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“Storia di un nazista dai «lager»
a Torino” |
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Marina
Jarre propone “Un leggero
accento straniero”, lungo racconto edito da Einaudi in cui ha ripreso
un suo precedente lavoro. Abile ritratto della borghesia torinese
Annotava Pavese nel suo diario di uomo e di scrittore che
rimettere le mani su di un proprio racconto a distanza di tempo è sempre un’operazione
rischiosa. L’arte ha una sua precisa e rigida legalità interna, alla quale
nemmeno l’autore può sottrarsi. Intervenire su pagine già scritte significa
spesso sovrapporvi indebitamente non solo un nuovo modo di concepire il fatto
artistico, ma persino una diversa “visione del mondo”, poiché romanzo
romanziere non si mantengono nel tempo equidistanti, ma vivono di vita propria
e autonoma, percorrono strade non di rado divergenti.
Marina Jarre ha invece saputo attuare questo lavoro di revisione
senza che il suo intervento venisse a turbare equilibri per loro natura
delicatissimi. Il grosso romanzo “Un leggero accento straniero” pubblicato in
queste settimane, dall’editore Einaudi, altro non è, infatti, che la
rielaborazione di “Monumento al
parallelo”, uscito circa quattro anni fa e - per le sue indubbie qualità -
certamente meritevole di un successo maggiore di quello effettivamente
ottenuto. Ma adesso, con “Un leggero accento straniero”, l’occasione che allora
critica e pubblico lasciarono cadere si ripresenta, e questa volta sarà bene
coglierla, tanto più che la nuova stesura si presenta notevolmente più agile e
organica di quella precedente, smentendo, almeno in questo caso, l’avvertimento
pavesiano.
Ripercorriamo, intanto, la trama, perché Marina Jarre è una
scrittrice che ha ancora vivo il gusto del racconto, della costruzione
romanzesca, del disegno dei personaggi, e rifiuta la moda della pagina astratta
e intellettualistica. “Un leggero accento straniero” è la storia della
progressiva integrazione nell’ambiente torinese di un ex “SS” giunto nella
nostra città fin dal primo dopoguerra con un falso passaporto svizzero e
impiegatosi in un’impresa edile. Già questa intuizione di scegliere Torino come
la città più adatta al trapianto etnico e ideologico di un ex nazista è senza
dubbio significativa, recando implicito tutto un discorso su questa metropoli
dai due volti, perbenista e ipocrita, esasperatamente tecnologica eppure ancora
in tante cose provinciale, debitrice verso l’immigrazione, e tuttavia legata a
pregiudizi di razza. Ma ciò che più conta, è che la Jarre è riuscita a
trasformare questa intuizione in una vicenda concretamente romanzesca, in cui i
molti significati e i diversi piani di lettura legano perfettamente con gli
sviluppi del racconto.
Questo si svolge all’inizio su due piani distinti. Da un lato
abbiamo le confessioni in prima persona dell’ex nazista Klaus Boher, che
ritorna con insistenza ai suoi inquietanti ricordi e rievoca con freddo distacco
etico i crimini compiuti durante la guerra; dall’altro abbiamo un gruppo di
giovani torinesi, cresciuti insieme e ormai uniti come in un “clan” da un
linguaggio comune, da esoterici sottintesi, da atteggiamenti dinanzi alla vita
maturati collettivamente in una reciproca attribuzione di “parti” da recitare e
di etichette da rispettare. C’è il Carlin, innanzi tutto, il più intelligente e
sensibile della “banda”, ma corroso da una sottile nevrosi che gli impedisce di
affrontare gli esami; c’è Filippo, che è l’opposto del Carlin e rappresenta il
paradigma dell’efficienza non solo nello studio, ma anche nella vita di
società; c’è Marianna, nota come la graziosa “vacchetta” del gruppo; e poi
Daria Cohen, Maria Grazia, Gino e Patrizia, che rappresentano i due anelli
attraverso cui si salderanno sempre più intimamente le vicende dell’ex nazista
e quelle della “banda”. Gino, infatti, diventerà socio di Boher quando questi
deciderà a metter su uno studio in proprio, e Patrizia, sposandolo, ne segnerà
il definitivo inserimento nella società torinese.
Parallelamente si sviluppa la storia dell’amore tra Daria e
Filippo, che domina tutta la seconda parte del romanzo […]
Marina Jarre vive a Torino ma è nata a Riga
nel 1925 da padre lettone di origine
ebraica e da madre italiana. Logico,
quindi, che “Un leggero accento straniero” presenti componenti autobiografiche
facilmente individuabili, specie nelle pagine sulla giovinezza di Daria Cohen.
Ma le esperienze personali legate al genocidio sono filtrate non solo
attraverso un’autentica ricerca poetica, ma anche attraverso l’aspirazione a
dare dei crimini nazisti e della società, che solo epidermicamente li ha
puniti, un ben preciso giudizio morale.
Klaus, riflettendo sul proprio passato, mostra di aderire, tutto
sommato, ad un’etica di tipo hegeliano, giustificando come razionale tutto ciò
che è reale, rifuggendo da ogni responsabilità soggettiva: «I miei inconsistenti e inutili
rimorsi. Inutili come solo possono essere i rimorsi di chi fu scelto pur
credendo di scegliere. Inconsistenti come sarebbe inconsistente la vostra
persuasione d’aver fatto giustizia condannandomi. Se mai riuscirete a
prendermi. Sono stati avvenimenti e scelte e casi più grandi di noi, più grandi
di voi e di me. No, godiamoci quell’aria che entra dal finestrino e la carezza
delle tue piccole mani, Patrizia. E se non mi credete, guardate i fatti,
guardate le conclusioni. Guardate da che parte è stata la fortuna - poiché è
pur sempre fortuna, no, vivere e respirare e mangiare e morire d’una morte
decente - guardate com’è finita, al di là dei mucchi di cadaveri scarniti, al
di là dei mucchi di vestiti vuoti, al di là della cenere, al di là degli urli e
del terrore, al di là della serranda del garage, guardate da
che parte è stata la fortuna. Da che parte è stato Dio. Che colpa ne ho io, se
Dio è stato con me, se Dio è stato con noi? »; così, attraverso questa agghiacciante autodifesa, Klaus sembra
diventare il profeta di una società che ha dimenticato troppo in fretta, senza
neanche aver avuto il tempo di pentirsi. E viene spontaneo pensare a quali
nuovi miti si sia ispirata la nostra vita: non più quello della razza, certo,
ma a quello del benessere, del consumo, della tecnologia. Tutte cose, in fondo,
non meno pericolose né meno capaci di intorpidire le nostre coscienze.
C’è dunque nel romanzo della Jarre un profondo discorso civile.
Ma ci sono anche tutti gli altri ingredienti di una narrazione solida e abile.
Non per niente tra la stesura di “Monumento al parallelo” e quella di “Un
leggero accento straniero” si inserisce nel curriculum letterario della
Jarre un altro titolo, “Negli
occhi di una ragazza”, romanzo in cui le risorse tecniche sono state
portate a grande levigatezza ed a rigorosa perfezione. Ma qui, in più rispetto
a questa tappa intermedia, c’è un puntuale ritratto di Torino e della sua
società: un ritratto non messo giù semplicemente con astuzia spregiudicata,
come ad esempio nel “giallo” di Fruttero e Lucentini, ma sorretto da
un’autentica ispirazione.
La Torino della Jarre non trova riferimenti letterari, perché è
la Torino di tutti i giorni, con le affollate vie del centro, cinema e negozi
che non avremmo mai pensato potessero “far poesia”, distese periferiche, piazza
Vittorio, il “borgo del fumo”, il caffè “Fedele” sotto la Mole Antonelliana. E
dietro a tutto questo, idealmente dominante, il piccolo monumento al quarantacinquesimo
parallelo sistemato in piazza Statuto: monumento emblematico, perché solo in
una città ligia alle convenzioni come la nostra poteva nascere l’idea di
celebrare ufficialmente una “convenzione geografica”, qual’è, appunto, questo
famoso quarantacinquesimo parallelo che - assicurano i geografi - passa per un
caso fortunato all’ombra della Mole.
Proprio qui, in questa rispondenza interna di messaggio civile,
di trama e di luoghi, si chiude il cerchio del romanzo della Jarre. Un romanzo
ricco e denso, carico di stimoli e di polemica, per cui c’è da credere che
questa volta i lettori gli renderanno giustizia. Salvo, forse, quelli torinesi.
Ma si sa che la cosa più difficile è guardarsi allo specchio e trovarsi
gradevoli.
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02/01/01
[ 1]Piero Bianucci: “Storia di un nazista dai «lager» a Torino”, Gazzetta del Popolo, 23/8/72