“Quell’accento straniero” |
|
La felice prova narrativa di Marina Jarre
Con questo ponderoso romanzo, già pubblicato - e passato sotto
silenzio - in una precedente versione
e con altro editore qualche anno fa, Marina Jarre si dimostra, meglio che con “Negli occhi di una ragazza”,
narratrice d’indubbio talento e straordinario vigore intellettuale. Ma non si
tratta tanto, come vorrebbe il risvolto editoriale, di solidità e forza
tradizionali, visto tra l’altro che di fessure, discrepanze strutturali,
tentazioni espressive diverse il libro non manca, quanto di impianto e di
scrittura, di ampiezza e intelligenza tematica.
Il romanzo, che si situa appena a monte della contestazione, e pour
cause, fa perno su due temi legati tra loro: quello della spirale
degenerativa nazista, vista dall’interno nel suo farsi, e quello del fallimento
della generazione dei padri “democratici”, affiorante nel nevrotico e impotente
sbattere d’ali dei figli. Il libro procede un po’ per capitoli alterni: gli uni
riguardanti Klaus, il personaggio chiave, uno dei demoniaci assassini di Hitler,
biondo e bellissimo, che alla fine del conflitto riesce a mimetizzarsi per
ricomparire sotto falso nome nella Torino borghese e miracolata del dopoguerra;
gli altri un gruppo di giovani amici che vivono la loro educazione alla vita
ancora all’ombra dei padri, dei quali tuttavia intuiscono confusamente gli
errori, ma senza prenderne coscienza.
Per venire più da vicino alla storia, precisa ma anche complessa
nei suoi dettagli psico-sociologici, la Jarre nei capitoli dedicati a Klaus
introduce un allucinante monologo, attraverso il quale egli ripercorre a
ritroso le tappe determinanti della sua formazione: famiglia, frustrazioni,
volontà di rivalsa, esperienza omosessuale, ineluttabilità di una scelta già
fatta, per arrivare, a guerra finita, a una sostituzione di identità, che egli
tenta di giustificare intellettualmente per sé, con chiamate di correi per gli
altri. Intanto nella sua nuova identità di pacifico professionista, Klaus viene
a contatto con il gruppo dei giovani di cui, nei precedenti capitoli, l’autrice
ci aveva già fatto conoscere origini, status, pensieri, parole, qualità, e che
rappresentano grosso modo, nei vari aspetti attribuiti esemplarmente a ciascun
componente, l’ambigua e fragile e falsa realtà degli anni Cinquanta.
Costruito con sapienza, il romanzo, che ha alle sue spalle i
nomi più illustri della letteratura europea, vive del martellante monologo di
Klaus, dei dialoghi spesso puntualmente significanti, anche se risaputi, dei
giovani, di un sottile filo di ironia, perfino di comicità, ma soprattutto di
ricerche psicologiche, di intuizioni morali, e certamente anche di una
collocazione ambientale, la Torino vacua di quegli anni, cosi efficace da
apparire quasi determinante.
La parte migliore del libro resta tuttavia il personaggio di Klaus,
con tutto il bagaglio di idee e ricatti morali che si porta dietro, la
complessa matrice filosofica, le giustificazioni fenomenologiche e ideologiche
che conduce, l’infernale e allarmante verità di alcune “chiamate” che provoca,
l’inquietante naturalezza della sua abiezione, il livido specchio di un’epoca.
Un libro quindi, che nonostante la gracilità espressiva di alcune parti
riguardanti i giovani e la loro frusta “parlerie”, resta tra i più
significativi e raccomandabili di questa stagione.
SITE MAP . |
02/01/01
[ 1]Alcide Paolini: “Quell’accento straniero”, Il Corriere della Sera, 27/8/72