“Le città invisibili dei figli di Gershon” |
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Marina
Jarre narra in “Ritorno
in Lettonia” la storia della sua stirpe; ebrei sefarditi votati all’esilio.
La guardi. Ha quasi
ottant’anni e sembra il tronco di un ramo secolare, qualcosa di antico,
irriducibile, che non sente pioggia, vento, stagioni. Le parli e dopo un paio
di minuti ti viene in mente Italo Calvino, le sue Lezioni americane,
quelle pagine sulla leggerezza, sul salto di Guido Cavalcanti al di là del muro
o sulle ali dell’Ippogrifo. Calvino avrebbe dovuto incontrare Marina Jarre e
parlarle o leggere Ritorno in Lettonia
(Einaudi, pagg. 270, euro 17,50) e farsi raccontare come si può attraversare il
brutto della storia senza perdere l’ironia, il sorriso lieve, il perdono, la
saggezza, il disincanto di chi ha nelle vene il sangue del sangue di
generazioni di avi in fuga o perseguitati, minoranze di minoranze, erranti e
nomadi, o asserragliati in qualche valle piemontese, e decimati dal Dio di Roma
o dalla peste. E tutto questo senza rinnegare mai nulla, senza rabbia,
bestemmie, con la consapevolezza che ti può scuotere solo ciò che tra cento
anni non riesci a dimenticare. Il resto passa. La leggerezza - diceva Calvino -
è profondità. La leggerezza pesa.
Jarre è il cognome del marito. Lei si chiama
Gersoni, nata nel Baltico da padre ebreo e
madre valdese. La storia non le ha lasciato
rughe, solo qualche piccola cicatrice e un rimpianto: non aver salutato suo
padre in quella mattina del 1935, quando si lasciò alle spalle il portone di
Andreja Pumpura iela numero 2 per scappare, con sua madre e sua sorella, in Italia. Fuga da Riga, Lettonia. Fuga incosciente di una bambina di
undici anni verso Torre Pellice, nelle valli valdesi, provincia di Torino, dove
vivevano i suoi nonni. Un viaggio che, di lì a pochi anni, le avrebbe salvato
la vita. Quando Marina Gersoni lascia Riga le armate di Hitler sono ancora
lontane. Non c’è stata ancora l’Anschluss, non è ancora arrivato il ‘38 della
Cecoslovacchia e Varsavia è ancora libera. Marina e Annalisa Gersoni vanno via
semplicemente perché i genitori hanno divorziato e la madre pensa che sia più
utile allontanarle da un padre poco affidabile, che si risposerà con
un’infermiera tedesca e avrà una bambina, Irene. Moriranno tutti, il 30
novembre 1941, una domenica mattina. I nazisti in Estonia, Lituania, Lettonia,
Bielorussia, Ucraina, Crimea hanno cominciato lo sterminio presto, prima della
conferenza di Wannsee (gennaio ‘41). Fu allora - racconta la storia - che
Hitler annunciò la “soluzione finale”, l’eliminazione completa degli ebrei. Nei
Paesi baltici era già avvenuta.
Marina è in Italia e nel
luglio del ‘41 riceve una lettera del padre. È una richiesta d’aiuto. Non avrà
mai risposta. Padre e figlia non si vedranno più. Sessant’anni dopo, da qui, da
una risposta non data, da una storia accantonata ma non risolta, da un
riavvicinamento postumo, nasce Ritorno in Lettonia. Da un dovere. Eppure
non è un romanzo sulla shoa. Non è neppure una testimonianza. Non è, non
vuole essere, una lezione sull’orrore del passato, un “non dimenticare” lasciato
alle generazioni che verranno. “Tanto - dice lei - non credo che serva. Quello
che è successo è una storia irreparabile. L’ho fatto per me, per un atto di
giustizia”. Uno dei suoi personaggi - in un libro precedente - ci dice
tutto, ci racconta il rapporto che questa signora di quasi ottant’anni, ebrea a
metà, ha con l’Olocausto: “Di questo orrore possono raccontare solo i
testimoni. E noi, e io non posso scriverne perché questa cosa, questa cosa non si
può inventare. Perciò niente romanzi, niente film, niente commemorazioni,
niente di niente. Solo loro, solo chi è sopravvissuto ha il diritto di
testimoniare. Se ci riesce. La cosa non può essere narrata, non sopporta
l’espressione letteraria; lo sterminio non può essere raccontato. Raccontare è
tradire”.
Ritorno in Lettonia è un’altra cosa. È un cammino che pian
piano diventa libro. È il racconto di una ricerca, iniziata quasi per caso,
come se il destino ti avesse messo su quella strada e poco alla volta prima
l’autrice e poi il lettore si ritrovano a mettere insieme i pezzi. Ritorno
in Lettonia è un adolescente che non può aiutare il padre. È una bambina
graziata dal fato. È una colpa che non è una colpa. È una preghiera davanti ad
una pietra nera con incisa la stella di Davide. Ed è soprattutto la lunga
storia di una stirpe, di una diaspora che comincia da molto lontano e disperde
i Gersoni nel mondo. “Ebrei sefarditi, espulsi dalla cattolica Isabella,
sospinti di paese in paese dall’intolleranza e dalla miseria dei ghetti
europei”, alcuni di loro viaggeranno verso Nord, fino in Polonia e da lì,
all’inizio del XIX secolo a Mitau, capitale del Granducato di Curlandia, oggi
Lettonia. Per ritrovarsi poi ancora divisi, in Canada, in Italia, in Brasile, alcuni
mantenendo la i finale, altri trasformando quella i in y: Gersoni o Gersony,
come l’altra Marina, quella che scrive sul Giornale, anche lei
personaggio incontrato come frammento vagante del libro. E di questi Gershon,
Marina Gersoni, sposata Jarre, narra mestieri e matrimoni, morti e cambi di
residenza, tracciando le rette di città invisibili, luoghi perduti, con un nonno che comprava pellicce in Siberia, un
parente che attenta alla vita dello zar, un altro fabbricava fischietti,
toccati da un pizzico di folle magia: facevano rientrare nella stalla una mucca
smarrita.
Strana la gente di
questa sorta di Macondo millenaria che è la terra, migrante e immaginaria, dei
Gersoni. Terra senza radici. “Perché - sostiene - resto un’apolide, che la sua
identità se l’è costruita con gli anni, con i figli, il marito, il lavoro”. Ma,
forse questo sì, per chiudere un cerchio, smentendo la vecchia canzone yiddish Ess
firt kejn weg zurick (“nessuna strada conduce indietro”), Marina Jarre è
tornata in Lettonia, per ritrovare i Gersoni: “Non saprò mai a quale punto del
cammino secolare abbiano perso la chiave di casa, saprò soltanto che non hanno
mai perso né il sabato né la Pasqua, né, naturalmente, la i”. O la y.
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04/04/04
[ 1]Vittorio Macioce: “Le città invisibili dei figli di Gershon”, Il Giornale, 27/9/03