GIUSEPPE MARCHETTI [ 1] 

“Quel fascino di lei che si narra”

L’incantesimo freddo ma limpido di Marina Jarre torna intatto nelle pagine de I padri lontani ripubblicato ora da Bollati Boringhieri, non un romanzo, forse, come la definizione editoriale vorrebbe, bensì un insieme solidissimo di tre argomentazioni narranti che si intersecano e si completano l’una nell’altra attorno al personaggio femminile che vive e che narra.

Proiettato nella lontananza che confonde le prospettive ma che, allo stesso tempo, rinfocola lo spasimo del desiderio e della nostalgia, I padri lontani gode di un’asciuttezza espressiva esemplare e di certo costituisce - assieme a “Negli occhi di una ragazza” (’71), “Un leggero accento straniero” (’72) e “Tre giorni alla fine di luglio” (’93) - quel piccolo tesoro di Marina Jarre che non ha mai cessato giustamente d’essere fedele alla gioia del narrarsi.

È proprio dal fondo autobiografico, infatti, che tutti i suoi libri prendono sostanza. Essi ne ricavano la giustezza, il taglio, le dimensioni psicologiche, i contorni dei personaggi e dei paesaggi: insomma, una geografia intima che pulsa come un sangue pulito dentro le vene di un corpo sano, il quale, pur ferito in parte dagli anni e dalle sconfitte dei sensi, riesce a recuperare l’agilità del confronto fra generazioni e mondi lontani, fra passato e presente, fra attonita contemplazione della vita e ricchezza quotidiana dell’esistere.

Spesso si è parlato e scritto, in proposito, prendendo spunto dai volumi della Jarre per tracciare le linee rivelative di un possibile capitolo della nostra narrativa novecentesca “al femminile”, come si dice. Ma ci pare che un simile tentativo - dentro il quale si potrebbero collocare senza troppe preoccupazioni la Ginzburg e la Morante, la Marghieri e la Banti, la Romano e la Quaretti - non presenterebbe eccezionali e ricche opzioni di ricerca. Sono tutte dimensioni che collimano in certi punti, non fondendosi però mai del tutto. E la riprova è qui, in questi Padri lontani dove non il romanzo ma il romanzesco raggruma i ricordi e le intenzioni scanditi in tre tempi, “Il cerchio di luce”, “La pietà e l’ira” e “Come donna”, che hanno tutti un incipit scontroso e bellissimo, frammentato e diaristico, simile a una porta angusta che si apre poi, via via che la vicenda prende corpo, sopra spazi immensi di memoria, di suggestioni e di poesia. Poiché al fondo di queste pagine, lo si dichiari o no, c’è la poesia, cioè il condizionamento segreto e lirico del momento centrale in virtù del quale l’Io che pronuncia la storia la determina anche e la movimenta.

Esemplare, in questo senso, resta il capitolo centrale del libro “La pietà e l’ira”, dentro il quale “una lieve sensazione di pietà” appunto tiene avvinti personaggi e pensieri, avventure e parole, restituendo cosi alla biografia (e all’autobiografia) il proprio senso di relazione esistenziale, l’essere con gli altri e per gli altri. Chiamando a raccolta “le vie di una città gotica insieme ad amici senza nome” la Jarre recupera con straordinaria semplicità - e qui sta il fascino della sua pagina - l’epoca e la misura di un racconto che proprio attraverso il grido spento del tempo cerca di sfuggire alla morte fisica e all’altra morte, forse ancora più pesante, la dimenticanza e il silenzio.

 

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02/01/01


 [ 1]Giuseppe Marchetti: “Quel fascino di lei che si narra”, Il Giorno, 29/1/95