1.5- Il secondo dopoguerra e la rinascita economica

Anche se gli effetti dei bombardamenti del secondo conflitto mondiale erano stati pesantissimi, alla fine della guerra alla Orlandi si raccolsero i rottami, ci si rimboccò le maniche e si tornò a lavorare. Grandi novità stavano investendo tutto il settore sia a livello di prodotto che a livello organizzativo.

Tra gli esperti del settore del trasporto di massa ci si interrogava su quale fosse la posizione giusta per il motore. Inizialmente in Italia gli autobus erano visti come una derivazione dell’autocarro, quindi il motore era posto nella parte anteriore del mezzo.

Si cominciò poi a pensare che il motore in questa posizione portava via spazio e produceva rumore e si iniziò a valutare la possibilità di metterlo “in pianta”.

 

 

 

 


L’evoluzione continuò nei paesi tecnologicamente più avanzati. Renzo Orlandi decise così di mandate il proprio figlio Angelo, appena laureatosi in ingegneria, negli Stati Uniti per sei mesi a cavallo tra il 1947 ed il 1948 per studiare tali evoluzioni. Negli Stati Uniti in quel periodo era in corso una grossa diatriba sulla posizione del motore: tutti concordavano sulla necessità di toglierlo dalla parte anteriore, ma vi era contrasto sulla sua collocazione. Meglio sotto il pavimento o meglio nella parte posteriore?

Tale scontro continuò a lungo con differenti interpretazioni dei vari costruttori in quanto non era affatto affermata come oggi l’idea del motore posteriore. Infatti non pochi erano coloro che sostenevano la posizione del motore al centro per una migliore distribuzione dei pesi (posto dietro poteva causare in determinate situazioni un pericoloso effetto pendolo) e per una maggiore comodità nel sistemare i bagagli dei passeggeri dietro anziché al centro.

Con il passare degli anni si giunge all’affermazione della posizione a motore posteriore, anche se esiste tutt’oggi qualche raro caso di motore al centro. Inizialmente l’idea che andava per la maggiore era quella con il motore posto parallelamente all’asse del veicolo.

 

 

 


Si pensò in seguito ad una soluzione con il motore posto trasversalmente rispetto all’asse del veicolo per ottimizzare gli spazi.

 

 

 


Un altro aspetto dell’evoluzione tecnologica riguarda gli ammortizzatori: siccome l’autobus veniva visto come un autocarro e le soluzioni tecniche utilizzate si rifacevano a questa concezione, era chiaramente sacrificato il comfort del passeggero in quanto il mezzo aveva la stessa struttura di un macchina utilizzata per trasportare ghiaia. Si cercò quindi di passare in un primo momento ad ammortizzatori particolari di dimensioni molto grandi, poi si adottarono le cosiddette sospensioni ad aria.

Si cominciarono a creare norme di sicurezza ben precise riguardanti per lo più la distribuzione dei pesi, il carico degli assi e la resistenza delle strutture. Assai importante fu il passaggio dalla struttura in legno a quella metallica. Nacquero materiali completamente nuovi che consentirono riduzioni di peso ed applicazioni più rapide quali ad esempio i poliesteri per l’interno o antiruggine e nuove vernici per l’esterno.

Il prodotto si presentava maggiormente curato non solo per ottenere un comfort migliore, ma anche per una maggiore sicurezza ed una più lunga durata dell’investimento del cliente.

Oltre a tali novità tecniche, nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, presero piede importanti novità commerciali e produttive per tutto il settore. Un tempo il prodotto aveva bisogno di una personalizzazione a volte esasperata richiesta dal cliente, cosa che rendeva difficile l’affermazione della lavorazione in serie. Tale difficoltà veniva accresciuta anche da un mercato che presentava una richiesta complessiva modesta a fronte di un elevato numero di carrozzieri. Eravamo quindi in presenza di bassi stock di lavorazione e non era quindi possibile pensare ad un prodotto in serie. Questi due problemi hanno fatto sì che l’autobus fosse un prodotto nel quale era forte l’incidenza diretta dell’operaio.

Con il tempo i clienti si sono  abituati ad acquistare il prodotto attraverso strutture commerciali. Sono quindi comparsi i rappresentanti, i concessionari ed è scomparso il dialogo diretto tra il titolare e l’acquirente. Oggi, se non si è arrivati a vendere l’autobus come una vettura, vi è stata una profonda modificazione della mentalità del collocamento del prodotto rispetto ai decenni passati.

Questa è una importantissima innovazione per l’intero settore del trasporto di massa che si origina negli anni successivi alla seconda guerra mondiale e porta come conseguenza la vendita attraverso quelle unità commerciali che sono al giorno d’oggi utilizzate dall’intero settore.

Oltre ad una evoluzione commerciale, in quegli anni, prende piede anche una altrettanto importante rivoluzione nel processo produttivo. E’ infatti sempre maggiore il decentramento della produzione. A Modena il campo del trasporto ha una posizione molto importante anche dal punto di vista sociale con l’esistenza, oltre alla Orlandi, di altre ottime e qualificate carrozzerie (quali ad esempio Padane, Autodromo, Barbi) ed un’infinità di piccoli artigiani collegati a questo mercato. Oggi, quando si fa un veicolo, la maggior parte dei lavori che possono essere svolti ad di fuori del complesso aziendale viene, per ragioni di costo, decentrata all’esterno ad officine artigianali. Questo lavoro comporta quindi un indotto esterno di notevoli dimensioni con almeno tre risultati evidenti:

1) si crea un’infinità di piccole officine collaboratrici esterne,

2) si ha la possibilità di contenere i costi,

3) si ha una forma che consente di aumentare il volume di produzione senza ricorrere ad eccessivi investimenti.

Con la fine della guerra era quindi anche finito un mondo e con esso un modo di operare. Se prima al lavoro bastava la qualificazione data da un artigiano preciso e capace, con i nuovi tempi erano arrivati nuovi sistemi: automazione, managerialità e specializzazione prendevano sempre più piede dando vita ad un nuovo tipo di imprenditorialità.

La ricostruzione a Modena dopo la guerra si presentava assai complicata. Il malcontento per le difficili condizioni di vita era molto diffuso: questo malcontento portò al coinvolgimento dei partiti di sinistra e della Camera del Lavoro in uno scontro sociale e politico molto duro che assunse in alcuni casi risvolti drammatici e sanguinosi che costarono morti, feriti e l’arresto di molti lavoratori.

La Camera del Lavoro di Modena si ricostituita sei giorni prima della Liberazione ed era guidata dal comunista Arturo Galavotti. Notevoli erano le differenze rispetto quella di inizio secolo: innanzitutto il gruppo dirigente era interamente costituito da modenesi, poi il fatto che la componente anarco-sindacalista si era dissolta, l’organizzazione faceva capo ad una sede centrale provinciale, infine sorsero in tutti i comuni della montagna sedi camerali.

Nell’immediato dopoguerra vi furono quindi a Modena grandi lotte agrarie ed operaie. Nelle campagne modenesi povertà e crisi opprimevano la maggioranza dei contadini. Nel 1946 vi era stato un calo della produzione di uva del  65% rispetto alla media, quella della carne del 30%, quella della frutta del 40%, mentre la produzione del latte si era dimezzata. In questi anni l’elemento dominante fu la mancata meccanizzazione dell’agricoltura che dipese dall’opposizione dei lavoratori che temevano per una riduzione dei posti di lavoro e dal basso costo della manodopera. Il movimento mezzadrile chiedeva contratti con durate indeterminate, un aumento del riparto dal 50% al 60%, abolizione delle regalie e l’obbligo di destinare una quota del prodotto padronale in opere di miglioramento. Le lotte agrarie che si vennero così a creare nel dopoguerra non furono solo fonte di instabilità, ma diedero anche un importante contributo alla ripresa produttiva.

Molto aspre furono anche le lotte ingaggiate dagli operai. Nel 1948 Adolfo Orsi, proprietario delle omonime officine metallurgiche che costituivano il maggior gruppo industriale modenese in quegli anni, volle licenziare ventisei operai; tale decisione provocò la reazione della FIOM (Federazione Italiana Operai Metallurgici) che rispose con diverse forme di protesta tra cui il cosiddetto “sciopero progressivo” che consisteva in varie interruzioni del lavoro per quindici minuti che, nell’arco della giornata lavorativa, venivano attuate con sempre maggiore frequenza. Orsi reagì con la “serrata delle fonderie”, ma la vertenza si concluse con la vittoria dei sindacati e la rinuncia a licenziare da parte dell’imprenditore.

Il clima di tensione che scaturì da questo episodio si allargò anche alle altre fabbriche. La Carrozzeria Autodromo, affermata carrozzeria modenese specializzata nella costruzione di autobus urbani, nacque nel 1949 a seguito di una pesante vertenza sindacale all’interno delle Carrozzerie Padane. Ci fu uno sciopero che proseguì ad oltranza e che comportò alcuni licenziamenti da parte delle Padane (circa 60 dipendenti). Ad un certo momento, per aiutare i licenziati, la Orlandi fece fare qualche lavoro a questi in capannoni improvvisati, anticipando così quel ricorso all’esterno che diverrà prassi successivamente. Questo fu il primo nucleo, con questi dipendenti licenziati dalle Padane che si formarono in cooperativa, che costituì poi la Carrozzeria Autodromo la quale, probabilmente anche per l’affinità politica dei suoi componenti con i governanti della città, divenne grande fornitrice di veicoli urbani per il Comune di Modena.

Il malcontento si diffuse in tutta la provincia. A Carpi la Marelli chiese di licenziare 60 dipendenti. A Mirandola la ditta Barbi multò un intero reparto perché si rifiutava di fare ore di straordinario. La Valdevit lasciò a casa tutti i suoi 280 operai. Il 9 gennaio del 1949 vi fu una grande manifestazione operaia che si concluse con l’intervento della polizia e numerosi arresti e feriti. Nel corso di quell’anno la polizia intervenne con grande decisione contro i lavoratori in ben 181 vertenze sindacali. Il culmine della crisi si ebbe il 9 gennaio 1950 quando tutte le categorie sindacali inerenti alla CGIL proclamarono uno sciopero generale a causa di una serrata padronale della fabbrica di Orsi che durava ormai da quaranta giorni. In seguito agli scontri tra i lavoratori e la polizia quel giorno vi furono 6 morti e 140 feriti. In quello stesso giorno il ministro dell’interno Mario Scelba abbandonò questa durissima linea antisindacale.

Il vecchio modello economico italiano basato su bassi salari e commesse statali venne dunque abbandonato nei primi anni ’50. La situazione iniziò lentamente a modificarsi: dalla disoccupazione dilagante dell’immediato dopoguerra si passò a periodi di pieno impiego; si arrestò il fenomeno dell’emigrazione verso le Americhe e la Germania e si propose un nuovo fenomeno di immigrazione dal sud della penisola verso le più ricche zone del nord.

Nel decennio che va dal 1954 al 1964 si verifica il grande cambiamento dell’economia modenese che diventa da agricola a industriale. Gli abitanti in provincia sono passati da 270.000 a quasi 600.000, è scomparso l’analfabetismo, l’attesa di vita alla nascita è più che raddoppiata. Assume particolare importanza l’incidenza delle donne sulla popolazione attiva: da circa 70.000 su 240.000 nel 1951 a oltre 100.000 su 280.000 nel 1981. La popolazione attiva si suddivide nei tre principali settori secondo la seguente tabella:

Tabella 1.2: Popolazione attiva per settori di produzione, dati in percentuale 1951-1991 (Modena-G.Muzzioli).

Settore/Anno

1951

1961

1971

1981

1991

Agricoltura

56

34

19

10

9

Industria

25

41

49

51

44

Terziario

19

25

32

39

47

 

Nella graduatoria del reddito pro capite delle province italiane Modena, dal quarantesimo posto dell’inizio degli anni ’50, è passata al ventottesimo posto nel 1965 per salire poi al vertice di questa graduatoria negli anni ’80.

L’economia modenese è dunque in un periodo di grande espansione e di importanti cambiamenti. La Orlandi in questi anni riafferma il proprio ruolo di azienda leader nel settore del trasporto di massa. Si guarda con interesse ai mercati esteri come Grecia, Jugoslavia ed Argentina. In Spagna, per qualche tempo, opera una officina espressamente realizzata per la produzione dei modelli Orlandi.

Il 28 maggio 1956 si costituisce la Carrozzeria Emiliana Renzo Orlandi S.N.C. con sede a Modena in via Emilia Ovest 436. La durata viene fissata fino al 31 dicembre 1965 ed il capitale sociale è di 45 milioni di lire. I soci sono il Cavaliere del Lavoro Renzo Orlandi con una quota del 90% ed il figlio l’Ingegner Angelo Orlandi con una quota del 10%. Tale società si trasforma poi da S.N.C. a S.p.A. il giorno 27 dicembre 1961; la durata, nel 1964, viene prorogata fino al 31 dicembre 2050 e viene resa ulteriormente prorogabile per deliberazione dell’assemblea degli azionisti.

Estremamente importante per lo sviluppo della Orlandi è il passaggio dello stabilimento di via Emilia Ovest all’altezza di quello che oggi è il Parco Ferrari a quello attuale sempre in via Emilia Ovest in prossimità di località Bruciata. Il giorno 28 dicembre 1962 viene acquistato dal Sig. Giuseppe Mariini il terreno dove sorge la sede attuale della carrozzeria in Via Emilia Ovest 465 (con gli anni poi il numero civico è divenuto 911) al prezzo di lire 17.500.000. Questo trasferimento, che avverrà poi nel 1964, è molto importante perché oltre ad un miglioramento sotto l’aspetto estetico e tecnico, si cominciava a dover pensare ad un prodotto che si poneva in concorrenza con l’estero. Si cominciavano inoltre a sentire i primi contatti e le prime collaborazioni con le case straniere quali Magirus, Man, Mercedes, Berliet e Saviem.

Segue un periodo di difficoltà per tutta l’industria italiana: il ’68 porta, infatti, cambiamenti radicali tra i datori di lavoro ed i lavoratori, si formano organizzazioni sindacali estremamente forti. Tutto ciò porta ad una forte crisi nel settore che dura 2-3 anni causando notevoli difficoltà nella normale gestione aziendale.

Per alcuni anni, d’accordo con il padre dal quale aveva oramai ereditato il controllo sull’azienda, Angelo Orlandi ha proseguito il lavoro suo e dell’azienda a scapito di ingenti perdite economiche. Quando vide che poteva esserci un pericolo per la salvaguardia dei posti di lavoro, quando vide che poteva esserci un pericolo per il lavoro di tre generazioni compromettendo non solo gli aspetti economici, ma anche il buon nome della ditta, Angelo Orlandi iniziò a cercare un partner che potesse apprezzare quello che era il valore dell’azienda, non tanto come mura e come macchinari, quanto per l’elemento umano che ci stava dietro, a cominciare dagli operai per finire a questa famiglia che si era sempre dedicata a questo settore.

La prima proposta venne dalla Mercedes con cui Angelo Orlandi rimase in contatto per parecchio tempo. Prima di chiudere con la casa tedesca questi ritenne opportuno verificare se vi fosse una possibilità che la cosa potesse interessare alla Fiat. Questa ringraziò per l’offerta e chiese all’Ingegnere di prendere un po’ di tempo prima di dare una risposta alla Mercedes.

Successivamente la casa torinese mandò a dire che attraverso l’OM, che allora insieme alla stessa Fiat, alla Magirus ed alla Unic stava costituendo la Iveco, poteva esserci questo interesse e fu così che Angelo Orlandi trovò il socio che cercava nella Fiat Veicoli Industriali che poi divenne Iveco. La Fiat divenne quindi socia con un pacchetto di maggioranza del 70%. Del rimanente 30%, il 28% fu conservato da Angelo Orlandi, mentre alle sue due sorelle spettò l’1% ciascuna.