“Quel fascino di lei che si narra” |
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L’incantesimo freddo ma limpido di Marina Jarre torna intatto
nelle pagine de I padri lontani
ripubblicato ora da Bollati Boringhieri, non un romanzo, forse, come la
definizione editoriale vorrebbe, bensì un insieme solidissimo di tre
argomentazioni narranti che si intersecano e si completano l’una nell’altra
attorno al personaggio femminile che vive e che narra.
Proiettato nella lontananza che confonde le prospettive ma che,
allo stesso tempo, rinfocola lo spasimo del desiderio e della nostalgia, I
padri lontani gode di un’asciuttezza espressiva esemplare e di certo costituisce
- assieme a “Negli occhi di
una ragazza” (’71), “Un
leggero accento straniero” (’72) e “Tre giorni alla fine di
luglio” (’93) - quel piccolo tesoro di Marina Jarre che non ha mai cessato
giustamente d’essere fedele alla gioia del narrarsi.
È proprio dal fondo autobiografico, infatti, che tutti i suoi
libri prendono sostanza. Essi ne ricavano la giustezza, il taglio, le
dimensioni psicologiche, i contorni dei personaggi e dei paesaggi: insomma, una
geografia intima che pulsa come un sangue pulito dentro le vene di un corpo
sano, il quale, pur ferito in parte dagli anni e dalle sconfitte dei sensi,
riesce a recuperare l’agilità del confronto fra generazioni e mondi lontani,
fra passato e presente, fra attonita contemplazione della vita e ricchezza
quotidiana dell’esistere.
Spesso si è parlato e scritto, in proposito, prendendo spunto
dai volumi della Jarre per tracciare le linee rivelative di un possibile
capitolo della nostra narrativa novecentesca “al femminile”, come si dice. Ma
ci pare che un simile tentativo - dentro il quale si potrebbero collocare senza
troppe preoccupazioni la Ginzburg e la Morante, la Marghieri e la Banti, la
Romano e la Quaretti - non presenterebbe eccezionali e ricche opzioni di
ricerca. Sono tutte dimensioni che collimano in certi punti, non fondendosi
però mai del tutto. E la riprova è qui, in questi Padri lontani
dove non il romanzo ma il romanzesco raggruma i ricordi e le intenzioni
scanditi in tre tempi, “Il cerchio di luce”, “La pietà e l’ira” e “Come donna”,
che hanno tutti un incipit scontroso e bellissimo, frammentato e
diaristico, simile a una porta angusta che si apre poi, via via che la vicenda
prende corpo, sopra spazi immensi di memoria, di suggestioni e di poesia.
Poiché al fondo di queste pagine, lo si dichiari o no, c’è la poesia, cioè il
condizionamento segreto e lirico del momento centrale in virtù del quale l’Io
che pronuncia la storia la determina anche e la movimenta.
Esemplare, in questo senso, resta il capitolo centrale del libro
“La pietà e l’ira”, dentro il quale “una lieve sensazione di pietà” appunto
tiene avvinti personaggi e pensieri, avventure e parole, restituendo cosi alla
biografia (e all’autobiografia) il proprio senso di relazione esistenziale,
l’essere con gli altri e per gli altri. Chiamando a raccolta “le vie di una
città gotica insieme ad amici senza nome” la Jarre recupera con straordinaria
semplicità - e qui sta il fascino della sua pagina - l’epoca e la misura di un
racconto che proprio attraverso il grido spento del tempo cerca di sfuggire
alla morte fisica e all’altra morte, forse ancora più pesante, la dimenticanza
e il silenzio.
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02/01/01
[ 1]Giuseppe Marchetti: “Quel fascino di lei che si narra”, Il Giorno, 29/1/95