin che dice:

- Te lo dico per telefono, subito, perché magari domani è troppo tardi. Può anche darsi che mi faccia fuori.

- Come? - chiese Filippo - Chi ti farebbe fuori?

- Il Boehr - disse l’amico.

Il ritmo della narrazione si fa più rapido, si ha la sensazione dell’inquietudine. Non è ancora avvenuto nulla, ma può avvenire. Filippo è tutt’altro che uno psicologo, non è particolarmente impressionabile e non è incline a occuparsi di cose che non l’interessano direttamente. Ma a poco a poco anche lui è pervaso dalla consapevolezza che tutto questo non è “un volgare romanzo”, ma qualcosa di molto serio e impegnativo. Veniamo a sapere la continuazione della storia della vecchia: Carlin e Klaus erano andati in macchina a ritirare lo specchio, Carlin era entrato solo nell’appartamento. Quando ne era uscito, Klaus, con tono disinvolto, ma guardando fisso Carlin aveva domandato: “Be’, cos’altro ti ha raccontato la vecchia signora?” E quando Carlin aveva risposto che la vecchia sembrava non averlo nemmeno riconosciuto, Klaus aveva osservato con voce leggera: “Sempre d’accordo, noi due”.

“E in quel momento - dice Carlin, un po’ agitato, a Filippo - ho capito che se avessi detto qualcosa di diverso, m’avrebbe sparato. Due colpi e kaputt. Non ero più il Carlin…, non ero più un essere umano, ma soltanto la macchiolina sul bel dipinto, o la classica pedina sbagliata in un gioco riuscito”.

Che cosa dovranno fare adesso? Il fatto è che Filippo promette all’amico di aiutarlo. Nessuno dei due ha idea di come procedere in pratica. Carlin vuol andare con Filippo in Svizzera, raccogliere prove, ma per il momento prega l’amico che sarà testimone alle nozze e vedrà i documenti presentati per le pubblicazioni di matrimonio di annotarsi mentalmente tutti i dati che si riferiscono a Boehr: luogo e data di nascita, nome dei genitori, e via dicendo. In generale, anche Filippo a un dato momento è compenetrato dalla convinzione che “il maledetto tedesco” li stia ingannando tutti nel modo più spudorato. Ma a questo punto interviene nel gioco una terza circostanza: Filippo, infatti, è un realista, che riconosce soltanto i fatti, e non un sognatore come il suo amico Carlin. Egli è contrario ad ogni azione impulsiva, non meditata.

Il ritmo del racconto rallenta di nuovo, passano in primo piano le relazioni tra Filippo e Daria: all’inizio egli era perdutamente innamorato, sognava di sposarla, poi aveva cominciato a esitare: c’era in lei un’inquietudine che gli riusciva incomprensibile, una mancanza di equilibrio, l’intimità con lei gl’imponeva particolari obblighi morali; per colmo, come per una sfida insensata, inspiegabile, Daria aveva dichiarato che lo tradiva con Carlin. Filippo, naturalmente, era ferito, scombussolato, geloso, ma l’autrice del romanzo, come ho già detto, possiede un innegabile buon gusto: sarebbe troppo elementare costruire il soggetto sul fatto che Filippo, indignato per il “tradimento” del suo migliore amico, per vendetta - diciamo così - non partecipi più allo smascheramento di Boehr. Niente di tutto questo. Boehr ha già detto parecchie volte che è preoccupato per la salute di Carlin (gli sembra, dice, che Carlin soffra di sovreccitazione nervosa, di esaurimento) ma non osa però insinuare che Carlin abbia delle idee fisse.

Ed eccoci al colloquio decisivo, tra Filippo e Carlin. Filippo porta all’amico dei materiali che gli occorrono per gli esami. Trattandosi di una delle scene culminanti del romanzo, ne riporterò un brano:

- Ti ho portato gli ultimi appunti, dopo di che avremo finito.

- Quando partiamo?

- Senti, ci ho pensato - disse Filippo, e non mentiva che a metà, perché parlando veniva coordinando briciole di ragionamento che s’erano incrociate nella sua testa durante la giornata - ci ho pensato. Non mi sembra il momento.

- Ho capito - disse il Carlin - anche tu mi credi affetto da delirio.

- Ma nient’affatto, solo mi sono detto che perderci del tempo dietro a questo ipotetico criminale di guerra, ora che stai per dare gli esami, sarebbe follia.

- È molto più importante che i miei esami.

- Questo non lo sappiamo ancora.

- Insomma, che cosa proponi?

- Propongo di lasciar correre per il momento. Dai gli esami, e poi se ne riparla.

- Ti ha infinocchiato anche te coi suoi miti modi perbenino, e il suo linguaggio da penna stilografica?

- Per nulla, protestò Filippo… per nulla. Ma amo le cose concrete, io.

- A forza d’amare le cose concrete quasi quasi gli inglesi si alleavano con Hitler - disse Carlin - Non mi resta che salire a cavallo da solo…

Non è ancora la fine della disputa: sempre di nuovo, nei pochi giorni che rimanevano prima delle nozze di Klaus, Carlin ritorna ostinatamente, drammaticamente sulla questione. Non può agire da solo, non se la caverebbe, ma con tutto l’essere vuole raggiungere lo scopo, strappare la maschera dal viso di quel maledetto nazista. Filippo, però, tiene duro: Carlin è un “anarchico”, vi sono cose più importanti, tutto questo è troppo problematico, bisogna prima dare gli esami… E dopo uno di quei discorsi penosi, Carlin dichiara: “Be’, vado a casa. E quanto a te, me la pagherai”. Filippo vede Carlin salire in tram e sospira, sollevato. “Era andata bene, se Dio vuole, non si sarebbe più riparlato di criminali di guerra”.

Filippo ripensa alla minaccia dell’amico: “Me la pagherai”. È una sciocchezza, naturalmente, Carlin riapparirà tra qualche giorno, forse l’indomani stesso per sapere come sono andate le nozze. A meno che non venga in chiesa a vedere, ma non ne avrebbe il coraggio. Comunque sia, la situazione si è veramente chiarita e Filippo è soddisfatto. In realtà, dice fra sé, egli non aveva mai avuto l’intenzione d’andare in Svizzera, non aveva mai pensato di rimettersi con Daria. Finito, tutto finito, era guarito; andasse un po’ dove voleva, quella bugiarda, e Carlin andasse pure dove gli garbava. In quanto a lui, Filippo, aveva fatto il suo dovere.

[…]

Ed ecco l’apoteosi, l’ultimo capoverso [dell’ultimo capitolo su Klaus]:

“E se non mi credete, guardate i fatti, guardate le conclusioni. Guardate da che parte è stata la fortuna - poiché è pur sempre fortuna, no, vivere e respirare e mangiare e morire d'una morte decente - guardate com'è finita, al di là dei mucchi di cadaveri scarniti, al di là dei mucchi di vestiti vuoti, al di là della cenere, al di là degli urli e del terrore, al di là della serranda del garage, guardate da che parte è stata la fortuna. Da che parte è stato Dio.

Che colpa ne ho io, se Dio è stato con me, se Dio è stato con noi?”

 

 

[…] Nel risvolto degli editori Samonà e Savelli leggiamo che il romanzo “Monumento al parallelo” darebbe una risposta poetica a uno dei più grandi interrogativi del nostro tempo: “Per chi è fatta la nostra società? Chi sono in essa i vincitori e chi sono i vinti?” Mi sembra che la domanda sia formulata esattamente, ma il romanzo dà una risposta? E l’autrice del romanzo era in grado di dare una risposta?

Riferendoci a questa impostazione della domanda, non possiamo non rivolgerci di nuovo a Julius Evola e al suo libro “Il fascismo”. Ricordo che egli analizza l’esperienza del fascismo italiano “dal punto di vista del Diritto”. Evola, del resto, non parla soltanto del regime di Mussolini, ma si crede in dovere di difendere anche Hitler. Leggiamo infatti:

“Ci è nota la propaganda organizzata su scala inaudita, che, richiamandosi soprattutto alla Germania, cerca di presentare tutto quanto è avvenuto in quel periodo soltanto come una massa di mostruosità, come un’infamia e un orrore. In primo piano, naturalmente, si adducono la GESTAPO e l’OVRA, i campi di concentramento e via dicendo, con tutte le esagerazioni, le generalizzazioni arbitrarie, e talvolta con vere frottole adatte allo scopo”.

In questo articolo non mi dilungo sul libro del “Barone”, sui suoi giudizi in merito all’economia, al regime corporativo, alla politica estera, al problema della razza (una sola osservazione di sfuggita: qualora i regimi fascisti avessero vinto la guerra e instaurato il “nuovo ordine” mai e poi mai avrebbero tollerato “la ribellione dei popoli di colore, mai sarebbe nata la psicosi nefasta dell’anticolonialismo”). Voglio soffermarmi soltanto sulle questioni sollevate nel tredicesimo capitolo del libro, l’ultimo e conclusivo, contenente alcune considerazioni che m’interessano.

Julius Evola è malcontento delle “leggi straordinarie” esistenti in Italia contro il fascismo e l’apologia del fascismo. Ritiene anzitutto che tali leggi contraddicano la logica, giacché, pur ammettendo anche lui che ciò è un po’ paradossale, in regime di democrazia la “libertà d’opinione” dev’essere garantita a tutti, ivi compresi gli antidemocratici. Ragionando teoricamente, egli è cosi magnanimo da ammettere che uno stato democratico abbia il diritto di difendersi contro chi vorrebbe abbattere questo stato con la violenza, ma subito dopo ricorda che né in Italia né in Germania si è verificato qualcosa del genere: in Italia il re affidò a Mussolini l’incarico di capo del governo, e in Germania il nazismo salì al potere dopo aver ottenuto la maggioranza dei voti in parlamento e con un plebiscito.

Si legge tutto questo e non si sa se indignarsi o ridere. Perché, insomma, bisogna avere una mentalità pervertita e un’incredibile faccia tosta per scrivere adesso cose simili. Ma c’è di meglio. Siccome “il Barone” è un uomo di larghe vedute, egli ammette che il governo della repubblica italiana possa elevare delle obiezioni contro certe manifestazioni esteriori (saluto fascista, camicia nera, inni fascisti, ecc.) ma non capisce proprio perché l’apologia del fascismo possa esser considerata un reato. Questo, dice lui, è giuridicamente assurdo, tanto più che bisogna anzitutto stabilire che cosa si debba intendere per “fascismo” e “fascista”. E stabilire questo, secondo Evola, è praticamente impossibile in quanto, studiando altri regimi precedenti, a cominciare dall’antichità, vi ha trovato molti caratteri propri del fascismo.

“Per chi dunque è fatta la nostra società?” - come dice l’editore napoletano - “chi sono in essa i vincitori, e chi sono i vinti?” Per nostra grande fortuna, pur non chiudendo gli occhi sui neofascisti, sull’attività dei gruppi più conservatori della borghesia monopolistica, sulle faccende tipo SIFAR, noi non accetteremo mai l’idea che i vincitori siano loro, che la preponderanza sia dalla loro parte, anche se un Klaus Boehr dichiara: “Che colpa ne ho io se Dio è stato con me, se Dio è stato con noi?”.

Julius Evola il quale, a proposito, scrive senza falsa modestia che non solo in Italia, ma neppure in Europa è mai uscito un libro simile al suo “ Saggio critico analitico dal punto di vista del Diritto”, ritiene che nella dottrina fascista siano riposti dei valori che hanno conservato tuttora la loro importanza e attualità. Egli precisa il suo pensiero:

“La prima cosa che caratterizza lo stato di cui parliamo è l’assoluto rifiuto di accettare qualsiasi democrazia e qualsiasi socialismo. Questo stato metterà fine alla stupida adulazione, alla vigliaccheria e all’ipocrisia di tutti coloro che oggigiorno non fanno che ripetere la parola «democrazia», proclamare la democrazia, esaltare la democrazia. La democrazia non è altro che un fenomeno regressivo, decadente”.

“Il Barone”, va rilevato, non ha molta stima per il “movimento nazionale” del nostro tempo, cioè per i neofascisti, il cui ruolo è limitato (bisogna adoperarli “quasi unicamente per la difesa fisica”). L’essenziale è di trovare uomini o gruppi di uomini che abbiano il coraggio di alzare gli scudi e di difendere senza compromessi “ciò che di positivo vi era nel fascismo”. In quanto alle masse, è molto semplice: “la formula «politicizzare le masse» dev’essere ripudiata. La maggior parte di una nazione sana e ben governata non deve occuparsi di politica. La triade fascista «autorità, ordine e giustizia» conserva salda il suo valore”.

 

 

Sì, escono libri come “Il fascismo” di Julius Evola. Sì, nella città che sorge sul quarantacinquesimo parallelo e in altre città italiane, e non solo italiane, vivono uomini come Klaus Boehr, e non se la passano male, c’è poco da dire. E ci sono studenti come Romano V. proclamanti la loro fede nell’ideologia del fascismo. Ed esiste un partito neofascista M.S.I. (“Movimento Sociale Italiano”), che afferma d’avere una “visione etica della vita” e che ha scelto come simbolo un catafalco dal quale sprizza una fiamma tricolore. È un’allegoria piuttosto banale, a dire il vero, vuol significare l’eternità dell’idea dalle immarcescibili ceneri del duce. E si potrebbero aggiungere molte altre cose. Ma non è questo che decide.

Sono ben altre le cose che decidono: le leggi della dialettica, le leggi dell’evoluzione storica. Nel suo stadio attuale il “neocapitalismo” italiano nelle condizioni di “stato di benessere” ha puntato sulla carta del centro-sinistra, acconsentendo a certe riforme e concessioni letteralmente strappategli dal movimento operaio organizzato. Ma a un qualsiasi serio mutamento della congiuntura economica si potrebbero fare dei tentativi di rigiocare la partita, e questi tentativi sono già stati. Non è un segreto per nessuno che il capitale monopolistico è per sua natura dispotico, incline alle decisioni autoritarie, e tiene sempre in riserva qualche variante “di tipo greco” che in Italia, però, forse non passerebbe. […] Io sono profondamente convinta che ci siano tutte le ragioni per essere ottimisti.

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03/01/01


 [ 1]Cecilia Kin: “Il quarantacinquesimo parallelo”, Inostrannaja Literatura (URSS), 6/70