GIAN LUCA FAVETTO[ 1] 

“Tornare a casa”

Marina Jarre è tornata a Riga

dove è nata e dove la sua famiglia è stata massacrata dai nazisti.

Un viaggio molto duro, anche dentro se stessa.

Un palo della luce in mezzo al nulla, una distesa piatta di nulla, solo campi verdi e marrone. All’orizzonte, lontano, piccolissimi cominciano gli alberi, la prima linea di una foresta. Sopra, un cielo alto e piatto con squarci azzurrognoli, gonfio di nuvole che sembrano dirigibili. In cima al palo, un grande nido di cicogne. Sotto, una lunga strada diritta che va da Jelgava, un tempo si chiamava Mitau, a Riga.

Questo è un angolo di Curlandia riassunto in una foto. La Curlandia è un grande promontorio che si spinge nel Mar Baltico e appartiene alla Lettonia. La fotografia si trova su Internet ed è una porta, un ingresso. Giri per la rete, t’imbatti in questa foto ed entri in una storia: t’incammini e vai indietro nel tempo sulle tracce di un ritorno a casa. A compierlo e raccontarlo è Marina Jarre, 76 anni, nata a Riga, la vita divisa tra Val Pellice e Torino, scrittrice, una dozzina di libri pubblicati con l’Einaudi e la Bollati Boringhieri, Un leggero accento straniero, Viaggio a Ninive, I padri lontani, Ascanio e Margherita. C’è il suo nome sopra la foto. Sotto, il versetto 9 del salmo 56: I passi del mio vagare, o Dio, li hai contati, / le mie lacrime nel tuo otre hai raccolto, / non sono forse scritte nel tuo libro? In mezzo, il titolo: Ritorno in Lettonia. «Non è un romanzo, è una testimonianza», spiega, «nulla di quello che ho scritto è inventato fuorché il primo capitolo, che è come un racconto a parte». Anche il primo capitolo, Palestina, si può leggere su Internet. Altri dieci giacciono su una poltrona, battuti a macchina con un’Olivetti Lettera 35. Manca il dodicesimo, l’ultimo: il titolo è il verso di una poetessa ebrea, Nelly Sachs, Ma chi vi tolse la sabbia dalle scarpe. Lo comincia in questi giorni. La storia di una settantenne che si mette in viaggio per fare i conti con se stessa, con una tragedia e con le proprie radici. «Non dire radici», brontola la Jarre, «non ho radici, sono così mista che non ho radici, sono la radice di altri». C’è una seconda cosa che non devo dire, giustamente, che non dobbiamo dire, e non solo perché dà fastidio a lei: Olocausto. Le s’incrina la voce, quando osserva: «Una parola riduttiva, in italiano significa altro, non bisogna adoperarla. Ciò che è accaduto agli ebrei in Europa durante il nazismo non è stato un sacrificio, è stato un massacro: difficile prenderlo con le parole, non ha nome, le proporzioni sono apocalittiche. Una Shoah, usiamo Shoah per definire l’orrore». E mentre lo dice, Marina Jarre, donna forte, rocciosa, severa, ma con il sorriso pronto, sarcastica, mentre dice questo, piange.

Jarre è il cognome del marito. Il suo è Gersoni. «Sono mezza ebrea e mezza valdese, ho scelto minoranze piuttosto originali, no? Nascere in Lettonia da madre barbetta ce ne vuole già. Un ebreo con cui corrispondo sui nostri reciproci antenati mi sfotte ancora, dice che non ci crede, che devo averla combinata grossa per aver spinto il buon Dio ad infliggermi questa condanna». Aggiunge: «Curioso che i Gersoni siano arrivati fin lassù, perché erano sefarditi, ebrei spagnoli. Il cognome è segnato sul libro nero della chiesa cattolica spagnola, Sangria judia. Ho sempre pensato che Balthasar Garzón, il giudice madrileno che chiede conto dei crimini di Pinochet, sia un Gerson, un Gersoni. L’avevo letto tale e quale in un elenco russo, poi l’ho scoperto in un elenco di ebrei sefarditi del Marocco, dove ho trovato sia Garzón sia Gersoni. Derivano da Gershon, nome ebraico con una gran quantità di varianti». Trovava ciò che cercava: la sua famiglia, il suo passato, le sue origini. La sua storia. A settembre del 1999 è partita per Riga, dove è nata nel 1925. È «ritornata». Ha preso tempo. Ha toccato con mano l’incubo. Quando n’è uscita, ha cominciato a scrivere. Il viaggio sta diventando un libro, «una testimonianza» come la chiama lei, un sentiero buio che si deve percorrere fino in fondo. «L’ho scritto per tutta la vita. I libri nascono prima che li metta su carta. Anche se sembrano fatti esteriori a dettarli, incontrano se stessi dentro di noi». Non ha scritto un libro dopo essere stata in Lettonia, dice. Una storia personale l’ha portata là e quella storia lei si è messa scrivere per tornare qui, risbucare in riva al Po e continuare a vivere. È la storia dei Gersoni: «Sono andata in Lettonia per due motivi. Il primo, perché mi ha accompagnato mio figlio. Non ho mai parlato in famiglia di quello che è successo lassù agli ebrei, a noi, troppo brutto, orrendo. Respingevo l’idea. Poi, un giorno, mio figlio Pietro ha organizzato il viaggio di nascosto. Mi ha avvertito un mese prima, non ho potuto dire no». Ammette la paura: di se stessa, del passato, di tutto. «Non volevo tornare indietro dentro di me. Consideravo la cosa chiusa, non risolta, ma chiusa». E invece.

E invece non c’è niente di chiuso nella Shoah, niente di chiuso nell’orrore. E nemmeno nella memoria, che magari si distrae, fa finta di niente per anni, ma intanto macina, basta poco per farla rinvenire: un viaggio, un palazzo, una strada, un nome. Dalla memoria, che scriveva il libro prima che la Jarre arrivasse a Riga, è riemersa una doppia storia. «Una, racconta la morte di mio padre e della sua famiglia», spiega, «di tutti gli ebrei dei Paesi baltici, un numero enorme che non voglio dire, non lo dico, mi vergogno, per farsi un’idea basti sapere che sono stati più di un quinto di tutti gli abitanti». Fare numeri vuol dire negare l’anima, non pensare le vittime come persone: dici 1.000.000 e non vedi nessuno, solo una cifra. Niente numeri, dunque. La Jarre cerca le parole, ma anche le parole sono difficili. Prende fiato, abbassa gli occhi mortificata e scandisce: «I nazisti in Estonia, Lituania, Lettonia, Bielorussia, Ucraina e Crimea hanno sterminato tutti già nel 1941, poi sono stati fermati dai russi. In mezzo a questa tragedia di popolo, dovevo fare i conti con me stessa, un obbligo prima di morire, altrimenti perché si è vissuto? Dovevo farli sul rapporto con mio padre, cosa resa più difficile per il modo in cui è morto: lo hanno ucciso nel primo massacro, il 30 novembre 1941, una domenica mattina. Se fosse sopravvissuto e lo avessi rincontrato, ora sarebbe diverso. Invece è morto come centinaia di migliaia di ebrei, prima della conferenza di Wannsee organizzata nel gennaio del 1942, quando Hitler diede gli ordini per l’eliminazione completa degli ebrei: nei Paesi baltici era già avvenuta». E lei se n’era già andata.

«Era cominciato nel 1923», rievoca, «Mia madre era partita per Riga come lettrice di italiano all’Università, aveva 27 anni, si chiamava Clara Coïsson, veniva dalla Val Pellice, anche lì guerre continue fra cattolici e valdesi. A Riga incontra mio padre, Samuel Gersoni, più vecchio di dieci anni, appena tornato dall’URSS. Di quei lettoni che avevano combattuto con l’armata sovietica. Fuggito a Pietroburgo, era rientrato in patria nel 1921, dopo che la giovane repubblica aveva perdonato i fuoriusciti. Sul suo certificato, il giorno delle nozze, era scritto: commerciante. Poi ha rappresentato la Michelin nei Paesi baltici. Fra mio padre e mia madre è stata passione furibonda, durata poco. Sono nata nel 1925; mia sorella Annalisa nel 1926; loro si sono separati nel 1934. Nel 1935 mia madre ci ha portate via. Chi è rimasto, è morto. Tutti i parenti sono morti nel 1941, a Libau, oggi Liepaja, e a Riga. Si sono salvati dei cugini, discendenti di un bisnonno che a inizio secolo, settantenne, era emigrato negli Stati Uniti».

Per ricordare: Riga aveva tanti ebrei quanti ce ne sono oggi in Italia; nell’agosto del 1944, quando sono arrivati i russi, n’erano rimasti 150. Hanno fatto la fine di suo padre. Samuel Gersoni, classe 1886, nell’ottobre del 1941 è stato rinchiuso in un ghetto artificiosamente costruito. L’hanno preso insieme a una terza figlia avuta nel 1936 da una tedesca richiamata in patria. Si chiamava Irene, è stata ammazzata anche lei. Loro, invece, erano scappate perché la madre, dopo la separazione, temeva che non fossero affidate a lei. Hanno lasciato clandestinamente la Lettonia nell’estate del 1935, dopo essere rimaste nascoste in Curlandia nella tenuta di una famiglia di baroni baltici. Il padre faceva sorvegliare la stazione di Riga. Si sono servite di uno snodo ferroviario in mezzo ai boschi. Col treno sono arrivate in Lituania e poi in Italia. Di questa fuga ricorda un «pezzo» lasciato indietro, la casa in Curlandia. «L’ho ritrovata, è vicino a Kandaba», dice, «Ho ritrovato tutte le case in cui sono vissuta: quella sul fiume che oggi si chiama Daugava; poi quella dei nonni, scura; l’ultimo appartamento in città; la villa secentesca dei baroni baltici, in rovina, abitata da tre russi con quattro galline, i quali mi hanno informato che i discendenti dei vecchi baroni si sono fatti vivi parecchie volte e mi hanno chiesto se venivo da parte loro». Ha trovato la scuola; il parco con il lago dove guardava i cigni; poi il profumo delle foreste che sanno di resina e mare; poi anche il luogo delle fucilazioni di massa, dove è rimasta sola con quel passato che non ha avuto. Per un po’, adesso, non dice nulla. Stiamo in silenzio. Scuote la testa e con un filo di voce butta lì: «Sono stati giorni emozionanti. Ho pianto una volta sola. Piangevo di più alla partenza da Torino, con mio figlio che mi sfotteva: “Dài, mamma, dobbiamo ancora arrivare, e prima ci fermiamo a Francoforte!” Non riuscivo a controllarmi, avevo paura. Poi, al ritorno, non era più paura, ma sgomento. Ho portato il lutto per mesi».

Dal lutto è riemersa dandosi da fare, cercando documenti, testimonianze, fotografie, e cominciando a scrivere. «Le lettere contenute in questo libro, le storie, le stragi sono tutte vere. Non ho aggiunto una riga». Riflette: «Non c’è consolazione per certe cose. La morte di un marito o una sorella rientrano nella natura; persino la morte di un figlio può essere nell’ordine delle cose, ma una vicenda così è inimmaginabile: hanno fatto fuori famiglie intere, dai nonni alle nipotine, una vera pulizia etnica. So che le stragi continuano ovunque e non si possono fare confronti nella sofferenza: oltre una soglia, è inumano. Non ci sono caratteristiche diverse: soltanto un dolore totale, assoluto. A me è toccato questo. In Africa, in Cina, in Afghanistan, in Cambogia, tocca, è toccato, toccherà ad altri. Dappertutto il Male ha la maiuscola. Non credo esista il Diavolo, ma il Male esiste senza dubbio e non si possono fare paragoni tra uno minore e uno maggiore». Prende le cartelle di Ritorno in Lettonia scritte con la Lettera 35 e le poggia accanto alla tastiera del computer. Sullo schermo c’è la fotografia del palo solitario con il nido di cicogne in cima; ci sono il titolo e l’inizio del racconto. Per la prima volta si rilassa con un sorriso: «Non lo presento a nessun editore. Ho messo il capitolo iniziale in rete. Se a qualcuno interessa, mi cerca. Non me la sento di affrontare la villania dell’intellighenzia italiana con un racconto come questo. So già che, se domandassi di essere letta, sarebbe come chiedere un favore, e sono dell’idea d’essere io a fare un favore dandolo in lettura, non perché sia un capolavoro, ma perché è un libro raro. Mi manca un capitolo, ormai sono alla fine». La fine di un viaggio e di un ritorno. Dopo settant’anni Marina Jarre può dirsi finalmente a casa. «Ho un senso di compiutezza, come se avessi chiuso un cerchio, ma in certi momenti mi accorgo che dentro questo cerchio c’è qualcosa d’irrimediabile. In quel cerchio c’è la vita, passata, presente, futura. Irrimediabile». Lei, lo sa.

 

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09/10/03


 [ 1]Gian Luca Favetto: “Tornare a casa”, Diario, 29/6/01