|
“La luminosa spiaggia della memoria” |
|
Bollati
Boringhieri riporta in libreria I padri lontani,
un incantevole romanzo di Marina Jarre, che ripercorre per noi, in queste
pagine, i momenti cruciali della sua vita.
Il trauma che si ripete. Marina Jarre possiede il senso del
tragico, ma lo declina con accortezza e lo alterna con opportuni intervalli di humour.
La sua voce è densa di modulazioni e passa dal coagulo di un’espressione
arrotata a un inopinato scoppio di riso. Seduta sul divano di casa può fare i
conti col dolore, ma non ha mai l’aria di rinunciare al piacere dell’allegria.
L’umorismo non nasce forse da un distacco?
Nessuna parola grossa e
nessun “passato travagliato”, come si è tentati di suggerire, perché la
scrittrice è subito pronta a interrompere l’interlocutore con una risata: “Mi
viene sempre attribuito un passato e io non so se ho veramente un passato”.
Pronuncia “passato” come una parola da triturare e spiega: “Sono una persona
che non ama pensare al passato. In linea di massima vivo molto nel presente e
anche un pochino nel futuro. Preferisco le cose che mi capitano improvvisamente.
E poi il passato, a dire il vero, mi diventa sempre più antipatico. Sarà per
questo che quando a gennaio sono stata costretta a rileggere il mio romanzo
autobiografico I padri lontani mi ha preso una grande tristezza: un po’ perché
buona parte delle persone nominate nel libro non ci sono più, un po’ perché c’è
un abisso tra il tempo in cui l’ho scritto - dieci e più anni fa - e adesso. Da
perfezionista quale sono sento molto l’imperfezione della vita e la tristezza
che ho provato viene forse da lì”.
L’occasione dell’incontro con Marina Jarre, nella sua casa
d’oltre Po è appunto la ristampa dei Padri lontani che la Bollati
Boringhieri ha appena mandato in libreria (pp. 181, L. 22.000). Uscito in prima edizione da Einaudi
nell’87, il libro racconta la storia di un’educazione, ma il filo della memoria
non s’incanta nel mito dell’infanzia favolosamente rivissuta come “spiaggia
luminosa e immensa” e risale invece alle radici di un destino.
Una spiaggia
però c’è, nel ricordo di Marina Jarre, ed è quella delle vacanze lettoni:
“Recentemente ho visto in televisione un reportage sulla Lettonia e su Riga. Non ho sentito assolutamente niente dentro di me
fino a quando non è comparsa la spiaggia. Di colpo ho provato un’emozione
intensa, ho visto le grandi dune e la sabbia color argento in cui mi sono
ritrovata. Mi è successo stranamente la stessa cosa anche in un film che non mi
è piaciuto niente e sul quale ho combattuto battaglie polemiche con tutti, Sole
ingannatore di Nikita Michalkov. La ricostruzione che Michalkov fa di una
giornata estiva del ’37 in una dacia mi ha immediatamente richiamato le mie
estati nelle case di vacanza”. Ridendo conclude divertita: “Sono le occasioni
in cui piango”.
I padri lontani è un romanzo scritto a partire da una
grande distanza: “Quale ne sia stato l’impulso non ricordo più - sottolinea
l’autrice -. È cresciuto a tappe. Ho scritto, e mi pare anche molto bene, la
mia infanzia perché era staccata da me. Siccome vengo appunto da un altro paese
e ho cambiato completamente tutto, è come se quest’infanzia non appartenesse se
non alla bambina che l’ha vissuta. Quando ho scritto il primo dei tre capitoli
c’era già un’oggettivazione psicologica che invece ho faticato molto a dare al
seguito”.
Figlia del figlio di un industriale del cuoio che aveva fatto
fortuna per amore commerciando pellicce in Siberia, e di una lettrice di
italiano di origini valdesi, Clara Coïsson,
nota agli addetti come bravissima traduttrice (sono sue molte traduzioni di classici
russi pubblicate da Frassinelli e da Einaudi), Marina Jarre ha vissuto fino
ai dieci anni a Riga, nella Lettonia pre-sovietizzata.
“Ho conosciuto pochissimo mio padre
- ricorda - e nemmeno ne ho sentito parlare molto perché mia madre taceva
completamente e mia nonna, la madre di mia madre, ne parlava male perché lo
detestava. Ma forse ho preso da lui la parte più allegra del mio carattere,
perché mia madre fu a lungo una donna carica di passione, tragica. Lei era
capace di odiare, cosa di cui io non sono capace affatto. Di fronte ai suoi
rancori secolari io cercavo sempre di ammorbidire e mi sentivo dare della
vigliacca”.
Un bel sorriso compare d’un tratto nel cerchio luminoso dei
capelli candidi, di taglio maschile, mentre la scrittrice dichiara con buffa
rassegnazione: “Niente archibugio, non sparavo”.
La materia dei Padri lontani è ordinata in tre grandi
tappe, a partire da un “futuro riparatore”, ossia da un approdo serenatore.
Infanzia a Riga, adolescenza a Torre Pellice, e
il resto a Torino. Fatti scabrosi e dolorosi narrati come grumi disciolti se
non dissolti. Ma un dolore liberato che fuga il rischio dell’arroganza e una
scrittura precisa che sigla con la sua esattezza il vero coraggio della pietà.
L’umorismo può dunque illuminare il cuore della tragedia con la consapevolezza
matura che nessuno sfugge “agli errori contenuti nelle ampolle lunari delle
follie di tutti”.
C’è, di fatto, da smarrirsi a leggere questo passo del libro in
cui trapela la famosa allegria: “Il mio nonno lettone e la mia nonna russa sono
ebrei. I miei nonni italiani - ma in realtà
sono anche un po’ francesi - sono valdesi. Mia madre è valdese. Alcuni lettoni
- i più stupidi - sono cattolici. Ma è anche cattolica la zia Jo che non è
affatto stupida. Anche Petkevič, il
nostro autista, è cattolico. I polacchi sono cattolici. I russi sono ortodossi,
ma la mia nonna russa è ebrea. D’altronde i russi che stanno all’ambasciata
sovietica non sono ortodossi. Sono come mio padre: non hanno religione”.
Oggi, a un bel po’ d’anni da allora, Marina Jarre ha appreso a
dipanare risoluta la matassa: “Sono molto religiosa -afferma - nel senso che
rapporto a Dio tutto ciò che accade e che mi accade. Non credo però nella
Provvidenza e sono completamente eterodossa. Non credo nel primato papale di
cui tanto si discute proprio in questi giorni. Non credo assolutamente nella
buona volontà del Papa. Credo in un Dio unico, di tutti, che trovo in tutte le
religioni, mentre le istituzioni no, ne diffido: cristiana, ebraica, islamica,
non fa differenza. Non mi fido, non mi fido, non mi fido. Non mi farei
cattolica neanche dipinta”.
Il divorzio dei genitori sbalza improvvisamente la bambina
Gersoni (questo il cognome paterno) dalla campagna lettone ai prati e alle
pietraie delle valli valdesi: dal tedesco di Riga al bilinguismo
franco-italiano della valle del Pellice. Tre lingue, conosciute benissimo, ma
nessun meticciato: ogni lingua un mondo a sé, e nessuna sentita come materna.
Si sono poi aggiunte la lingua inglese e quella russa. La russa studiata dopo
la morte del marito, Giovanni
Jarre: “Con la morte di mio marito è stato come se il trauma dell’infanzia
si ripetesse. Ho di nuovo perso la mia casa, la mia patria, tutto. Per la
seconda volta ho dovuto imparare a vivere in modo diverso. Morto lui, la mia
vita è cambiata completamente. Avevo bisogno di applicarmi a qualcosa di forte,
di impegnativo e ho studiato il russo, che ora leggo decentemente, capisco
decentemente e parlo in modo rudimentale”.
Rispetto a questo secondo trauma, il trauma infantile risulta
profondo ma meno grave. Perdere la casa paterna, la lingua, gli amici, tutta
una parte della famiglia poi ingoiata dalla guerra e dall’olocausto, è certo
tremendo. Ma può essere assorbito meglio, perché - dice la Jarre - “i bambini
sono più robusti e hanno un futuro”.
Costretta ad attraversare la nuova frontiera, dove altri padri
non meno lontani di quello naturale coltivano austere renitenze, vive una
stagione aspra e contraddittoria: “A parte la natura, Torre Pellice non mi
piaceva perché mi sentivo ancora molto straniera”. Affidata ai nonni, la
sbiecata adolescente allena tuttavia il suo francese giocando di vis polemica
soprattutto con la nonna “ingiusta e spiritosissima”.
Poco conta, lì per lì, che a far da contrappeso possa nascere
all’ombra fascinatrice di certi momenti un desiderio covato con lunga pazienza:
“Nelle valli valdesi si recitava ogni anno e forse si recita ancora un dramma
storico e io adoravo andare a teatro. A tredici anni ho letto tutto Schiller,
mi commuovevo, lo recitavo e da allora ho sempre desiderato scrivere un dramma
storico. Avevo raccolto molto materiale e nei Padri lontani l’ho
introdotto un po’ a forza. Giulio Bollati mi ha detto: «Cosa c’entra questa storia dei
valdesi col tuo libro? Vuoi scrivere un libro sui valdesi? Scrivilo». Il romanzo storico che la
Bollati Boringhieri mi ha pubblicato cinque anni fa, Ascanio e Margherita, è nato
proprio così. Poi ho avuto anche la soddisfazione di vederlo rappresentato a
teatro, messo in scena da Renzo Sicco”.
Torino è l’approdo dei diciott’anni, un’università frequentata
da pendolare e fortunosamente durante la guerra, a rincorrere un lui senza
compenso e a dare esami qua e là, persino in una cantina sotto Mulassano, “con
il vecchio Tacconi, di letteratura greca, che nemmeno ascoltava più, tutto
preso dai suoi dei”. Due i ricordi nitidi: un incubo e una rivelazione. Incubo
il rifugio antiaereo sotto i Cappuccini (“dove non sarei mai entrata se
un’ondata di folla non mi ci avesse trascinata”). Rivelazione il XXVI
dell’Inferno dantesco, Ulisse e il “folle volo”, recitato da Francesco
Pastonchi in un’aula di via Po: “Prima di quel momento avevo stentato ad
acquistare sensibilità per la letteratura italiana. La studiavo, avevo buona
memoria, ero molto brava, scrivevo benissimo ma la letteratura italiana non mi
piaceva. Salvavo solo Leopardi, il Tasso, soprattutto il duello di Tancredi e
Clorinda, per quella carica erotica che un adolescente sente anche se non sa
cos’è, e poi Machiavelli, Il principe. Il resto zero. Capitata in
quell’aula di via Po, fui folgorata. Di colpo ho capito. È stato l’unico
avvenimento della mia vita universitaria”.
C’è tanta Torino nelle prime pagine dei Padri lontani, e
ce n’è un po’ dovunque negli altri romanzi, dal grigiore dei quartieri metropolitani
che spuntano dall’evidenza cronachistica del romanzo Negli occhi di una ragazza,
pubblicato da Einaudi nel ’79, fino alle presenze un po’ diafane di Tre giorni alla fine di
luglio, pubblicato da Bollati Boringhieri due anni fa: “Quando sono
venuta ad abitare a Torino da sposata la città non mi piaceva perché mi sentivo
guardata da tutti come una straniera. Nelle scuole in cui ho insegnato poi non
ne parliamo, ero una barbetta infame e fastidiosa. Ora la sento molto mia, la
so girare tutta in tram e mi piace specialmente il fiume. Ci passo almeno una
volta al giorno e lo trovo sempre bellissimo, qualunque tempo faccia”.
Ci sarà Torino anche nel romanzo che sta scrivendo? Marina Jarre
non fa scaramanzie, chiede solo che non lo si dia per certo. È la storia di due vecchie signore che
vivono a Torino, “ma hanno un passato” e dunque ci saranno dentro altre
storie di epoche differenti e di posti lontani: “Falco Nero,
che era un pellerossa, la fine della comunità ebraica di Rodi e anche un
concerto dei Pink Floyd”.
Di piemontese Marina Jarre si riconosce la tendenza a non
esagerare, il rispetto per il lavoro puntuale e ben fatto, il rigore, la
solidarietà accorta, che vuole conoscere con esattezza l’obbiettivo: “Mi sono
molto commossa quando ho visto tutta piazza Vittorio occupata dalle roulotte
che partivano per il Friuli. Forse è stata l’unica volta in cui mi sia sentita
pienamente torinese. Nella solidarietà sapere esattamente dove vanno i nostri
soldi”.
“E poi che altro?” - interroga se stessa - ridendo improvvisa:
“Sì, mi piace il vino. I rossi piemontesi li trovo tra i migliori del mondo. E
anche i formaggi, che non hanno nulla da invidiare ai francesi. In questo sono
molto campanilista”. Intanto la voce si è velata d’un sorriso sfumato e quasi
di un’ombra, unico modo forse per dire con tutta la discrezione del caso: “In
questo nessuno è più piemontese e torinese di me”.
SITE MAP . |
03/01/01
[ 1]Giovanni Tesio: “La luminosa spiaggia della memoria”, Anteprima, 95